Un bel funerale


Cinque anni fa ho cambiato lavoro. Era stato il punto di arrivo di un percorso di restauro di me stessa, che aveva anche comportato un autoregalo significativo: un corso di scrittura autobiografica con Rossana Campo.

Come capita abbastanza spesso quando mi lancio nelle cose senza troppo pensarci, solo alla prima lezione ho realizzato che la scrittura del corso non era genericamente creativa, ma proprio autobiografica. Il mio inconscio aveva evidentemente trovato un escamotage per vincere le mie resistenze.

Tuttavia, finito il corso (le due edizioni che mi sono concessa), le resistenze continuavano. Ho rimuginato altri 5 anni per realizzare il progetto che avevo definito alla fine del corso. Poi, un po’ inaspettatamente, mi ci sono buttata (sempre in modo disordinato e scomposto) e in pochi mesi ho scritto lei, la Prima Stesura del mio memoir.

Tutto questo per dire che non so se questo porterà mai a una pubblicazione vera, come quella di almeno due delle mie compagne di quello splendido corso. Ma intanto ho vissuto un’esperienza importante, l’ho attraversata e ho imparato molto di me stessa e di cosa mi ribolliva dentro.

Non lo leggerete mai in una quarta di copertina, ma quello che mi è venuto da pensare rileggendomi è stato: “Quella parte della mia vita probabilmente è morta per sempre, ma almeno ho provato a mettere su un bel funerale…”

E adesso? Chissà. Ho cominciato una strada. Mi sono fermata un po’ di mesi a riposare, ma ora devo capire come andare avanti. Se sono rose fioriranno.

Parare i colpi


Mala tempora currunt. E non accennano minimamente a migliorare. Bersagliati da notizie funeste da ogni parte, io e la mia bolla di amici ci barcameniamo tra la tentazione di imporci di fare gli struzzi e quella di rintanarci nel nostro piccolo privato (il che ovviamente vale per quei pochi che, per dirla con De André, “hanno una donna e qualcosa”: in caso contrario, il piccolo privato rischia di essere più angoscioso dello scenario globale).

L’ennesimo femminicidio nei giorni scorsi ha dato il via a una serie di commenti sui social e in parte anche fuori dai social che, se possibile, mi hanno ulteriormente intristito. Stamattina la mia amica Valentina ha espresso molto bene quella che era anche la mia perplessità: ma siamo davvero così sicuri di poter dare la responsabilità di un delitto commesso da un giovane di 22 anni ai suoi genitori? Io da parte mia non faccio che constatare che, per quanto mi adoperi, la maggior parte delle cose, incluse quelle che riguardano mia figlia, sfuggono fatalmente al mio controllo. E magari è meglio, perché onestamente non credo di essere proprio la persona più adatta a determinare le sorti dell’universo.

Mi sento di dire che da genitore mi pare ovvio mettercela tutta, investire tutto il mio cuore, tutta la mia anima e tutta la mia mente, e in adolescenza questo qualche volta può implicare perdere il proprio equilibrio e la propria sanità mentale, eppure essere disposti a ricominciare il giorno dopo. Eppure, pur facendolo, sono piú gli errori che le cose ben fatte e, soprattutto, questo non ci dà nessuna garanzia né tanto meno potere. Io ho esposto mia figlia almeno in un paio di occasioni, a meno di 15 anni, al rischio molto concreto di subire violenza. È andata bene, ma poteva andare male, malissimo. Certe volte la cosa mi tiene sveglia la notte ancora oggi, ma non so se in futuro valuterei diversamente.

Questo discorso però mi ha portato anche a farne un altro, leggermente diverso, con una collega. Notavamo, intorno a noi, un livello di crescente disagio e sofferenza dei nostri coetanei, che permea ormai quasi tutti i rapporti interpersonali e li rende faticosi, dolorosi e a tratti impossibili del tutto. La collega sosteneva che, mediamente, gli uomini sono messi peggio delle donne. Ci ho pensato un attimo e istintivamente mi veniva da concordare. Non perché noi donne soffriamo di meno, anzi: ma mediamente, stringendo molto i denti, andiamo avanti e teniamo i pezzi insieme. Stamattina, per dire, mi sarei volentieri rintanata sotto il letto come fa la mia gatta quando le cose non le vanno a genio. Però non l’ho fatto. Perché?

