In caso di stress, rompere il vetro


Stamattina rileggevo un post riuscitissimo di Barbara su Genitoricrescono (la cui lettura raccomando a tutti) e mi sono trovata a farmi alcune domande, che in realtà mi inseguono, in forme diverse, da un po’ di tempo.

Come reagisco io sotto stress e cosa funzionerebbe per me nei momenti neri?

Ce l’ho qualcuno da chiamare in caso di crisi?

Premettiamo che nella mia esperienza è chiaro che stress è una definizione generica, che può etichettare situazioni troppo diverse per non necessitare una precisazione. Qui intendo quei “momenti in cui tutto è semplicemente troppo”, come dice Barbara molto efficacemente. Troppe emergenze contemporaneamente, troppo dolore su fronti diversi, troppi rospi ingoiati nell’unità di tempo, troppe sollecitazioni (lavorative, familiari, emotive…). Troppo tutto.

Altrettanto chiaro è che tutti reagiamo diversamente e tutti siamo diversamente sollecitati anche da situazioni apparentemente identiche. Per me ad esempio un certo numero di sollecitazioni è addirittura necessario per sentirmi viva e non sprofondare in baratri apparentemente inspiegabili. Capisco solo in teoria le persone che hanno bisogno di dosare il contatto umano quando stanno male: per me l’esposizione alle relazioni è quasi sempre terapeutica. Potrei continuare, ma avete capito il concetto.

Ci sono stati spesso momenti, negli ultimi anni, in cui ho realizzato di aver passato il limite. Cosa ha funzionato/avrebbe potuto funzionare per me in quei momenti?

Mi viene in mente uno specifico sabato mattina dello scorso ottobre. In quel momento forse la cosa che mi è apparsa più evidente come un bisogno assoluto fosse non essere sola. In senso fisico (con qualche limitazione, visto che ero davvero prostrata al limite del crollo fisico), ma soprattutto emotivo. Ho cominciato davvero a telefonare quasi a chiunque, a buttare addosso a amici e conoscenti quello che era successo e non riuscivo a gestire.

Da quel momento in particolare ho messo a fuoco una enorme paura di questa fase della mia vita: la solitudine. Quando lo confesso agli amici (e l’ho fatto più di qualche volta, negli ultimi mesi) li vedo spiazzati: in un certo senso in questo periodo la mia quotidianità appare (ed è, in effetti) molto ricca di relazioni, di scambi, di frequentazioni. E allora questa solitudine dove la vedo? Si tratta solo del fatto di non avere un rapporto di coppia?

In realtà la seconda domanda posta da Barbara è quella che mi turba di più. Chi chiamerei se avessi davvero bisogno? Mi sono trovata a chiedermelo quando dovevo inserire nel cellulare il “contatto da chiamare in caso di emergenza”. La verità è che non lo so (più). Che ci sono diverse persone che posso chiamare in momenti specifici e per esigenze specifiche, ma se dovessi indicarne una o un paio che ci sarebbero per me pienamente, a qualunque ora, senza nessuna riserva, non credo di sapere rispondere.

E se per le emergenze sanitarie alla fine la risposta sarebbe chiaramente una delle mie sorelle (o pure più di una, visto che ho la fortuna di averne diverse vicine), quando “in quei momenti” a cui Barbara si riferisce nel post mi viene voglia di chiamare qualcuno che non abbia bisogno di spiegazioni su perché lo chiamo e che capisca quello che non sono in grado di articolare, in virtù di strategie comunicative implicitamente concordate, qui davvero non so mai che pesci pigliare.

In genere me la cavo lanciando qualche whatsapp a casaccio, o facendo cose ancora più improbabili nella speranza che l’universo risponda (o, più facilmente, io trovi un motivo per distrarmi). Ma per quanto efficace possa essere la rete sociale immateriale di cui dispongo e che grazie a Dio esiste, ci sono momenti in cui mi servirebbe davvero qualcosa di fisico: un abbraccio, il bacetto di cui parla Barbara, almeno una voce.

