Cosa stiamo facendo


Stamattina un’amica, dalla Sicilia, mi segnala una notizia dell’ANSA, che vi riporto sinteticamente qui di seguito.

“Due autisti sono morti e 25 migranti sono rimasti feriti, alcuni in modo grave, in un ìncidente stradale avvenuto l’autostrada A1, all’altezza di Fiano Romano (Roma). I migranti, una cinquantina circa, erano sull’autobus della Patti tour di Favara che ha un contratto con la Prefettura di Agrigento. Da Porto Empedocle era partito alle ore 10 di ieri per trasferire i migranti in Piemonte. Sul colpo è morto uno dei due autisti a bordo; l’altro, sbalzato dall’abitacolo, non è stato ancora ritrovato. Il bus ha avuto un impatto frontale con un mezzo pesante. I due autisti, entrambi italiani, sono morti. I migranti erano sbarcati a Lampedusa nei giorni scorsi. I due autisti morti avevano 35 e 32 anni. Tra i feriti due sono stati trasferiti in codice rosso al Gemelli ed all’Umberto I, otto in codice giallo distribuiti in vari ospedali. Altri 35 migranti sono stati visitati, ma non trasportati in ospedale perché illesi: sono stati quindi affidati alla prefettura”.

Gli incidenti, per loro natura, sono tragici e imprevedibili. In questo caso, però, credo che sia utile sottolineare alcune circostanze che sono impietosamente messe in luce dai nudi fatti riportati dall’agenzia.

Una cinquantina di migranti, sbarcati nei giorni scorsi a Lampedusa, sono stati prima trasferiti a Porto Empedocle e di lì venivano accompagnati, in pullman, in Piemonte. Non si tratta di un fatto eccezionale, ma di un normale meccanismo di distribuzione dei migranti che arrivano via mare in tutte le regioni di Italia. Tale distribuzione implica che i trasferimenti siano da mesi pressoché continui e dai porti della Sicilia (o della Calabria) si utilizzano pullman, con tutte le ore di viaggio che questo implica. Sulle modalità, i tempi e i criteri con cui lo smistamento (o il “riparto”, come viene spesso definito) è effettuato ci sarebbe molto da dire, ma lasciamo per ora da parte questo aspetto. Limitiamoci a notare che i migranti sbarcati a Lampedusa e spesso soccorsi in mare a valle di viaggi efficacemente descritti, ad esempio, nel bellissimo film di Garrone “Io, capitano”, vengono assegnati al centro di accoglienza a cui per legge hanno diritto dopo una serie di passaggi non ovvi, non sempre lineari, che talora prevedono trasferimenti da un porto all’altro (ho sentito usare il termine “stallo” per definire queste soste tecniche) e attese anche di giorni in sistemazioni di fortuna.

D’altro canto, perché questo avvenga, centinaia di altre persone, per lo più italiane (funzionari di Prefettura, poliziotti, medici e infermieri, operatori di agenzie europee e internazionali, mediatori, volontari, persone volenterose e – la cosa oggi ha la sua tragica rilevanza – autisti), sono soggette – chi più chi meno – a turni di lavoro impossibili, tensioni, conflitti, problemi da affrontare senza reali strumenti per risolverli, obblighi di legge da rispettare senza la possibilità concreta di farlo.

Io credo sia davvero disonesto dire che tutto questo avviene perché le persone che arrivano sono troppe. Mi rendo tuttavia conto che chi considera solo quello che viene riferito normalmente dai telegiornali non può che pensare questo. I numeri degli arrivi sono sicuramente alti (a ieri erano sbarcati in Italia 125.928 migranti, secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Interno), ma nel 2016 in un anno le persone arrivate via mare sono state 181.436, quindi abbastanza in linea con la situazione attuale. Una situazione non si può valutare solo con i numeri, altri elementi vanno considerati. Ma certamente una diversità importante rispetto al 2016 riguarda il funzionamento e la capienza effettiva del sistema di accoglienza. I posti disponibili sono sempre di meno e ci sono ragioni che determinano questa situazione.

In questi anni sono state prese delle decisioni, politiche, che – contro ogni buon senso e razionalità di uso delle risorse economiche – hanno di fatto minato il molto di buono che era stato faticosamente costruito (sia pure a macchia di leoprado, con mille limiti, in modo incompiuto…) per una gestione intelligente delle migrazioni forzate. (Questo è un discorso lungo, ma per una battuta rapida sulla recentissima attualità ascoltate ad esempio questa intervista). Queste decisioni oggi presentano il conto, non solo per quello che subiscono i migranti (che pure ci riguarda, evidentemente), ma più direttamente nel quotidiano di molti cittadini, in molti più forme di prima.