Direi che, statisticamente, una donna italiana difficilmente se lo potrebbe permettere, perché banalmente ha (o avverte) su di sé la responsabilità di qualcun altro: figlio/a, genitore anziano, altro parente, marito/compagno che (poverino) deve essere supporato, persona o animale a caso bisognosa/o di cura. E così lo stesso carico (irragionevole, inappropriato e a volte francamente ingiusto) di cui ci carichiamo istintivamente, finisce per essere quello che ci protegge dall’abisso. Paradossale, magari. Ma sospetto che ci sia del vero.

Cosa stiamo facendo


Stamattina un’amica, dalla Sicilia, mi segnala una notizia dell’ANSA, che vi riporto sinteticamente qui di seguito.

“Due autisti sono morti e 25 migranti sono rimasti feriti, alcuni in modo grave, in un ìncidente stradale avvenuto l’autostrada A1, all’altezza di Fiano Romano (Roma). I migranti, una cinquantina circa, erano sull’autobus della Patti tour di Favara che ha un contratto con la Prefettura di Agrigento. Da Porto Empedocle era partito alle ore 10 di ieri per trasferire i migranti in Piemonte. Sul colpo è morto uno dei due autisti a bordo; l’altro, sbalzato dall’abitacolo, non è stato ancora ritrovato. Il bus ha avuto un impatto frontale con un mezzo pesante. I due autisti, entrambi italiani, sono morti. I migranti erano sbarcati a Lampedusa nei giorni scorsi. I due autisti morti avevano 35 e 32 anni. Tra i feriti due sono stati trasferiti in codice rosso al Gemelli ed all’Umberto I, otto in codice giallo distribuiti in vari ospedali. Altri 35 migranti sono stati visitati, ma non trasportati in ospedale perché illesi: sono stati quindi affidati alla prefettura”.

Gli incidenti, per loro natura, sono tragici e imprevedibili. In questo caso, però, credo che sia utile sottolineare alcune circostanze che sono impietosamente messe in luce dai nudi fatti riportati dall’agenzia.

Una cinquantina di migranti, sbarcati nei giorni scorsi a Lampedusa, sono stati prima trasferiti a Porto Empedocle e di lì venivano accompagnati, in pullman, in Piemonte. Non si tratta di un fatto eccezionale, ma di un normale meccanismo di distribuzione dei migranti che arrivano via mare in tutte le regioni di Italia. Tale distribuzione implica che i trasferimenti siano da mesi pressoché continui e dai porti della Sicilia (o della Calabria) si utilizzano pullman, con tutte le ore di viaggio che questo implica. Sulle modalità, i tempi e i criteri con cui lo smistamento (o il “riparto”, come viene spesso definito) è effettuato ci sarebbe molto da dire, ma lasciamo per ora da parte questo aspetto. Limitiamoci a notare che i migranti sbarcati a Lampedusa e spesso soccorsi in mare a valle di viaggi efficacemente descritti, ad esempio, nel bellissimo film di Garrone “Io, capitano”, vengono assegnati al centro di accoglienza a cui per legge hanno diritto dopo una serie di passaggi non ovvi, non sempre lineari, che talora prevedono trasferimenti da un porto all’altro (ho sentito usare il termine “stallo” per definire queste soste tecniche) e attese anche di giorni in sistemazioni di fortuna.

D’altro canto, perché questo avvenga, centinaia di altre persone, per lo più italiane (funzionari di Prefettura, poliziotti, medici e infermieri, operatori di agenzie europee e internazionali, mediatori, volontari, persone volenterose e – la cosa oggi ha la sua tragica rilevanza – autisti), sono soggette – chi più chi meno – a turni di lavoro impossibili, tensioni, conflitti, problemi da affrontare senza reali strumenti per risolverli, obblighi di legge da rispettare senza la possibilità concreta di farlo.

Io credo sia davvero disonesto dire che tutto questo avviene perché le persone che arrivano sono troppe. Mi rendo tuttavia conto che chi considera solo quello che viene riferito normalmente dai telegiornali non può che pensare questo. I numeri degli arrivi sono sicuramente alti (a ieri erano sbarcati in Italia 125.928 migranti, secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Interno), ma nel 2016 in un anno le persone arrivate via mare sono state 181.436, quindi abbastanza in linea con la situazione attuale. Una situazione non si può valutare solo con i numeri, altri elementi vanno considerati. Ma certamente una diversità importante rispetto al 2016 riguarda il funzionamento e la capienza effettiva del sistema di accoglienza. I posti disponibili sono sempre di meno e ci sono ragioni che determinano questa situazione.