E perché non telefoni allora? mi chiederete voi. Per farlo, per superare lo scrupolo di disturbare o di essere inopportuna, mi ci vuole proprio un motivo di forza maggiore (come è successo quel sabato mattina, infatti).

Dove voglio andare a parare? Forse – e alla fine probabilmente questo è il punto più importante del post di Barbara – ho solo bisogno di ricordare a me stessa che, anche se mi pare così, probabilmente questi momenti di smarrimento non capitano solo a me. Che non solo io mi sento così e che non dovrei vergognarmene quanto invece me ne vergogno. Che probabilmente anche alla persona a cui magari mando un WhatsApp salvo pentirmene subito dopo sarà capitato o capiterà di sentirsi vulnerabile e che magari potrebbe anche decifrarlo questo mio tentativo di contatto umano, anche se a me pare patetico.

Ma non sarebbe molto più semplice se fossimo tutti un po’ meno isolati? Perché anche questo, a giudicare da quello che sento, non è mica solo un problema mio.

La bravura, quanto è scivolosa


Oggi ho letto un post che mi ha colpito dritto al cuore e la cosa non mi ha stupito, perché l’autrice, oltre ad essere una persona a cui voglio bene, possiede certamente l’immenso talento di trovare le parole giuste. Per questo, come usavamo fare in tempi lontanissimi, ho pensato di rispondere, o piuttosto da partire da alcune sensazioni che mi ha lasciato per condividere qualche riflessione anche io.

Io sono stata a lungo considerata brava. A scuola certamente, all’università, nella ricerca. Nel mio lavoro, entro certi limiti. Ma che significa poi brava? La bravura, ricorda Valentina, è un concetto maledettamente scivoloso.

Essere considerata brava non mi ha impedito di essere conclamatamente perdente. Credo di essermi inserita in quel passaggio cronologico in cui la categoria di “mediamente povero, ma di riconosciuto prestigio culturale” di cui facevano parte i miei genitori è stata abrogata. E allora per me la definizione di brava si è sovrapposta a quella di inetta, poco furba, inadatta a questo mondo. Ergo, ai margini.

Alla fine il destino mi ha portato a lavorare proprio ai margini, anche in virtù di un’affinità irrefrenabile che mi riconosco con gli sconfitti del mondo. Ma da quando ho una figlia, i dubbi si sono moltiplicati. Anche per tutte le complessità oggettive e di contesto di cui parla Valentina.

E come madre, sono brava? La bravura, quanto è scivolosa. Sono una madre sufficientemente buona quando mi pare che lei si fidi di me, condivida i suoi dubbi e i suoi desideri? O quando, raramente, mi mostro decisa e sostanzialmente priva di esitazioni?

Penso alla frase di Danilo Dolci, sull’educare senza nascondere l’assurdo che c’è nel mondo e, in modo particolare, il guazzabuglio che ho nella testa e nel cuore. O forse quello è bene nasconderlo, o quanto meno schermarlo un po’?

Caspita se si è soli, quando si è genitori di adolescenti. Nudi su una strada deserta, pronti a nasconderci dietro la patina rassicurante della versione ufficiale che raccontiamo ai familiari, agli amici, a noi stessi.

Bisognerebbe parlarne


Ieri dicevo al mio amico Pietro che mi pare che sulla questione della scuola in presenza adesso non ci siano proprio le condizioni per confrontarsi. Siamo tutti troppo arrabbiati e esasperati, ciascuno per le sue ottime ragioni. Nelle conversazioni sui social si finisce per etichettarsi come caricature delle idee che ciascuno argomenta. Si esibiscono dati scientifici tanto quanto la loro mancanza per dimostrare la correttezza di tesi di cui ci siamo già convinti.

La verità è che di questa situazione nessuno ha modo di capire davvero un granché. Della pandemia, certo, ma soprattutto delle enormi implicazioni che ha sulla nostra vita e su quella delle persone che amiamo. E, a essere del tutto onesti, la situazione è spaventosa anche perché porta al pettine con grande evidenza i punti di rottura del sistema, quelle cose su cui non si sono fatti progressi da troppo tempo perché non considerate priorità.