L’arroganza di pochi governanti incapaci (o almeno non intenzionati) a valutare la realtà è sempre più pericolosa. Io vorrei almeno vedere l’indignazione di molti cittadini. Non solo la legittima commozione per la morte di una bambina. Ma la profonda indignazione, argomentata e motivata, nei confronti di chi si prende il lusso di dare per scontata la morte e la profonda sofferenza di sempre più persone (migranti, lavoratori, persone che prendono seriamente la legge e il senso dello Stato).

Conversazioni in Calabria


Chissà perché i treni quando vanno verso sud mi paiono più lenti di quando vanno verso nord. Le 4 ore abbondanti di viaggio verso Vibo Valentia sembrano infinite e le ho passate per lo più immersa nella lettura del mio Kindle, cercando di ridurre al minimo i contatti fisici e verbali con gli altri passeggeri. Poi però, quando siamo avvicinandoci alla meta, la coppia che mi siede accanto inizia a chiacchierare con il ragazzo seduto di fronte a me e a quel punto non posso fare a meno di partecipare. E meno male.

Il giovane atletico che ho davanti, che a Roma aveva la normale espressione del viaggiatore standard, ora che abbiamo varcato il confine regionale pare trasfigurato di felicità. “Sono stato in servizio sette mesi a Verbania”, sta spiegando ai vicini di posto. “Finalmente ho ottenuto il trasferimento e glielo ho già detto, alla mia fidanzata: io da qui non mi sposto più. Ci ho provato, davvero, ma io lontano dalla Calabria non posso proprio stare. Per carità, ci sono dei servizi che noi ce li sogniamo. Si vive comodi. Ma a che serve avere servizi se non si è felici? Intanto il mare. Tre tatuaggi del mare mi sono fatto fare, in questo periodo che sono stato lontano. La luce, il sole, i colori. E il cibo. Spendevo un patrimonio per del cibo che non sapeva di niente. Io ora che ho arrivo a casa so già che mi aspetta: pomodori e cipolla di Tropea, gliel’ho detto a mia mamma. Meglio di così non esiste. E poi le persone: gentili, per carità, ma fredde, distanti. Niente, io sono nato per vivere qui. Sono stato fortunato, ora ne ho l’opportunità e non ho intenzione di sprecarla”.

La coppia accanto ha tre figli grandi, che in occasione della laurea della più piccola hanno regalato una crociera ai genitori per festeggiare “la fine dei figli a carico”. “A mio figlio avevano offerto un’opportunità di lavoro a Milano, molto ben retribuita. Ma lui preferisce restare dov’è. Per fortuna il lavoro non gli manca, al limite viaggia. È molto richiesto, come commercialista. Ma di trasferirsi non vuole sentirne parlare. Per fortuna hanno studiato tutti e tre, brillantemente. Mantenerli agli studi fuori è stato un sacrificio. Ma ora possono scegliere e finora hanno scelto di vivere in Calabria. E credo che se potranno continueranno così. La famiglia per noi conta qualcosa…”.

Il giorno dopo racconto questa conversazione al tassista, un uomo ormai alle soglie della pensione. “Non lo dica a me, capisco benissimo. Lo sa che lavoro facevo io? Il macchinista di treni. Negli anni ’80 mi assumono in ferrovia, una posizione molto ambita. Ma mi mandano a Trieste. A me, a Trieste. Ho resistito per due anni, ma quanto ho sofferto. Le persone erano più fredde e ostili del clima. Parlavano apposta non italiano, perché non capissi. E io rispondevo in calabrese. Quelli non si sentono neanche italiani, con uno come me non volevano averci niente a che spartire. Ho chiesto trasferimento, ovunque: a Napoli, a Messina, a Palermo, ma pure a Roma mi sarebbe andato bene. Niente, mi hanno detto che prima di dieci anni non mi avrebbero spostato da nessuna parte. Allora ho presentato le dimissioni. La prima lettera la hanno strappata, il mio dirigente non ci voleva credere. Pensava che fossi impazzito. Allora ho chiesto di nuovo trasferimento e di nuovo me lo hanno negato. A quel punto ho scritto un’altra lettera e mi sono assicurato che la protocollassero. Non me ne sono mai pentito. Io penso che un uomo deve morire dove è nato. Magari vivere lontano, certe volte si deve per forza. Penso a tutti quelli che se ne sono dovuti andare in America, in Australia, dall’altro capo del mondo. Ma almeno da vecchi tutti dovrebbero poter tornare a casa”.

