Michelangelo a sorpresa


“Ci sarebbe una statua di Michelangelo che non conosce nessuno…” Marielou guida dalle parti di Bassano Romano, al nostro treno da Oriolo a Roma manca ancora un’oretta. Suo marito è scettico: “Ancora con questa storia della statua? Ma non siamo mai riusciti a trovarla…”. E invece questa volta, con un po’ di fortuna e l’aiuto di Google la abbiamo trovata. E così apprendiamo, da un foglio a distribuzione gratuita redatto da Cleto Tuderti, la storia sorprendente che vado a raccontarvi.

In questa chiesa di Bassano Romano c’era la statua che vedete. Era convinzione comune che fosse opera di uno scultore secentesco anonimo che si era ispirato al Cristo Portacroce di Michelangelo che è nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, vicino al Pantheon (non ho mai visto neanche quello, per la cronaca). Poi, in occasione di una mostra del 2001, delle ricerche di archivio dimostrarono inequivocabilmente che la verità era un’altra.

Siamo tra il 1514 e il 1516. Michelangelo sta lavorando alla statua commissionatagli per la chiesa sopra Minerva dall’amico Metello Vari. La statua è quasi finita, quando sulla guancia sinistra di Cristo il marmo rivela una venatura scura. Immaginate che rosicata per Michelangelo. Dai documenti risulta che, smaltita la bile, lo scultore abbia deciso di ricominciare il lavoro da capo. “Però vedi di togliermi da davanti ‘sto Cristo sbagliato”, immagino che abbia detto Michelangelo a Metello. Quello, felice di avere due statue al prezzo di una, si mise quella con la “vena nera” in giardino, regalando un puledro all’artista per consolarlo.

Nel 1607 il Cristo finisce in vendita e se lo compra Vincenzo Giustiniani per la sua collezione. Fa un buon affare, ma gli mette un perizoma, perché nel frattempo c’era stata la Controriforma e con i nudi, anche divini, toccava andarci piano. Il marchese Giustiniani aveva anche altre fisse: preferiva che la statua avesse la bocca aperta e non chiusa, in modo da farla apparire più viva, come se respirasse. Quindi le fa fare un ritocchino da uno scultore, che già che si trova rende anche un po’ meno visibile la firma di Michelangelo.

Nel 1644 i Giustiniani la piazzano nella chiesa di Bassano Romano, inizialmente sull’altare maggiore. Ma non è un successone. Innanzi tutto si valuta di inspessire il perizoma, perché sia pur un po’ coperto, comunque questo nudo eroico era un po’ troppo per essere esposto al pubblico: ci aggiungono quindi strati vari di tessuti (seta rossa, velo bianco e tenda di Sangallo, per la precisione). Infine del 1979 i frati devoti della Sacra Sindone che gestiscono la chiesa la sostituiscono con una icona meno imbarazzante, spostando la statua in sagrestia, dove dava meno nell’occhio.

Scoperto poi improvvisamente il suo valore, al ritorno dalla mostra del 2001 la si colloca in una cappella laterale, su un altare secentesco, e con adeguate misure di sicurezza. Lì l’abbiamo trovata noi, di ritorno da una gita, il Sabato Santo di 21 anni dopo e lì la troverete anche voi, se vi capiterà di fare una gita al Monastero di S.Vincenzo a Bassano Romano.

Termini


Lunedì sera il nostro treno è arrivato a Termini a mezzanotte passata. Mentre facevamo la fila per un taxi, io avevo lo sguardo fisso alla carreggiata davanti a noi, dove le vetture bianche arrivavano per fortuna in rapida successione, talora sollevando alti spruzzi dalla pozzanghere della pioggia che evidentemente aveva bagnato la città in nostra assenza. Meryem invece guardava la fila di persone sdraiate lungo le porte dell’atrio. “Ma noi lasciamo tutti loro a dormire per strada ogni sera?”. Stavo per cominciare con il discorsetto sul fatto che magari per alcuni di loro è una scelta, che aiutarli non è così semplice, eccetera eccetera. Ma mi sono fermata in tempo. Chi vogliamo prendere in giro? Sì, è esattamente così. Noi ogni sera li lasciamo lì.