Un esempio per tutti: non c’è modo di dimostrare che la DAD non funzioni, né che funzioni, al di là del limitato osservatorio dell’esperienza diretta nostra e dei nostri conoscenti. Ma è pur vero che, in generale, non c’è modo di valutare l’efficacia della didattica della scuola italiana, in generale. Ci sono alcuni indicatori (abbandono scolastico, registrazioni assai discutibili dei test Invalsi), ma nel complesso si è alla preistoria e non c’è stata una volontà reale di parlarne al di là degli schieramenti ideologici e dei circoli dei portatori di interesse.

La visione della serie Sanpa mi ha fatto pensare a quanto manchi, certo in Italia, ma forse un po’ in generale, un dibattito serio e critico sulle grandi trasformazioni sociali, non inquinato dalle logiche più immediate del consenso e del potere. La scuola, la genitorialità, la famiglia, la droga, la salute mentale… Di molte cose sarebbe importante parlare, molte esperienze dolorose fatte singolarmente e collettivamente restano confinate all’aneddotica, alla polemica sterile e polarizzata, senza che se ne tragga alcun vantaggio.

Al lavoro sono stata coinvolta nella redazione di una nuova rivista, Dromo, che si pone proprio come luogo di osservazione e analisi dei cambiamenti, soprattutto dal punto di vista di chi opera come professionista della “cura” (psicologi, assistenti e operatori sociali, medici, operatori della giustizia, ma anche insegnanti e secondo me genitori). Mi fa piacere di avere questa opportunità, piccola, a suo modo limitata, ma che mi restituisce un po’ di cibo per la mente e un pizzico di utopia.

Il primo numero è online qui: https://www.dromorivista.it. Mi piacerebbe sapere che ne pensate.

Toccare con mano


Sono un paio di giorni che medito di scrivere post frivoli, tipo “Cose che ho imparato da quando ho un gatto” o “Le migliori e peggiori serie Netflix della quarantena”. E nei prossimi giorni magari lo farò. Però stamattina ho aperto, dopo un po’ di tempo, il blog dell’ex maestro di Meryem e mi è caduto l’occhio su una frase:

“Cari bambini, la cosa più ingiusta che possa capitare a un bambino della vostra età è togliergli la possibilità di entrare ogni giorno in classe”.

Quanto è vero e credo che mai come in questo momento tutti lo abbiamo ben presente. Tocchiamo con mano nei nostri figli gli effetti immediati di questa ingiustizia e la tolleriamo a stento solo perché crediamo che questa situazione sarà temporanea.

Ora immaginate se ci dicessero che i nostri figli non potranno andare a scuola per altri 4 o 5 anni e che non ci sarà nessuna forma di didattica a distanza. Io credo che molti comincerebbero seriamente a considerare di trasferirsi all’estero.

Secondo l’ultimo report dell’UNHCR, su un totale di 7,1 milioni di bambini rifugiati in età scolare, frequentano la scuola 3,7 milioni. Il 37% dei bambini delle elementari, quelli di cui parla il maestro Flavio, non ha la possibilità di entrare in una classe. Se saliamo all’età di mia figlia, meno di uno su quattro va a scuola (24% del totale).

Sono situazioni che si protraggono per anni, a volte per decenni, bruciando generazioni intere e scavando baratri di ingiustizia e disuguaglianza. Questi bambini dimenticati, peraltro, non vivono necessariamente lontano da noi: molti ad esempio sono in Grecia.

Non posso fare a meno di pensare che in questo momento siamo nelle migliori condizioni possibili per sentire sulla nostra pelle l’enormità di questa ingiustizia. Non sarebbe bello se le tante energie positive di maestri e educatori potessero raggiungere anche qualcuno di questi bambini rifugiati?