Non mi trattengo e gli faccio notare quante persone sono oggi costrette a arrivare qui, dall’altro capo del mondo, e magari provano sentimenti e sofferenze simili. “Dice? Non so se per loro è uguale. Quelli sono musulmani…”. Poi ci pensa un attimo e aggiunge: “Però mi sa che ha ragione. Tutti uomini siamo”.

Già. Penso a questa terra che di umanità trabocca e che a volte si perde e affoga nella mancanza di servizi. A quanto si potrebbe fare (e qualche volta si riesce a fare) mettendo le cose in una prospettiva diversa e valorizzando le idee, l’entusiasmo, il calore che c’è. Oggi a una riunione in Prefettura ho sentito parlare dell’importanza del successo scolastico dei giovani di origine straniera e del contributo che potrebbero dare per il futuro di questa terra. Sono discorsi non ovvi di questi tempi, in questo momento politico, in un luogo in cui perdersi nell’ultima emergenza è fin troppo facile.

Come fare perché tutte queste potenzialità non vadano sprecate? Certe volte pare di svuotare il mare con un cucchiaino. Viene da pensare che tutto è inutile, che non valga neanche la pena di credere che un cambiamento sia possibile. E invece vale sempre la pena di credere nella bellezza delle persone e nel loro potere di trasformare la realtà. “Ormai è una parolaccia”, scriveva monsignor Bregantini, un trentino che a queste terre ha dedicato un impegno lungo e sincero. Quasi quasi stasera mi rileggo il suo libro.

Non è uguale


Giornata del Rifugiato amarissima, quest’anno. Per le stragi continue che non impressionano più nessuno al punto che abbiamo fatto lutto nazionale per una persona ignorando la morte di centinaia di innocenti. Per l’accordo europeo che ufficializza il prezzo irrisorio di quelle vite, quantificando gli euro necessari a essere dispensati dal salvarle. Per un ministro dell’interno che può andare a qualche centinaia di metri da cadaveri di bambini e dire che lui no, non potrebbe mai essere un rifugiato perché gli hanno insegnato a chiedersi cosa fare per cambiare in meglio il suo Paese. Per i giovani dirigenti statali che la settimana scorsa ho sentito parlare di riparti, stalli e altre incombenze certamente penose, che però coinvolgono centinaia di persone sofferenti e neppure una parola di quei discorsi lo faceva trasparire.

Oggi penso a quelli che hanno preso e prendono, ciascuno per la propria responsabilità, le decisioni che compongono quelle “politiche sull’immigrazione” che decidono della vita di tanti. Alcune, in questi 25 anni, le ho conosciute. E mi rendo conto di aver smesso di sperare che almeno uno di loro, magari a livelli più bassi, faccia entrare la giustizia e l’umanità in quelle decisioni.

Stamattina, ascoltando su Spotify in Cd Shahida, realizzato da Claudio Zonta per il centro Astalli, grazie alla generosità di tanti artisti, sento il bisogno di ricordare a me stessa che non devo, non dobbiamo arrenderci al cinismo che dilaga. Fosse solo non smettendo di chiamare le cose con il loro nome, ostinatamente. Resistendo, insomma.

Nuove leve


Ieri, dopo una giornata intensa di confronti “come ai vecchi tempi” che aveva tutto il sapore della rimpatriata – e che coinvolgeva infatti persone con cui ho condiviso lunghi tratti di strada, mi sono trovata a bere una birra con alcuni giovani professionisti più recentemente coinvolti sul tema dell’accoglienza e inclusione dei rifugiati. È stato molto bello trovarmi a rispondere a alcune loro domande e richieste di chiarimento sulla discussione del pomeriggio: mi sono sentita utile e ultimamente mi succede davvero troppo di rado.

Più ancora ho realizzato, parlando con loro, che anche in questo campo così di nicchia come le politiche di asilo è difficilissimo passare alle nuove generazioni il bagaglio di esperienze e conoscenze che abbiamo accumulato noi vecchi. E allora il rischio è che i pochi “storici” continuino sempre più in solitudine (e stancamente) a percorrere una strada già in buona parte segnata, mentre i giovani, entusiasti e animati di ottime intenzioni, scoprono l’acqua calda e replicano tutti gli errori già fatti e rifatti nei decenni precedenti.