Ogni sera, a quanto ne so, lasciamo lì sempre più persone, perché è sempre più facile non avere diritto ad altro, non avere altra possibilità. E magari ci limitassimo a questo. Ieri, tornando a casa con l’autobus, un uomo in sedia a rotelle, palesemente senza dimora, ha cominciato a insultare alcuni passeggeri. “Pezzi di merda, scendete”, li apostrofava con voce impastata. A un certo punto ha persino allungato la mano contro un ragazzo, gridando: “Chi sei? Chi sei tu?”. Lui ha fatto un passo indietro e poi è sceso alla fermata successiva. Un signore che era in piedi lì accanto senza parere ha fatto un passetto in avanti, frapponendosi tra i due. Meryem mi ha guardato in attesa di un commento, che questa volta ho fatto. Sappiamo che molte persone non sono lucide e le condizioni in cui vivono non aiutano certo. In questi casi, semplicemente, è prudente allontanarsi senza dire niente.

Meryem ha annuito sospirando. Sa benissimo che vivere in strada è difficile, non solo per il freddo. Ha conosciuto Chiara, una signora dai capelli bianchi, che viveva per strada nel nostro quartiere. La scuola di Meryem le ha dato la possibilità di appoggiarsi in un capanno per gli attrezzi nel cortile e i bambini la conoscono e le vogliono bene. Le hanno chiesto qualcosa della sua vita faticosa e se qualcuno la deride si indignano. Chiara ha un nome, è parte della comunità. Ma tutti gli altri?

Mia figlia, a 11 anni, non fa fatica a capire che vivere ai margini annebbia la mente, fa perdere la dignità e il senso del limite. Sono sicura che se le dicessi che, su un autobus come quello su cui eravamo noi ieri, due persone senza fissa dimora si sono messe a discutere e a insultarsi senza particolare ragione e poi, scesi dall’autobus, uno dei due ha dato una coltellata all’altro urlandogli “italiano di merda” (era georgiano, per la cronaca), sospirerebbe, magari ne sarebbe turbata, ma non penserebbe che l’accoltellatore è un “terrorista” e l’altro un “cittadino innocente”. Magari si chiederebbe perché abbiamo lasciato entrambi a dormire per strada nel degrado feroce che esiste a Roma come in tante altre città del mondo, ma qui sembra dilagare.

Il nostro ministro dell’interno, a quanto pare, ha preferito dare un’altra versione dei fatti. Sguaiata, offensiva, pretestuosa. Altri – che peraltro questa città amministrano – rispondono in modo altrettanto pretestuoso, rivelando come sempre superficialità e vigliaccheria, pronti a schivare qualunque responsabilità.

Io continuo a insegnare a mia figlia quello che mi pare essenziale, e ciò che il senso di comunità è l’unica cosa che sostiene noi uomini, in tutto il mondo e anche sui mezzi pubblici di Roma. Tutto il resto è rumore.

Roma è il mio luogo


Nel giro di una settimana scarsa mi sono trovata a fare a due amiche, originarie di due diverse città d’Italia, la stessa confessione: più passa il tempo (più invecchio?) più mi sento legata a Roma. Ne vedo i problemi, i limiti, le difficoltà. Ma sempre più la amo, sempre più mi pare teorica per me l’idea di trasferirmi altrove. Non è che questo pensiero mi piaccia del tutto, intendiamoci. Mi sono sempre immaginata mobile, cittadina del mondo, vagabonda. E ancora lo sono, in una certa misura, ancora mi sostiene una curiosità per il mondo e per i suoi più curiosi aspetti: una decina di giorni fa, per dire, mi buttavo in una conversazione animata sulle usanze alimentari in Tibet (perché i tibetani tradizionalmente non mangiano pesce?). Però sempre più insistentemente sono convinto che questa è casa, questa metropoli complicata ed esasperante, ma straordinaria e stupefacente.

“Non esiste Roma senza il mondo che la attraversa”, ha detto ieri a un convegno una maestra della scuola Pisacane di Torpignattara. E certamente questo è un aspetto della città a cui non potrei più rinunciare. Oltre, si intende, alla profondità diacronica: l’antichità diffusa, che fa capolino qua e là e così profondamente si intreccia con il quotidiano. Un’antichità non solo monumentale, ma soprattutto guizzante attraverso tradizioni, abitudini, particolari e parole. Un gomitolo di interpretazioni intrecciate, dove ciascuno trova un suo angolo di memoria.