Mantenere la distanza di sicurezza


Improvvisamente mi trovo un intero Paese che si affanna a sperimentare modi creativi per fare quello che cerco di fare da almeno un anno, nell’educazione di mia figlia e nelle relazioni in genere: mantenere la giusta distanza.

Vivo insomma immersa in un’immensa metafora. Troppo vicino, troppo lontano. Troppo presente, troppo assente. Troppo espansiva, troppo distaccata. Sono mesi che oscillo, soprattutto da madre, tra questi poli. Salvo brevi ed episodici intervalli, mi pare di essere costantemente alla distanza sbagliata da questa meravigliosa dodicenne, che vuole fare da sé, ma vuole anche essere appoggiata al bisogno, che sente l’urgenza di essere coccolata giusto la sera che io vorrei chiudermi in camera al buio, che ha bisogno di parlare quando io sono in trasferta, tra una riunione e l’altra. Ma se poi in un sabato stranamente libero come oggi le propongo di fare qualcosa insieme, mi dice che in realtà pensava di fare una passeggiata con un’amica (una di quelle che in questi giorni di scuole chiuse pascola ore e ore a casa mia) e al limite di studiare un po’.

Adesso non sono solo io a sentirmi fuori posto e a esitare tra opzioni diverse. Lavorare da casa si può? Si deve? Sarà il caso di annullare una festa di compleanno? E una cena con due amiche?

Vado al museo, approfittando della subitanea sparizione dei turisti? Io alla tentazione di andare a S.Pietro a guardarmi la Pietà senza neanche un minuto di fila ai controlli non ho resistito. Ma la gita lampo a Firenze che avevo seriamente considerato per oggi, alla fine non me la sono sentita di farla. Un po’ per la spesa, un po’ per lo scarso entusiasmo di Meryem, ma un po’ anche perché mettersi proprio a viaggiare compulsivamente non mi pare coerente con quel minimo di buon senso che è richiesto a noi cittadini.

La verità però è che su come educare i figli sono stati scritti mille manuali – che non servono naturalmente né a evitare errori né tanto meno a sapere cosa fare nelle diverse circostanze, ma almeno a posteriori aiutano a capire perché hai sbagliato (perché tanto si sbaglia, l’ho già detto?). Invece su come vivere in un tempo di epidemia, c’è poca bibliografia e tutta piuttosto datata.

Dare tutto


“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Fin da piccola questa frase biblica e evangelica mi è familiare e fino a stasera ho sotto sotto dato per scontato che fosse un effetto retorico, una ridondanza espressiva.

Stasera improvvisamente, dopo una lunga sessione di confronto con mia figlia, ho colto tutta la ricchezza semantica dell’espressione. Oggi davvero ho, in piena consapevolezza, amato con il cuore, come è facile che sia, ma facendo appello a tutte le capacità della mia mente e anche alla mia anima, per lasciarmi ispirare nella creatività della relazione con lei.

Che un figlio tocchi il cuore è una banalità e una legge di natura. Che fare il genitore richieda molto lavoro di mente e ogni forma disponibile di intelligenza pure non è una novità. Ma davvero questa ragazza terribile e straordinaria che è mia figlia è anche padrona della mia anima. Cosa sia l’anima esattamente non saprei spiegarlo stasera se non così: quella terza parte di me che ama Meryem con tutta l’intensità possibile.

3 ottobre


Ieri cercavo con una certa difficoltà di esprimere un concetto che in realtà non è completamente chiaro neanche a me stessa: anche se ho cambiato lavoro, non senza qualche scossone, alcuni passaggi della mia “vita precedente” sono parte di me. Uno è il 3 ottobre.

Quel 3 ottobre, di 9 anni fa. Tanti fatti che riguardano i rifugiati hanno scosso l’opinione pubblica, negli anni a seguire. Ma io penso che per chiunque fosse in qualche misura direttamente coinvolto nell’accoglienza di rifugiati in quel periodo il 3 ottobre abbia lo stesso impatto emotivo dell’11 settembre. Esagero? No, direi che è quasi poco.