In questi anni sono state prese delle decisioni, politiche, che – contro ogni buon senso e razionalità di uso delle risorse economiche – hanno di fatto minato il molto di buono che era stato faticosamente costruito (sia pure a macchia di leoprado, con mille limiti, in modo incompiuto…) per una gestione intelligente delle migrazioni forzate. (Questo è un discorso lungo, ma per una battuta rapida sulla recentissima attualità ascoltate ad esempio questa intervista). Queste decisioni oggi presentano il conto, non solo per quello che subiscono i migranti (che pure ci riguarda, evidentemente), ma più direttamente nel quotidiano di molti cittadini, in molti più forme di prima.

L’arroganza di pochi governanti incapaci (o almeno non intenzionati) a valutare la realtà è sempre più pericolosa. Io vorrei almeno vedere l’indignazione di molti cittadini. Non solo la legittima commozione per la morte di una bambina. Ma la profonda indignazione, argomentata e motivata, nei confronti di chi si prende il lusso di dare per scontata la morte e la profonda sofferenza di sempre più persone (migranti, lavoratori, persone che prendono seriamente la legge e il senso dello Stato).

Cammini


In una giornata in cui molto più di quanto avrei voluto avevo abbondantemente rimuginato sul passato, sul presente, sugli errori fatti in tempi remoti e su quelli commessi pochi minuti prima, mi sono trovata ancora una volta sotto la splendida cupola di S.Andrea al Quirinale.

Neanche a farlo apposta, un brano dello spettacolo a cui ho assistito parlava di cammini incrociati e di piani diversi che si intersecano. E allora è stato inevitabile ripensare al mio, di cammino, alle tappe aggrovigliate che ancora una volta mi hanno portato in quella chiesa, peraltro un po’ da imbucata, in mezzo a tanti gesuiti.

Quel pensiero, oggi, mi faceva un po’ paura. Mi sentivo particolarmente vulnerabile e temevo il giudizio impietoso che solitamente riservo a me stessa. Poi, sotto una bellezza surreale e avvolta dalle note di una canzone che mi è particolarmente cara, inaspettatamente mi sono trovata nel cuore se non una risposta una sicurezza: avevo fatto bene, oggi, ad essere lì.

Tra tutti gli inciampi che ho avuto e avrò, mi è oggi chiara una cosa: l’amore non è mai sprecato. E prima o poi ritorna, magari trasformato, si riflette e si moltiplica, anche e forse soprattutto dove non si credeva potesse avere senso mettercelo. Di molte scelte oggi mi rammarico, ma non delle volte che ho cercato di dare attenzione e importanza a un amico, non delle volte in cui ho espresso in parole un apprezzamento senza calcolo.

E la bellezza, specialmente quella del cuore (ma anche quella artistica, qualche volta) tutto copre e tutto sopporta.

In caso di stress, rompere il vetro


Stamattina rileggevo un post riuscitissimo di Barbara su Genitoricrescono (la cui lettura raccomando a tutti) e mi sono trovata a farmi alcune domande, che in realtà mi inseguono, in forme diverse, da un po’ di tempo.

Come reagisco io sotto stress e cosa funzionerebbe per me nei momenti neri?

Ce l’ho qualcuno da chiamare in caso di crisi?

Premettiamo che nella mia esperienza è chiaro che stress è una definizione generica, che può etichettare situazioni troppo diverse per non necessitare una precisazione. Qui intendo quei “momenti in cui tutto è semplicemente troppo”, come dice Barbara molto efficacemente. Troppe emergenze contemporaneamente, troppo dolore su fronti diversi, troppi rospi ingoiati nell’unità di tempo, troppe sollecitazioni (lavorative, familiari, emotive…). Troppo tutto.

Altrettanto chiaro è che tutti reagiamo diversamente e tutti siamo diversamente sollecitati anche da situazioni apparentemente identiche. Per me ad esempio un certo numero di sollecitazioni è addirittura necessario per sentirmi viva e non sprofondare in baratri apparentemente inspiegabili. Capisco solo in teoria le persone che hanno bisogno di dosare il contatto umano quando stanno male: per me l’esposizione alle relazioni è quasi sempre terapeutica. Potrei continuare, ma avete capito il concetto.

Ci sono stati spesso momenti, negli ultimi anni, in cui ho realizzato di aver passato il limite. Cosa ha funzionato/avrebbe potuto funzionare per me in quei momenti?