Non ci sono occasioni, non c’è tempo, a tratti non c’è voglia di condividere, di ascoltare, di sforzarsi di tenere insieme punti di vista, esperienze, idee. Ieri a un certo punto mi è venuto spontaneo dire che devono essere loro, le nuove leve, a fare l’advocacy, non noi vecchi: io personalmente mi rendo conto di essere troppo viziata dai miei pregiudizi decennali per avere idee utili, che possano tratteggiare un cambiamento. Però certo, bisognerebbe trovare il tempo e il modo di farla, questa trasmissione di esperienze.

E mi piacerebbe da morire fare parte di questo processo, perché non c’è niente di più bello di vedere come le cose si rinnovano, cambiano, diventano diverse e lontanissime da come le avevamo immaginate noi.

Accoglienza


Ucraina: un’altra emergenza, un’altra ondata di solidarietà al cui confronto quella suscitata dagli afgani pochi mesi fa sparisce (e del resto non se ne parla più in tv, quelle persone restano una priorità solo per gli “addetti ai lavori”). Onestamente i sentimenti di chi di accoglienza si occupa, in Italia, sono divisi. Da un lato tanto entusiasmo a aprire le porte di casa è bello da vedere e in qualche modo confortante. Dall’altro la disparità di trattamento stride. Quegli stessi operatori che faticano a convincere chicchessia a affittare anche solo una stanza a un rifugiato con regolare contratto di lavoro, che sanno di frontiere ostinatamente chiuse e di quarantene lunghe e rigorose per chi cerca protezione da altre sponde, si chiedono perché per queste vittime innocenti di guerra le aperture siano tanto maggiori.

Buon per loro, buon per noi. Ma qualche domanda si impone. Perché usare ora una direttiva europea per la protezione temporanea rimasta nel cassetto per 11 anni, al punto che si ipotizzava di cancellarla? La guerra in Siria non era abbastanza guerra, l’afflusso che nel 2015 è stato definito “emergenza profughi”, “esodo biblico”, “tsunami umano” non era abbastanza massiccio? Tanto si sta dicendo e scrivendo sul colore della pelle e sulle somiglianze, fisiche e culturali (?), che solleciterebbero l’empatia. Questo esiste, ma penso e spero che ci sia anche dell’altro.

In realtà molti italiani conoscono degli ucraini, in un modo o nell’altro. Ci sono stati anni di accoglienza dei bambini di Chernobyl, che hanno lasciato sui territori una rete di affetti, anche molto duraturi. Ricordo un tassista che mi parlava della “sua” ex bambina, con cui tutta la sua famiglia continuava a sentirsi con regolarità. La bellezza di quell’esperienza era la trasversalità. Persone molto diverse erano state coinvolte, senza pescare in categorie specifiche. E poi, naturalmente, ci sono donne e uomini ucraini che lavorano in Italia. Come assistenti familiari e badanti, per esempio, il che implica spesso un grande scambio affettivo e una relazione continua e significativa. Alle manifestazioni per la pace molti amici parlavano di donne con un nome, a cui sono legati da importanti vincoli di riconoscenza per il loro lavoro prezioso e, il più delle volte, indispensabile e in una certa misura impagabile. Donne che hanno figli, mariti, nipoti che sono di fatto già entrati, in un modo o nell’altro, nella sfera delle relazioni delle famiglie italiane.

Ma poi ci sono i compagni di scuola, di università, i colleghi di lavoro, i vicini di casa. Quando la guerra irrompe nella vita di amici e conoscenti ovviamente ci pare molto diversa. In qualche modo è molto diversa. Non è solo questione di razzismo.

E allora forse mi capirete quando vi dico che avere amici rifugiati è una benedizione e una maledizione allo stesso tempo. Perché quando sai che è il nipote minorenne del tuo amico curdo a tentare la lotteria della rotta balcanica, sfidando fili spinati e la violenza delle polizie di frontiera, il tuo stato d’animo va oltre la comune indignazione e si tinge di paura, di rabbia e di impellente voglia di cambiare le cose, che purtroppo fondamentalmente si traduce in nulla.

Ma se vedo l’effetto potente delle relazioni di amicizia mi viene da pensare che alla lunga l’unica soluzione sostenibile è questa. Avere sempre più amici rifugiati. E quando dico amici, intendo persone legate a noi da un rapporto di reciprocità. Non persone che aiutiamo (o pensiamo di aiutare) e basta. C’è differenza.