Ne parlavo con Nizam pochi giorni fa: se non fosse per tutte le mancanze politiche, amministrative, gestionali, culturali in senso ampio, l’Italia spiccherebbe davvero da ogni punto di vista nel mondo. E Roma, in particolare. Che dolore vederla ferita e offesa da amministratori neanche lontanamente all’altezza.

Ma Roma è più di un comune da gestire, più della somma dei suoi servizi da far funzionare, più di un patrimonio incalcolabile da amministrare. Roma è persona e personaggio. Ha una sua personalità, una sua anima immensa e avvolgente, un modo tutto suo di abbracciarti e di ferirti. Roma è capolavoro in sé, palcoscenico e retroscena. Roma mi conosce e a Roma amo tornare. Roma è il mio luogo.

Ma ditemi: qualcuno di voi con l’età ha sviluppato un radicamento analogo? O lo avete sempre avuto? O magari proprio l’opposto? Ditemi, sono curiosa.

Tor Bella


“Rex è scappato”, recita un foglio affisso sulla vetrina di un negozio, con foto a colori di un cane lupo. “E come dargli torto?”, mi viene da pensare. Ma è già uno scherzo, perché dopo dieci minuti abbondanti di cammino ormai mi trovo in un posto molto diverso da quello in cui mi ha sbarcato la metro C. Uscita dalla fermata di Torre Gaia confesso di aver avuto un attimo di sgomento e persino la fugace tentazione di girare sui tacchi e prendere un treno in direzione Roma Centro. Lì la Casilina non è più quella di Centocelle e Torpignattara, fiancheggiata di negozietti e di persone: è quasi autostrada. La attraverso faticosamente per scoprire subito dopo che non avrei dovuto farlo. Riattraverso e salgo le scale di ferro per scavalcare lo scatolone di cemento della stazione e sbarcare in una manciata di casette e stradine. Cammino un po’ nella direzione giusta ed eccomi di nuovo a una sorta di svincolo autostradale: questa è via di Tor Bella Monaca e dunque almeno ho il conforto di sapere che l’area geografica è quella giusta. Dopo questo ulteriore avventuroso attraversamento, sono tornata in una comunità abitata: un forno con tanti tipo di pane, pizza e dolci e ragazze sorridenti al balcone, negozi, anziani e bambini per le strade, una scuola colorata con un grande giardino. E il cartello che segnala la fuga di Rex, promettendo una ricompensa a chi lo riporterà ai padroni.

Andare a Tor Bella Monaca con i mezzi in un tardo pomeriggio invernale richiede a una di Roma “centro”come me una certa motivazione. Tor Bella Monaca non è solo, innegabilmente, “lontano”. Ha anche una brutta fama, ai limiti dello stigma. “Non ce la avrei mai mandata da sola!”, confesserà più tardi un po’ imbarazzato il fidanzato palermitano di una delle partecipanti all’incontro a cui sto andando. Però quello che vedo arrivando non ha nulla di sgradevole o di minaccioso. Sono io che mi muovo come se pestassi uova, ma molti mi sorridono, qualcuno mi saluta. Alla fermata dell’autobus una signora africana con figli al seguito chiacchiera con naturalezza con due “indigene”. “Da non non c’è razzismo”, mi diranno poi. E in effetti parrebbe proprio così. Mica una cosa da poco, di questi tempi.

Arrivo alla sede dello SPI, il sindacato dei pensionati, un po’ in anticipo. Alla parete la prima cosa che noto è un poster di Berlinguer. Mi accolgono calorosamente, mi offrono un tè in un bicchiere di plastica che mi ricorda un po’ i tempi ruggenti del Centro Ararat. Mi chiedono di me, del mio lavoro. “Dove avete la sede, voi?”. Vicino piazza Venezia. “Ma più precisamente?”. Ho un’illuminazione. Via degli Astalli, traversa di via delle Botteghe Oscure. La signora si rattrista visibilmente. “Io non ce posso più passa’ lì… mi hanno detto che adesso al posto di Rinascita ce sta un supermercato. E’ vero?”. Confermo, ahimè. Per fortuna la conversazione si rianima subito, nonostante la mia gaffe. Seguono aneddoti, racconti di vita quotidiana. “I mariti certe volte sono proprio da butta’ de sotto dar balcone!” “Ma tu sei al primo piano, nun se fa gnente!” “Eh, di sinusite soffro anche io, ma pe’ forza… da regazzetto, quanto me piaceva andare in motorino, con la camicia che si gonfiava cor vento… ah, bei tempi!”.