Mi viene in mente uno specifico sabato mattina dello scorso ottobre. In quel momento forse la cosa che mi è apparsa più evidente come un bisogno assoluto fosse non essere sola. In senso fisico (con qualche limitazione, visto che ero davvero prostrata al limite del crollo fisico), ma soprattutto emotivo. Ho cominciato davvero a telefonare quasi a chiunque, a buttare addosso a amici e conoscenti quello che era successo e non riuscivo a gestire.

Da quel momento in particolare ho messo a fuoco una enorme paura di questa fase della mia vita: la solitudine. Quando lo confesso agli amici (e l’ho fatto più di qualche volta, negli ultimi mesi) li vedo spiazzati: in un certo senso in questo periodo la mia quotidianità appare (ed è, in effetti) molto ricca di relazioni, di scambi, di frequentazioni. E allora questa solitudine dove la vedo? Si tratta solo del fatto di non avere un rapporto di coppia?

In realtà la seconda domanda posta da Barbara è quella che mi turba di più. Chi chiamerei se avessi davvero bisogno? Mi sono trovata a chiedermelo quando dovevo inserire nel cellulare il “contatto da chiamare in caso di emergenza”. La verità è che non lo so (più). Che ci sono diverse persone che posso chiamare in momenti specifici e per esigenze specifiche, ma se dovessi indicarne una o un paio che ci sarebbero per me pienamente, a qualunque ora, senza nessuna riserva, non credo di sapere rispondere.

E se per le emergenze sanitarie alla fine la risposta sarebbe chiaramente una delle mie sorelle (o pure più di una, visto che ho la fortuna di averne diverse vicine), quando “in quei momenti” a cui Barbara si riferisce nel post mi viene voglia di chiamare qualcuno che non abbia bisogno di spiegazioni su perché lo chiamo e che capisca quello che non sono in grado di articolare, in virtù di strategie comunicative implicitamente concordate, qui davvero non so mai che pesci pigliare.

In genere me la cavo lanciando qualche whatsapp a casaccio, o facendo cose ancora più improbabili nella speranza che l’universo risponda (o, più facilmente, io trovi un motivo per distrarmi). Ma per quanto efficace possa essere la rete sociale immateriale di cui dispongo e che grazie a Dio esiste, ci sono momenti in cui mi servirebbe davvero qualcosa di fisico: un abbraccio, il bacetto di cui parla Barbara, almeno una voce.

E perché non telefoni allora? mi chiederete voi. Per farlo, per superare lo scrupolo di disturbare o di essere inopportuna, mi ci vuole proprio un motivo di forza maggiore (come è successo quel sabato mattina, infatti).

Dove voglio andare a parare? Forse – e alla fine probabilmente questo è il punto più importante del post di Barbara – ho solo bisogno di ricordare a me stessa che, anche se mi pare così, probabilmente questi momenti di smarrimento non capitano solo a me. Che non solo io mi sento così e che non dovrei vergognarmene quanto invece me ne vergogno. Che probabilmente anche alla persona a cui magari mando un WhatsApp salvo pentirmene subito dopo sarà capitato o capiterà di sentirsi vulnerabile e che magari potrebbe anche decifrarlo questo mio tentativo di contatto umano, anche se a me pare patetico.

Ma non sarebbe molto più semplice se fossimo tutti un po’ meno isolati? Perché anche questo, a giudicare da quello che sento, non è mica solo un problema mio.

La bravura, quanto è scivolosa


Oggi ho letto un post che mi ha colpito dritto al cuore e la cosa non mi ha stupito, perché l’autrice, oltre ad essere una persona a cui voglio bene, possiede certamente l’immenso talento di trovare le parole giuste. Per questo, come usavamo fare in tempi lontanissimi, ho pensato di rispondere, o piuttosto da partire da alcune sensazioni che mi ha lasciato per condividere qualche riflessione anche io.

Io sono stata a lungo considerata brava. A scuola certamente, all’università, nella ricerca. Nel mio lavoro, entro certi limiti. Ma che significa poi brava? La bravura, ricorda Valentina, è un concetto maledettamente scivoloso.

Essere considerata brava non mi ha impedito di essere conclamatamente perdente. Credo di essermi inserita in quel passaggio cronologico in cui la categoria di “mediamente povero, ma di riconosciuto prestigio culturale” di cui facevano parte i miei genitori è stata abrogata. E allora per me la definizione di brava si è sovrapposta a quella di inetta, poco furba, inadatta a questo mondo. Ergo, ai margini.