Qualche settimana fa ho intervistato, a Parma, una studentessa universitaria di 20 anni coinvolta in un bellissimo progetto che abbina un rifugiato a qualcuno della comunità locale (singoli, famiglie, gruppi) che gli possa fare da “buddy”, da compagno di strada, per facilitare il suo inserimento sociale in Italia. Lei raccontava che un giorno, durante una telefonata con il ragazzo rifugiato a lei abbinato, le era scappato uno sfogo su quanto fosse stressata dallo studio e dalle scadenze degli esami. “Io avevo sempre cercato di non buttargli addosso i miei problemi, visto che lui ne ha già molti. Ma in quell’occasione mi è stato di grandissimo conforto e incoraggiamento. Allora mi sono resa conto che se voglio che il nostro rapporto sia alla pari e veramente reciproco, anche io devo aprirmi e mostrarmi vulnerabile. Quel giorno ha segnato una grande crescita nel nostro rapporto”.

Molte donne ucraine hanno visto vulnerabili noi e i nostri cari e questo ha cementato relazioni di affetto sincero, che rendono ora molti capaci di slanci veri e che saranno probabilmente anche duraturi. Altra cosa, certo, sono gli slanci sollecitati solo dal momento mediatico, dall’entusiasmo che non affonda in nulla di reale, dalla tentazione di vestire i panni del buon salvatore di bimbi biondi o di donne afgane oppresse. Quel moto, pur in buona fede, dobbiamo imparare a riconoscerlo in noi e a addomesticarlo, indirizzandolo in canali alternativi (donazioni, approfondimento, impegno graduale e sostenibile nel tempo che ci consenta di capire davvero cosa ci corrisponde). Perché preso alla lettera non fa bene a nessuno: né a noi, né a chi vogliamo sostenere, né a chi dovrà continuare a farlo quando noi ci saremo resi conto di aver fatto il passo più lungo della gamba.

Displaced


Il cimitero dove è sepolto mio padre è su un confine. Lui su quel confine non è morto, come avviene oggi a tante persone, ma ci è nato. A Gorizia. Ne è fuggito da giovane, per studiare, realizzarsi, essere libero. Ma un pezzo del suo cuore è rimasto lì ed era giusto che lì tornasse.

Suo padre quel confine lo ha visto cambiare più volte. Ha combattuto due guerre mondiali, una da una parte e una dall’altra. Lui non ha varcato il confine, è il confine che ha varcato lui. Non in modo indolore. La sua lingua materna è stata proibita, suo figlio non la conosceva. Il suo cognome non è diventato il mio, è stato mutilato per decreto prefettizio.

Da quello stesso confine è entrato in Europa, clandestinamente, il padre di mia figlia, 21 anni fa. Anche lui parla male la lingua di sua madre e suo padre: il curdo in Turchia era proibito. Di Gorizia ricorda la gentilezza dei poliziotti, che gli hanno offerto sigarette e un panino, e le scritte sulle pareti della stanza dove gli stranieri come lui venivano trattenuti prima di ricevere il foglio di espulsione che consentiva loro di riprendere il cammino verso il nord: “Coraggio, fratelli, siete in Europa”.

Mi pare che ci sia un filo nella mia vita che mi riporta costantemente ai confini e al loro impatto sulla vita delle persone. Ai confini geografici, a quelli culturali, a quelli esterni e a quelli interni. Penso ai confini finti dell’Africa, tracciati con la squadra. Alle linee rette che danno un illusorio senso di ordine. Dentro, fuori. Bianco, nero. Sì, no. Quella rassicurante logica binaria, che piace tanto ai computer, ma è così incompatibile con la complessità di sentimenti, di identità, di relazioni. Incompatibile con la vita, in pratica.

Voci nella testa


I progetti sono croce e delizia di chi lavora nel sociale in genere, e mia in particolare. Sono a volte opportunità uniche di fare le cose in modo diverso, di incontrare persone interessanti, di essere più o meno costretti a pensare al di là dell’attività quotidiana. Sono anche, spesso, lavoro inutile, burocratico, a tratti troppo teorico, che non cambia davvero le cose, che non riesce a toccare la sostanza. Per non parlare della frustrazione del fatto che i progetti tipicamente finiscono esattamente quando servirebbe che funzionassero, magari proprio nel momento in cui finalmente iniziano a ingranare.