Quando si arriva a parlare del quartiere, si fanno seri, quasi solenni. “E’ il più bel quartiere di Roma. La gentaccia ci sta da tutte le parti, pure a Parioli. Solo che qua è per fame che la gente fa certe cose, altrove non so. A me quando qualcuno ci guarda storto perché abitiamo qua mi ribolle il sangue. Le cose buone ci sono, e pure tante. Solo che, per colpa di qualcuno…”. Già. Mi agito sulla sedia, sentendomi un po’ in colpa per il pensiero sul cane lupo. Un vecchietto con i capelli candidi mi sorride e mi fa: “Ma lo sai a chi somiglia, ‘sta ragazza? Alla responsabile dell’ATER, quella che mi ha dato le chiavi della mia casa. Proprio uguale!”.

In questo insolito e sorprendente contesto, una mezz’ora dopo, ho partecipato a una formazione sulla tecnica dell’incontro relazionale, strumento principale del community organizing. Uno degli elementi dell’incontro relazionale è lo storytelling: perché un nome si dimentica, ma ascoltando una storia le cose si ricordano, diventano vive. Ho biecamente approfittato del momento della simulazione a coppie per farmi raccontare un po’ di storie da una signora dai capelli rossi fiammanti, di cui in effetti non sono sicura di ricordare il nome. Quei venti minuti di racconti valevano il viaggio a Tor Bella Monaca. Ma ve li racconto la prossima volta.

Al mio futuro sindaco


Caro futuro sindaco di Roma, ti scrivo deliberatamente oggi, senza avere ancora la certezza della tua identità (anche se è probabile che tu sia una donna), proprio per sottolineare che quello che vorrei dirti te lo direi a prescindere da chi sei. Ieri tornavo in taxi a casa con mia figlia Meryem, che tra qualche giorno compie 9 anni. Avevamo ancora gli occhi pieni dello splendore del mare del Cilento e il cuore traboccante della gioia del viaggio, che ci accomuna. Passavamo accanto a Teatro Marcello e mi sono sentita di dirle che siamo incredibilmente fortunate, che viviamo in una città straordinaria. Che nessun viaggio sarebbe tale se non avessimo un posto da chiamare casa e che per noi questo posto è una città che trabocca ricchezza, culture, incontri e meraviglie di ogni genere. Una città che con tutti i suoi limiti e le sue ferite accoglie da secoli moltitudini di persone, di storie, di dolori. Una città che merita tutto il nostro rispetto.

Per questo siamo passate al seggio, prima di rientrare a casa. Come ci ha detto il ragazzo della pizzeria al taglio, non ci dobbiamo permettere di disprezzare la possibilità di votare, per cui tanti hanno lottato e dato la vita. A Roma ogni angolo permette di fare memoria: la costituzione della Repubblica Romana sul Gianicolo, le pietre di inciampo davanti alle case dei nostri quartieri, Forte Bravetta. Si potrebbe continuare. Ma più delle pietre, contano le persone e quello che danno, ogni giorno.

Per questo, futuro sindaco, mi sento di raccomandare una sola cosa, dal mio modesto punto di vista: non essere arrogante. Cerca di sentire, al di là degli slogan e dei mugugni di chi sgomita per essere notato, la voce più sommessa dei tanti che ogni giorno fanno con coscienza e onestà il loro lavoro, ma non dimenticano mai di essere solidali con chi è in difficoltà. Ne ho incontrati tanti in questi anni: tassisti, autisti dell’autobus, insegnanti, infermieri, negozianti, pensionati.  Sono loro la vera risorsa di Roma, che la rendono ancora una città aperta e resistente. Una città che riesce ad essere plurale e che una soluzione finora l’ha sempre trovata, nonostante tutto. Sii generoso, sindaco. Ma soprattutto, sii modesto e serio, almeno quanto quelle persone.

