Dom(in)are, dom(in)arsi

La primavera mi ha portato sentimenti e sensazioni imprevedibili come il clima. Se però dovessi riconoscere una tendenza, se guardo indietro alle scorse settimane, forse mesi, direi che il mio massimo impegno consiste nel trattenermi e mantenermi negli argini. C’è stato un momento in cui ho temuto di perdere il controllo, ora l’ho ripreso abbastanza saldamente in mano e questo mi dà sollievo, indubbiamente.

Ma se devo essere onesta, se mi guardo un momento negli occhi, riconosco che sono straordinariamente arrabbiata. Forse più profondamente di quanto lo sia mai stata. E’ come se vari rivoli separati di rabbie stessero confluendo in un unico possente torrente, che mischia in una schiuma grigiastra detriti vecchi e nuovi.

Al momento lo lascio scorrere, lo guardo dagli argini che paiono saldi. Ogni tanto rafforzo e puntello un punto o l’altro. Mi appago di un senso di relativa efficienza.

Sono consapevole che questo equilibrio precario non risolve nulla. Resta comunque la mia vita. Ogni giorno mi tengo a bada, con più o meno successo. Mi domino, in qualche misura mi sottometto alla necessità. Ho partecipato a un incontro in cui mi si suggeriva che nella sottomissione, che istintivamente da uomini liberi rifuggiamo, si può trovare la massima espressione di amore e, in qualche modo, di vera e piena libertà.

Non so se arriverei a tanto. Però a quella discussione ho partecipato dicendo – e lo pensavo – che le briglie e gli argini possono essere un gran conforto, una garanzia di sostenibilità. Perché certi giorni si è entusiasti, appassionati, innamorati persino. Ma in tante altre occasioni, in mancanza di valide ragioni per alzarsi dal letto, il fatto che si debba fare per forza è un grande conforto e sostegno, che apre la riserva delle forze che non si pensava di avere. E così ci si sporge, sul vuoto, ma la balaustra ci sostiene.

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