Da molti anni ormai i progetti sono una parte molto rilevante del mio lavoro: pensarli, scriverli, negoziarli, farli funzionare, raccontarli. Ci sono momenti in cui non li amo, ma in generale ne subisco il fascino. Due o tre poi sono rimasti davvero nel mio cuore, fino ad oggi, insieme alle persone che li hanno condivisi con me.

La prossima settimana ci sarà la conferenza finale di un progetto che ho seguito fin da quando ho iniziato a lavorare all’IPRS, un anno e mezzo fa. Un progetto dedicato alla salute mentale dei migranti forzati e a come tutelarla e promuoverla nei sistemi di accoglienza. Posso dire che è stato un successo almeno per quanto riguarda il contributo che ha dato alla mia salute mentale. Non ho più molte occasioni, negli ultimi anni, di fare conversazioni significative con delle persone rifugiate. E’ un peccato e un grande impoverimento. Per Psychcare posso dire davvero di aver preso la palla al balzo per parlare con più persone possibili (qualcosa vi ho già raccontato: qui, qui, qui, qui e qui) e per ricordare, in primis a me stessa, a cosa dovrebbero servire i nostri report. A cambiare le cose.

Oggi voglio condividere con voi una storia che mi ha raccontato un uomo gambiano, nella sede di un’associazione di volontariato davanti alla Stazione di Roma Termini. Avrei voluto inserirla nella pubblicazione finale, ma non avendo potuto farlo la scrivo qui. Per non dimenticarla, in tutta la sua durezza. (I lettori più attenti ricorderanno che ne avevo già parlato, per accenni: ma oggi ve la voglio far leggere tutta).

Sono arrivato a Lampedusa nel 2007. Mi hanno trasferito a Milano e lì sono stato ospite di almeno 4 diversi centri di accoglienza, per un periodo complessivo di quasi 4 anni. Il diniego della Commissione Territoriale mi è arrivato nel 2010. Secondo me la Commissione non mi ha capito, l’interprete non parlava esattamente la mia lingua. In ogni caso, non mi hanno creduto. Quando è arrivato il diniego, mi sono sentito tradito. Tradito da questo Paese. Al centro mi avevano detto che dovevo andare a scuola, seguire corsi, rispettare le regole. Io l’ho sempre fatto, sono una brava persona. Volevo fare le cose per bene. Sono andato a fare corsi persino a Bologna, avevo tutte le carte in regola. Giocavo a calcio. Poi però non mi hanno lasciato nessuna possibilità, tutte le strade per me erano chiuse perché non mi hanno creduto.

Mi sono spostato a Roma e ho provato a presentare un’altra domanda d’asilo. Ma in Questura ho trovato soltanto problemi. Credo di esserci andato almeno 32 volte. Mi hanno dato un permesso di soggiorno provvisorio di sei mesi, ma alla fine non mi hanno mai convocato in commissione. Un’altra possibilità non hanno voluto darmela. Allora tra il 2015 e il 2018 me ne sono andato a Foggia. Non solo a Foggia: anche a Rosarno, a Castel Volturno. Lavoravo nei campi, senza dare fastidio a nessuno. Mi pagavano pochissimo, ma almeno avevo qualche soldo sul cellulare per chiamare mia madre. Mio padre è morto quando ero piccolo, mia sorella è sposata e mia madre è rimasta sola. La vita a Foggia in particolare era molto dura. Tutti i pochi documenti che avevo li ho persi in uno dei tanti incendi. Mi sono rovinato la salute. A un certo punto tossivo sangue. Mi sono ferito in più punti
[nota dell’intervistatore: mostra varie cicatrici, sulle mani e sulle gambe]. Non ero più in grado di lavorare e allora un amico mi ha consigliato di tornare a Roma per curarmi.

Sono tornato in città lo scorso dicembre. Da allora le cose vanno peggio che mai. Dormo alla stazione Tiburtina. I medici del San Gallicano mi seguono, mi hanno mandato in diversi ospedali per fare analisi, radiografie…
[nota dell’intervistatore: mostra pacchi di radiografie, ecografie, analisi, ricette mediche…]. Ora dicono che mi devo operare, ma io non voglio. Non ho un posto dove dormire, non ho documenti… Come dovrei fare? Qui alla Casa dei diritti Sociali mi hanno comprato questo zainetto, così mi posso portare sempre dietro le medicine e i documenti. L’avvocato dice che per me l’unica possibilità è avere un permesso di soggiorno per cure mediche, ma mi hanno spiegato che anche se me lo dessero con quello non potrei lavorare. Quindi la mia situazione non si risolverebbe.