Anche il 3 ottobre ha segnato un prima e un dopo. Ha negli anni, quel 3 ottobre, provocato uno strascico infinito di altre morti, una vera guerra che si combatte anche oggi nel Mediterraneo. Ma soprattutto di quel giorno ricordo l’attonito dolore con cui in tanti abbiamo pensato: “Non è possibile”. Lo strazio degli amici e dei familiari delle vittime, che erano nei nostri centri di accoglienza (donne, soprattutto). Lo spettacolo osceno di quelle bare, troppe. Troppe per un cimitero, troppe per un’isola, troppe per la nostra coscienza.

La mattina del 4 ottobre, senza quasi dovercelo dire, ci siamo trovati nella cappellina di via degli Astalli. Davanti a certe enormità mi tornava in mente la frase di Pedro Arrupe: pregate, perché per certe cose non c’è soluzione umana che basti. Eppure questo non ci esime dal cercarle, le soluzioni. Anche se non sono sufficienti, sono comunque indispensabili. L’operazione Mare Nostrum fu una risposta. Chi ha poi parlato di pull factor non ha mai conosciuto quel rifugiato che anni dopo, a un incontro pubblico all’università Gregoriana, ha voluto stringere la mano a Enrico Letta e dirgli, semplicemente: “Se non fosse stato per quella sua decisione, io ora sarei morto”.

Non riesco a dissertare di rifugiati in teoria. La prendi troppo sul personale, mi è stato detto. È personale. Non può essere altrimenti. È una questione tra persone, appunto. Quei morti sono nostri, dovremmo almeno piangerli, dissero con parole diverse Giusi Niccolini e Papa Francesco. Oggi direi che dovremmo esigere di smettere di uccidere, nel deserto, in Libia e in mare, con i nostri soldi pubblici e la nostra ipocrisia.

Domani è 3 ottobre. Si dovrebbe fare memoria, in tutte le scuole, di quel naufragio e di quello che ne è seguito. Fuori dalle scuole, vi chiedo di ricordarvi almeno un momento di che giorno è. Magari guardatevi L’ordine delle cose di Andrea Segre. Se lo avete già guardato, riguardatelo con qualcuno che non lo ha visto. Parlatene. La memoria si tiene viva se ci ricordiamo di ritirarla dentro nella quotidianità, almeno ogni tanto.

Getsemani


La scorsa settimana mi sono trovata con il mio nuovo capo, psicoterapeuta, a parlare a cena niente meno che dei Vangeli. Sono un territorio che mi è familiare e in qualche modo mi rendo conto che avevo la pretesa di saperne più di lui, notoriamente ateo, sull’argomento.

Però mi ha fatto cogliere un aspetto a cui non avevo mai pensato. Raccontava che talora, anche in terapia, utilizza il racconto dell’orto degli ulivi. Un racconto, a sentir lui, del tutto paradossale. Quanta probabilità c’era che, dato un gruppo di discepoli fidatissimi, pronti a morire per il proprio maestro, in seguito all’espressa richiesta di lui di vegliare si addormentassero tutti? Non uno, non la metà. Tutti.

Cosa ci insegna questo episodio? Secondo lui è davvero istruttivo sulle aspettative che tutti noi nutriamo verso le persone che amiamo. Si deve forse dedurre che i discepoli, vinti dal sonno, non amassero Gesù o non lo amassero abbastanza? La storia nel suo complesso ci dice che non è così. Il racconto mostra altro. Che ci possono essere mille ragioni perché chi amiamo finisce per deludere le nostre aspettative. Magari avevamo aspettative non realistiche, magari non consideravamo le sue esigenze, magari è successo uno dei tanti intoppi di comunicazione o di relazioni che non fa girare le cose come le avevamo pensate. Quel sonno non è la misura del non amore. Rifletterci può essere utile.