Alla fine il destino mi ha portato a lavorare proprio ai margini, anche in virtù di un’affinità irrefrenabile che mi riconosco con gli sconfitti del mondo. Ma da quando ho una figlia, i dubbi si sono moltiplicati. Anche per tutte le complessità oggettive e di contesto di cui parla Valentina.

E come madre, sono brava? La bravura, quanto è scivolosa. Sono una madre sufficientemente buona quando mi pare che lei si fidi di me, condivida i suoi dubbi e i suoi desideri? O quando, raramente, mi mostro decisa e sostanzialmente priva di esitazioni?

Penso alla frase di Danilo Dolci, sull’educare senza nascondere l’assurdo che c’è nel mondo e, in modo particolare, il guazzabuglio che ho nella testa e nel cuore. O forse quello è bene nasconderlo, o quanto meno schermarlo un po’?

Caspita se si è soli, quando si è genitori di adolescenti. Nudi su una strada deserta, pronti a nasconderci dietro la patina rassicurante della versione ufficiale che raccontiamo ai familiari, agli amici, a noi stessi.

Bisognerebbe parlarne


Ieri dicevo al mio amico Pietro che mi pare che sulla questione della scuola in presenza adesso non ci siano proprio le condizioni per confrontarsi. Siamo tutti troppo arrabbiati e esasperati, ciascuno per le sue ottime ragioni. Nelle conversazioni sui social si finisce per etichettarsi come caricature delle idee che ciascuno argomenta. Si esibiscono dati scientifici tanto quanto la loro mancanza per dimostrare la correttezza di tesi di cui ci siamo già convinti.

La verità è che di questa situazione nessuno ha modo di capire davvero un granché. Della pandemia, certo, ma soprattutto delle enormi implicazioni che ha sulla nostra vita e su quella delle persone che amiamo. E, a essere del tutto onesti, la situazione è spaventosa anche perché porta al pettine con grande evidenza i punti di rottura del sistema, quelle cose su cui non si sono fatti progressi da troppo tempo perché non considerate priorità.

Un esempio per tutti: non c’è modo di dimostrare che la DAD non funzioni, né che funzioni, al di là del limitato osservatorio dell’esperienza diretta nostra e dei nostri conoscenti. Ma è pur vero che, in generale, non c’è modo di valutare l’efficacia della didattica della scuola italiana, in generale. Ci sono alcuni indicatori (abbandono scolastico, registrazioni assai discutibili dei test Invalsi), ma nel complesso si è alla preistoria e non c’è stata una volontà reale di parlarne al di là degli schieramenti ideologici e dei circoli dei portatori di interesse.

La visione della serie Sanpa mi ha fatto pensare a quanto manchi, certo in Italia, ma forse un po’ in generale, un dibattito serio e critico sulle grandi trasformazioni sociali, non inquinato dalle logiche più immediate del consenso e del potere. La scuola, la genitorialità, la famiglia, la droga, la salute mentale… Di molte cose sarebbe importante parlare, molte esperienze dolorose fatte singolarmente e collettivamente restano confinate all’aneddotica, alla polemica sterile e polarizzata, senza che se ne tragga alcun vantaggio.

Al lavoro sono stata coinvolta nella redazione di una nuova rivista, Dromo, che si pone proprio come luogo di osservazione e analisi dei cambiamenti, soprattutto dal punto di vista di chi opera come professionista della “cura” (psicologi, assistenti e operatori sociali, medici, operatori della giustizia, ma anche insegnanti e secondo me genitori). Mi fa piacere di avere questa opportunità, piccola, a suo modo limitata, ma che mi restituisce un po’ di cibo per la mente e un pizzico di utopia.

Il primo numero è online qui: https://www.dromorivista.it. Mi piacerebbe sapere che ne pensate.

Toccare con mano


Sono un paio di giorni che medito di scrivere post frivoli, tipo “Cose che ho imparato da quando ho un gatto” o “Le migliori e peggiori serie Netflix della quarantena”. E nei prossimi giorni magari lo farò. Però stamattina ho aperto, dopo un po’ di tempo, il blog dell’ex maestro di Meryem e mi è caduto l’occhio su una frase:

“Cari bambini, la cosa più ingiusta che possa capitare a un bambino della vostra età è togliergli la possibilità di entrare ogni giorno in classe”.

Quanto è vero e credo che mai come in questo momento tutti lo abbiamo ben presente. Tocchiamo con mano nei nostri figli gli effetti immediati di questa ingiustizia e la tolleriamo a stento solo perché crediamo che questa situazione sarà temporanea.