Sono qui da 12 anni e non ho fatto niente. Gli amici mi dicono di andare in Spagna, o in Germania. Conosco alcuni che lavorano lì in agricoltura anche per 7, 8 o persino 10 euro all’ora. Ma come faccio senza documenti? Per giunta il problema in Questura ormai non si può più risolvere. L’ultima volta mi hanno detto che se torno lì ancora una volta mi arrestano. Vedi? C’è scritto qui
[nota dell’intervistatore: mostra un tagliandino tagliato a metà, in cui in effetti non c’è scritto nulla del genere]. Perché? Perché mi hanno fermato due, anzi tre volte a Piazza Vittorio. I poliziotti sono così, vedono un gruppo di africani, magari uno fuma, ha qualche grammo di hashish, e loro arrestano tutti. Io non fumo, non bevo. Ma importa qualcosa a qualcuno? Che conta? A loro basta che non mi faccia vedere. A Foggia, in campagna, non davo fastidio a nessuno. Se non mi ammalavo restavo lì.

Tra l’altro da quando sono tornato a Roma non ho soldi. Non ho più potuto parlare con mia madre e lei qualche giorno fa è morta. Dopo la fine del Ramadan [inizio di giugno] non l’ho più sentita e lei adesso è morta. Che ci vuoi fare, Dio ha voluto così.
Come sono andato avanti in Italia tutto questo tempo? Posso dire che qui in Italia non mi ha aiutato nessuno. Ci sono solo io, vado avanti solo con le mie forze. Molte persone italiane sono brave, c’è chi mi aiuta senza volere niente in cambio. Ma il governo è contro di me, contro di noi. Si parla di diritti, ma quali diritti? I diritti umani non li vedo. Non è colpa mia se non hanno voluto credermi. Non è colpa mia se non mi danno nessuna possibilità.

Toccare con mano


Sono un paio di giorni che medito di scrivere post frivoli, tipo “Cose che ho imparato da quando ho un gatto” o “Le migliori e peggiori serie Netflix della quarantena”. E nei prossimi giorni magari lo farò. Però stamattina ho aperto, dopo un po’ di tempo, il blog dell’ex maestro di Meryem e mi è caduto l’occhio su una frase:

“Cari bambini, la cosa più ingiusta che possa capitare a un bambino della vostra età è togliergli la possibilità di entrare ogni giorno in classe”.

Quanto è vero e credo che mai come in questo momento tutti lo abbiamo ben presente. Tocchiamo con mano nei nostri figli gli effetti immediati di questa ingiustizia e la tolleriamo a stento solo perché crediamo che questa situazione sarà temporanea.

Ora immaginate se ci dicessero che i nostri figli non potranno andare a scuola per altri 4 o 5 anni e che non ci sarà nessuna forma di didattica a distanza. Io credo che molti comincerebbero seriamente a considerare di trasferirsi all’estero.

Secondo l’ultimo report dell’UNHCR, su un totale di 7,1 milioni di bambini rifugiati in età scolare, frequentano la scuola 3,7 milioni. Il 37% dei bambini delle elementari, quelli di cui parla il maestro Flavio, non ha la possibilità di entrare in una classe. Se saliamo all’età di mia figlia, meno di uno su quattro va a scuola (24% del totale).

Sono situazioni che si protraggono per anni, a volte per decenni, bruciando generazioni intere e scavando baratri di ingiustizia e disuguaglianza. Questi bambini dimenticati, peraltro, non vivono necessariamente lontano da noi: molti ad esempio sono in Grecia.

Non posso fare a meno di pensare che in questo momento siamo nelle migliori condizioni possibili per sentire sulla nostra pelle l’enormità di questa ingiustizia. Non sarebbe bello se le tante energie positive di maestri e educatori potessero raggiungere anche qualcuno di questi bambini rifugiati?

3 ottobre


Ieri cercavo con una certa difficoltà di esprimere un concetto che in realtà non è completamente chiaro neanche a me stessa: anche se ho cambiato lavoro, non senza qualche scossone, alcuni passaggi della mia “vita precedente” sono parte di me. Uno è il 3 ottobre.

Quel 3 ottobre, di 9 anni fa. Tanti fatti che riguardano i rifugiati hanno scosso l’opinione pubblica, negli anni a seguire. Ma io penso che per chiunque fosse in qualche misura direttamente coinvolto nell’accoglienza di rifugiati in quel periodo il 3 ottobre abbia lo stesso impatto emotivo dell’11 settembre. Esagero? No, direi che è quasi poco.

