Ucraina: un’altra emergenza, un’altra ondata di solidarietà al cui confronto quella suscitata dagli afgani pochi mesi fa sparisce (e del resto non se ne parla più in tv, quelle persone restano una priorità solo per gli “addetti ai lavori”). Onestamente i sentimenti di chi di accoglienza si occupa, in Italia, sono divisi. Da un lato tanto entusiasmo a aprire le porte di casa è bello da vedere e in qualche modo confortante. Dall’altro la disparità di trattamento stride. Quegli stessi operatori che faticano a convincere chicchessia a affittare anche solo una stanza a un rifugiato con regolare contratto di lavoro, che sanno di frontiere ostinatamente chiuse e di quarantene lunghe e rigorose per chi cerca protezione da altre sponde, si chiedono perché per queste vittime innocenti di guerra le aperture siano tanto maggiori.
Buon per loro, buon per noi. Ma qualche domanda si impone. Perché usare ora una direttiva europea per la protezione temporanea rimasta nel cassetto per 11 anni, al punto che si ipotizzava di cancellarla? La guerra in Siria non era abbastanza guerra, l’afflusso che nel 2015 è stato definito “emergenza profughi”, “esodo biblico”, “tsunami umano” non era abbastanza massiccio? Tanto si sta dicendo e scrivendo sul colore della pelle e sulle somiglianze, fisiche e culturali (?), che solleciterebbero l’empatia. Questo esiste, ma penso e spero che ci sia anche dell’altro.
In realtà molti italiani conoscono degli ucraini, in un modo o nell’altro. Ci sono stati anni di accoglienza dei bambini di Chernobyl, che hanno lasciato sui territori una rete di affetti, anche molto duraturi. Ricordo un tassista che mi parlava della “sua” ex bambina, con cui tutta la sua famiglia continuava a sentirsi con regolarità. La bellezza di quell’esperienza era la trasversalità. Persone molto diverse erano state coinvolte, senza pescare in categorie specifiche. E poi, naturalmente, ci sono donne e uomini ucraini che lavorano in Italia. Come assistenti familiari e badanti, per esempio, il che implica spesso un grande scambio affettivo e una relazione continua e significativa. Alle manifestazioni per la pace molti amici parlavano di donne con un nome, a cui sono legati da importanti vincoli di riconoscenza per il loro lavoro prezioso e, il più delle volte, indispensabile e in una certa misura impagabile. Donne che hanno figli, mariti, nipoti che sono di fatto già entrati, in un modo o nell’altro, nella sfera delle relazioni delle famiglie italiane.
Ma poi ci sono i compagni di scuola, di università, i colleghi di lavoro, i vicini di casa. Quando la guerra irrompe nella vita di amici e conoscenti ovviamente ci pare molto diversa. In qualche modo è molto diversa. Non è solo questione di razzismo.
E allora forse mi capirete quando vi dico che avere amici rifugiati è una benedizione e una maledizione allo stesso tempo. Perché quando sai che è il nipote minorenne del tuo amico curdo a tentare la lotteria della rotta balcanica, sfidando fili spinati e la violenza delle polizie di frontiera, il tuo stato d’animo va oltre la comune indignazione e si tinge di paura, di rabbia e di impellente voglia di cambiare le cose, che purtroppo fondamentalmente si traduce in nulla.
Ma se vedo l’effetto potente delle relazioni di amicizia mi viene da pensare che alla lunga l’unica soluzione sostenibile è questa. Avere sempre più amici rifugiati. E quando dico amici, intendo persone legate a noi da un rapporto di reciprocità. Non persone che aiutiamo (o pensiamo di aiutare) e basta. C’è differenza.
Qualche settimana fa ho intervistato, a Parma, una studentessa universitaria di 20 anni coinvolta in un bellissimo progetto che abbina un rifugiato a qualcuno della comunità locale (singoli, famiglie, gruppi) che gli possa fare da “buddy”, da compagno di strada, per facilitare il suo inserimento sociale in Italia. Lei raccontava che un giorno, durante una telefonata con il ragazzo rifugiato a lei abbinato, le era scappato uno sfogo su quanto fosse stressata dallo studio e dalle scadenze degli esami. “Io avevo sempre cercato di non buttargli addosso i miei problemi, visto che lui ne ha già molti. Ma in quell’occasione mi è stato di grandissimo conforto e incoraggiamento. Allora mi sono resa conto che se voglio che il nostro rapporto sia alla pari e veramente reciproco, anche io devo aprirmi e mostrarmi vulnerabile. Quel giorno ha segnato una grande crescita nel nostro rapporto”.
Molte donne ucraine hanno visto vulnerabili noi e i nostri cari e questo ha cementato relazioni di affetto sincero, che rendono ora molti capaci di slanci veri e che saranno probabilmente anche duraturi. Altra cosa, certo, sono gli slanci sollecitati solo dal momento mediatico, dall’entusiasmo che non affonda in nulla di reale, dalla tentazione di vestire i panni del buon salvatore di bimbi biondi o di donne afgane oppresse. Quel moto, pur in buona fede, dobbiamo imparare a riconoscerlo in noi e a addomesticarlo, indirizzandolo in canali alternativi (donazioni, approfondimento, impegno graduale e sostenibile nel tempo che ci consenta di capire davvero cosa ci corrisponde). Perché preso alla lettera non fa bene a nessuno: né a noi, né a chi vogliamo sostenere, né a chi dovrà continuare a farlo quando noi ci saremo resi conto di aver fatto il passo più lungo della gamba.
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