In particolare mi è utile stasera e la riflessione mi convince pienamente. È stata una giornata emotivamente intensa. A tratti mi sono sentita sola e avrei tanto voluto non esserlo. Però in questo momento un po’ lo sono, per un incrocio di circostanze, di geografia, di vicende anagrafiche. Qualcosa si riesce a parare e se devo essere onesta il raccolto delle mie frammentarie richieste di soccorso è stato soddisfacente. Non si è addormentato nessuno. Però mi sarebbe servito proprio un abbraccio fisico, tangibile, tanto tempo, tanta pazienza.

La mia professoressa di italiano delle medie diceva spesso: “Quando ti senti triste fino alla morte, ricordati che non sei solo nell’orto degli ulivi”. Non ho mai amato quel suo misticismo un po’ barocco e sofferente, ma anche questa frase ha la sua verità. Magari non nel modo che vorrei, ma sola non sono.

Montagne russe


Questo blog ha compiuto 15 anni e forse per questo non lo accudisco più come prima. Però lo continuo a guardare con affetto e rispetto, forse lo prendo persino più sul serio: custodisce molte cose, alcune senza importanza, altre per me utili e persino preziose.

Scrivo questo post dopo. Dopo alcuni cambiamenti importanti, il più evidente dei quali è quello lavorativo. Ma non è tanto di questo che voglio parlare, quanto di me in questo furioso alternarsi di paura e eccitazione, di gioia pura e di tristezza. Persino dolore. Da un paio di mesi sono a bordo di infernali montagne russe di emozioni e non c’è verso di scendere.

Mi sono chiesta a cosa posso aggrapparmi quando la discesa mi pare troppo ripida e dubito di tutto. Certamente la bellezza un po’ aiuta. Roma ogni tanto sembra farmi un cenno di incoraggiamento. Ma c’è stato anche tanto altro, in questo periodo. Sculture di Verrocchio, graffiti rinascimentali, persino un airone che faceva colazione lungo un fiume in una mattina struggente ma comunque a modo suo (agro)dolce. Ancora di più mi aiutano i momenti in cui mi trovo per caso sintonizzata su una frequenza che mi appartiene e allora riesco a splendere con disinvoltura, divertendomi persino, dimenticando remore, insicurezze e mancanze vere o presunte.

Sotto una perfetta luna piena, la settimana scorsa, mi sono ripromessa di coltivare una doverosa gratitudine per questa vita ricca che ho avuto e che ho ancora tra le dita, anche se in alcuni momenti i vuoti rimbombano più dei pieni.

I mormoni e il diritto di contare


Ieri sono andata a visitare il nuovo tempio dei mormoni a Roma, un edificio monumentale e per molti versi assai spiazzante. Sarebbe troppo facile, ma non originale e neppure utile, ironizzare sullo sfarzo, sulla traduzione della bellezza “tipicamente italiana” in categorie che non hanno nulla di culturalmente europeo (dal pattern della piazza del Campidoglio riprodotto qua e là a casaccio tipo logo commerciale ai dipinti che si ispirano, più che all’arte figurativa in sé, alla riproduzione di fotogrammi di pellicole cnematografiche). Ma non è questo in realtà che mi ha colpito davvero e condivido con il mio amico Renzo il fastidio per la facile ironia con cui sui giornali viene descritto questo luogo di culto e questa comunità religiosa, specialmente considerando che anche il cattolicesimo in Italia offre manifestazioni non meno pacchiane, sfarzose e risibili se viste in una certa ottica.

Io credo che il punto sia un altro e che non vada preso sotto gramba. Quello che ho visto ieri è una struttura enorma che pullulava di membri della comunità di ogni età (e in una certa misura vari anche per provenienza, anche se ovviamente i “missionari” statunitensi facevano la parte del leone) che erano lì a servizio, dedicati con gioia alla buona riuscita delle visite. Dimostravano tutti entusiamo e convinzione. Approfondendo quel minimo i contenuti del messaggio religioso, salta all’occhio che la comunuità dei fratelli è tangibile e concretamente presente nelle scelte quotidiane dei membri della chiesa, a partire dalla decima dello stipendio che tutti versano. Ma d’altro canto la comunità offre aiuto, supporto, sostegno, effettivo contatto umano. Non posso fare a meno di osservare che molte persone nel mondo avvertono il bisogno di una comunità meno evanescente, che se e quando si presenta una necessità qualunque esista e si materializzi in persone fisiche a cui potersi rivolgere.