Anche il 3 ottobre ha segnato un prima e un dopo. Ha negli anni, quel 3 ottobre, provocato uno strascico infinito di altre morti, una vera guerra che si combatte anche oggi nel Mediterraneo. Ma soprattutto di quel giorno ricordo l’attonito dolore con cui in tanti abbiamo pensato: “Non è possibile”. Lo strazio degli amici e dei familiari delle vittime, che erano nei nostri centri di accoglienza (donne, soprattutto). Lo spettacolo osceno di quelle bare, troppe. Troppe per un cimitero, troppe per un’isola, troppe per la nostra coscienza.

La mattina del 4 ottobre, senza quasi dovercelo dire, ci siamo trovati nella cappellina di via degli Astalli. Davanti a certe enormità mi tornava in mente la frase di Pedro Arrupe: pregate, perché per certe cose non c’è soluzione umana che basti. Eppure questo non ci esime dal cercarle, le soluzioni. Anche se non sono sufficienti, sono comunque indispensabili. L’operazione Mare Nostrum fu una risposta. Chi ha poi parlato di pull factor non ha mai conosciuto quel rifugiato che anni dopo, a un incontro pubblico all’università Gregoriana, ha voluto stringere la mano a Enrico Letta e dirgli, semplicemente: “Se non fosse stato per quella sua decisione, io ora sarei morto”.

Non riesco a dissertare di rifugiati in teoria. La prendi troppo sul personale, mi è stato detto. È personale. Non può essere altrimenti. È una questione tra persone, appunto. Quei morti sono nostri, dovremmo almeno piangerli, dissero con parole diverse Giusi Niccolini e Papa Francesco. Oggi direi che dovremmo esigere di smettere di uccidere, nel deserto, in Libia e in mare, con i nostri soldi pubblici e la nostra ipocrisia.

Domani è 3 ottobre. Si dovrebbe fare memoria, in tutte le scuole, di quel naufragio e di quello che ne è seguito. Fuori dalle scuole, vi chiedo di ricordarvi almeno un momento di che giorno è. Magari guardatevi L’ordine delle cose di Andrea Segre. Se lo avete già guardato, riguardatelo con qualcuno che non lo ha visto. Parlatene. La memoria si tiene viva se ci ricordiamo di ritirarla dentro nella quotidianità, almeno ogni tanto.

Sconfitta


Scrivendo il titolo di questo post mi sono resa conto che è ambiguo. Intendevo il sostantivo o l’aggettivo? In realtà il primo, forse. Ma mi sento anche molto sconfitta personalmente.

Ho letto molta soddisfazione qua e là in merito al vertice di ieri a Malta. Una soddisfazione che posso capire: almeno adesso l’Italia ai tavoli si presenta. Però non posso fare a meno di constatare, anche in questa circostanza, che una volta fatto precipitare il livello della discussione politica e pubblica, questo resta infimo comunque, a meno di decidere di fare un lavoro immenso che nessuno si sogna di cominciare.

Non mi pare che nessuno oggi si scandalizzi davanti a affermazioni del tipo: “La soluzione definitiva è che non partano più o che siano rimpatriati”. Solo io colgo la violenza di una frase così (ammesso e non concesso, naturalmente, che sia stata fedelmente riportata)? Anche il tema delle sanzioni agli Stati che si oppongono alla redistribuzione di migranti suona pericolosamente simile ai provvedimenti obbligatori per lo smaltimento dei rifiuti.

Mi fa paura la leggerezza con cui ogni componente di realtà della questione venga spazzata via da frasi fatte, che sembrano l’esito asettico di un’analisi dei sondaggi che continuano a incalzarci di giorno in giorno: il consenso scende, il consenso sale, come gli indici di borsa che del resto non ho mai capito.

Come si può pensare qualcosa, concertare una politica complessa, se il navigatore del leader di turno si deve resettare freneticamente a ogni soffio di vento?

In ogni caso, non riesco a convincermi che la cosa sia affar mio. In questo consiste la sconfitta. In fondo un po’ in altri tempi credevo che capire, spiegare, porsi domande potesse avere una sua utilità. Oggi, se devo essere onesta, non ci credo. Domani chissà.

P.S. L’immagine si riferisce al bellissimo spettacolo Xenos di Akram Khan