Ora immaginate se ci dicessero che i nostri figli non potranno andare a scuola per altri 4 o 5 anni e che non ci sarà nessuna forma di didattica a distanza. Io credo che molti comincerebbero seriamente a considerare di trasferirsi all’estero.

Secondo l’ultimo report dell’UNHCR, su un totale di 7,1 milioni di bambini rifugiati in età scolare, frequentano la scuola 3,7 milioni. Il 37% dei bambini delle elementari, quelli di cui parla il maestro Flavio, non ha la possibilità di entrare in una classe. Se saliamo all’età di mia figlia, meno di uno su quattro va a scuola (24% del totale).

Sono situazioni che si protraggono per anni, a volte per decenni, bruciando generazioni intere e scavando baratri di ingiustizia e disuguaglianza. Questi bambini dimenticati, peraltro, non vivono necessariamente lontano da noi: molti ad esempio sono in Grecia.

Non posso fare a meno di pensare che in questo momento siamo nelle migliori condizioni possibili per sentire sulla nostra pelle l’enormità di questa ingiustizia. Non sarebbe bello se le tante energie positive di maestri e educatori potessero raggiungere anche qualcuno di questi bambini rifugiati?

Mantenere la distanza di sicurezza


Improvvisamente mi trovo un intero Paese che si affanna a sperimentare modi creativi per fare quello che cerco di fare da almeno un anno, nell’educazione di mia figlia e nelle relazioni in genere: mantenere la giusta distanza.

Vivo insomma immersa in un’immensa metafora. Troppo vicino, troppo lontano. Troppo presente, troppo assente. Troppo espansiva, troppo distaccata. Sono mesi che oscillo, soprattutto da madre, tra questi poli. Salvo brevi ed episodici intervalli, mi pare di essere costantemente alla distanza sbagliata da questa meravigliosa dodicenne, che vuole fare da sé, ma vuole anche essere appoggiata al bisogno, che sente l’urgenza di essere coccolata giusto la sera che io vorrei chiudermi in camera al buio, che ha bisogno di parlare quando io sono in trasferta, tra una riunione e l’altra. Ma se poi in un sabato stranamente libero come oggi le propongo di fare qualcosa insieme, mi dice che in realtà pensava di fare una passeggiata con un’amica (una di quelle che in questi giorni di scuole chiuse pascola ore e ore a casa mia) e al limite di studiare un po’.

Adesso non sono solo io a sentirmi fuori posto e a esitare tra opzioni diverse. Lavorare da casa si può? Si deve? Sarà il caso di annullare una festa di compleanno? E una cena con due amiche?

Vado al museo, approfittando della subitanea sparizione dei turisti? Io alla tentazione di andare a S.Pietro a guardarmi la Pietà senza neanche un minuto di fila ai controlli non ho resistito. Ma la gita lampo a Firenze che avevo seriamente considerato per oggi, alla fine non me la sono sentita di farla. Un po’ per la spesa, un po’ per lo scarso entusiasmo di Meryem, ma un po’ anche perché mettersi proprio a viaggiare compulsivamente non mi pare coerente con quel minimo di buon senso che è richiesto a noi cittadini.

La verità però è che su come educare i figli sono stati scritti mille manuali – che non servono naturalmente né a evitare errori né tanto meno a sapere cosa fare nelle diverse circostanze, ma almeno a posteriori aiutano a capire perché hai sbagliato (perché tanto si sbaglia, l’ho già detto?). Invece su come vivere in un tempo di epidemia, c’è poca bibliografia e tutta piuttosto datata.

Dare tutto


“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Fin da piccola questa frase biblica e evangelica mi è familiare e fino a stasera ho sotto sotto dato per scontato che fosse un effetto retorico, una ridondanza espressiva.

Stasera improvvisamente, dopo una lunga sessione di confronto con mia figlia, ho colto tutta la ricchezza semantica dell’espressione. Oggi davvero ho, in piena consapevolezza, amato con il cuore, come è facile che sia, ma facendo appello a tutte le capacità della mia mente e anche alla mia anima, per lasciarmi ispirare nella creatività della relazione con lei.

Che un figlio tocchi il cuore è una banalità e una legge di natura. Che fare il genitore richieda molto lavoro di mente e ogni forma disponibile di intelligenza pure non è una novità. Ma davvero questa ragazza terribile e straordinaria che è mia figlia è anche padrona della mia anima. Cosa sia l’anima esattamente non saprei spiegarlo stasera se non così: quella terza parte di me che ama Meryem con tutta l’intensità possibile.