Non mi fraintendete. Non voglio mica dire che se uno si sente solo deve farsi mormone. Affatto. Però io penso che questo elemento sia un punto di forza del loro messaggio. Esistono certamente altri modi di creare lo stesso senso di comunità effettiva, diversissimi tra loro, di quasi qualsiasi etichetta religiosa o non religiosa. E ho la sensazione he tutte queste forme, dalle comunità di famiglie che ho avuto modo di incrociare attraverso il mondo gesuitico ai kibbutzim israeliani (ma mettiamoci pure la Comunità di S. Egidio e tutte le altre comunità che richiedono dai membri non una simpatia generale, ma precise scelte di vita), sia guardata più o meno con analogo dubbio e sospetto dalla comunicazione mainstream.

Lo stesso giorno della visita al tempio con Meryem ho guardato un bellissimo film, Il diritto di contare (che raccomando caldamente per vari motivi). Inevitabilmente, visti i pensieri che rimuginavo da qualche ora, ho notato un aspetto della storia a cui forse non avrei fatto attenzione altrimenti. Le tre donne afroamericane che si affermano con la loro competenza e tenacia in un’America degli anni ’60 ancora – incredibilmente, certamente per mia figlia – segrazionista facevano parte di una comunità religiosa che le apprezzava e le sosteneva. Se fossero state ciascuna da sola davanti alle proprie sfide personali, ce l’avrebbero fatta lo stesso? Certamente no, senza voler evidentemente sminuire la capacità delle singole. Il titolo è molto bello e ha molte sfumature diverse. Certamente si trattava di tre donne che, a dispetto di tutto, per qualcuno contavano già: per i loro familiari, ovviamente, ma anche per la loro comunità.

Se guardo alla mia esperienza, in un contesto apparentemente preoccupato di non invadere la tua privacy (salvo calpestarla di continuo con le più svariate scuse, evidentemente), vedo con chiarezza che quella che io ho imparato a chiamare libertà ha un prezzo alto. Nessuno mi controlla, nessuno mi giudica, ma sono spesso sola con le mie fatiche, le mie decisioni e le mie responsabilità. Dopo che ho partorito sono rimasta sola chiusa a casa per alcuni giorni, più o meno paralizzata dalla paura. Mia madre, che ho sentito al telefono a un certo punto, mi ha detto che non mi aveva chiamato prima e non era passata a trovarmi per non disturbare. Sono certa che fosse assolutamente vero e io stessa ho ben chiara la preoccupazione di “esserci troppo”, di soffocare la legittima e sana indipendenza di mia figlia.

Aggiungerei che le comunità che conosciamo e di cui mia madre e tanti altri hanno fatto e fanno esperienza (religiose, sociali, il villaggio, il clan, la famiglia mediterranea, ecc…) non sono, diciamocelo, i luoghi in cui solitamente e normalmente si fiorisce e ci si sviluppa. Io stessa sono fuggita dall’unica parvenza di comunità religiosa tangibile, la parrocchia, esattamente perché avvertivo forte il desiderio di quella comunità di tenermi al guinzaglio, di non incoraggiarmi ad uscire verso l’esterno, di limitarmi. Meglio soli che male accompagnati. Meglio nulla che una comunità che soffoca e opprime, che costringe in categorie e arriva a mutilare i suoi membri, almeno simbolicamente (quando non fisicamente).

Però. C’è un però. Vivere soli contro il mondo non solo è difficile, ma alla lunga non rende felici. Possibile che non possano esistere delle comunità presenti senza opprimere, rispettose della diversità individuale, libere dalla sete di potere, ma anche fisicamente e affettivamente presenti e non meramente ideali e intangibili? Io questo weekend lo termino rimuginando questa domanda.

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