SPQS-Sono Pazzi Questi Statunitensi


Li avevo incrociati talora sul lavoro (ricordate?), ma ultimamente i miei contatti con i cittadini degli States sono cominciati a diventare molto, molto più frequenti. Ne ho avuti 18 come alunni per un intero semestre (che come tutti i semestri accademici in realtà dura tre mesi). Devo rapportarmi dunque a loro anche in forma di datori di lavoro e colleghi. In qualche caso persino amici. Mai mi è apparso così palese: sono diversi. Culturalmente diversi. Io sembro strana a loro, loro sembrano strani a me. Certe volte il malinteso culturale è fastidioso, dannoso e finanche imbarazzante.

Cerco di ovviare tenendo a mente i punti più critici, che potrei riassumere in tre, principalmente.

  1. Il loro modo di celebrare e autocelebrarsi mi mette a disagio. Di più. Mi imbarazza a morte. Quando a una conferenza ti presentano snocciolando i tuoi titoli e riconoscimenti pubblici e sperticandosi in apprezzamenti su quanto sia “outstanding” la tua competenza, io comincio ad agitarmi sulla sedia. Se poi mi trovo a leggere le loro lettere di candidatura l’imbarazzo arriva alle stelle. Ci credono e lo dicono. Sono perfetti per qual ruolo. Sono persone meravigliose. Hanno delle competenze incredibili e tanti amici pronti a giurarlo. Se non te ne accorgi il fesso sei tu. Oddio, ma è proprio necessario? Non puoi lasciarmi giudicare dal CV?
  2. Forse connesso al punto 1, in parte. Esplicitano tutto. Ma proprio tutto. Sono i maghi delle istruzioni. Nel libretto della messa non ci mettono solo le letture: ti spiegano chi e quando può fare la comunione, qual è il gesto convenuto per segnalare che sei celiaco, in che direzione si avvierà la processione di uscita. Se ti spiegano come arrivare a casa loro, specificano ogni particolare, descrivendoti la successione di negozi che incontrerai sul tuo cammino fino al numero esatto dei gradini che separano il marciapiede dal loro portone. Non mi stupirei se iniziassero il messaggio suggerendoti di uscire di casa tua, per prima cosa. A me questo eccesso di dettagli crea confusione totale e una certa ansia. Loro in compenso, se provvisti solo delle indicazioni che io ritengo essenziali, si perdono.
  3. Hanno la pericolosa tendenza a intendere in senso strettamente letterale qualunque cosa io dica. E quando dico qualunque, intendo proprio qualunque.

Fuori lista, devo aggiungere un’ulteriore perplessità, valida in particolare per gli studenti: l’abbigliamento. Lungi da me assurgere ad arbiter elegantiarum. Non mi scandalizzerei di vedere a lezione studenti in tuta da ginnastica. In salopette. In bermuda. Ma perché sempre nudi, anche a dicembre? Shorts che sfidano simultaneamente il buon gusto e il buon senso. Minigonne delle dimensioni di microparei da spiaggia, del tutto sproporzionate rispetto alle circonferenze a stento contenute. Ma il pezzo forte sono le calzature: rigorosamente infradito, uomini e donne. Effetto campus, direte voi: il fatto che dormano e frequentino le lezioni nello stesso edificio li confonde. Macché. Anche quando si lanciano sui bus romani per raggiungere le sedi del loro service-learning non cambiano nulla del loro look. Ho dovuto specificare in apposita mail che vestirsi da spiaggia alla mensa del Centro Astalli non è opportuno per varie ragioni, a partire dalla banale considerazione che lavorare a piedi nudi in una cucina non è esattamente un’idea furba. Per non parlare del fatto che poi le stesse fanciulle sono sensibilissime al rischio di essere guardate con troppa insistenza da chicchessia (specie se straniero). Ora, chi mi conosce sa che non ritengo un abbigliamento provocante una scusa per ricevere attenzioni non richieste. Ma è pur vero che, a prescindere da ogni possibile rischio, un minimo di senso dell’opportunità non guasterebbe.

 

Roma non è per tutti


La settimana scorsa mi sono trovata su un taxi, attraverso la città infuocata dall’afa. Solitamente giro con i mezzi, ma ci sono delle zone della città che si fanno un punto d’onore del fatto di essere pressoché inarrivabili dal cittadino comune non dotato di macchina. Il principio del ponte levatoio, insomma. “Tre sono le zone dove non abiterei manco se mi regalassero la casa: Vigna Stelluti, Collina Fleming e Parioli”, sintetizza il tassista, evidentemente schierato con Roma Sud nell’eterno scontro geografico che permea la Capitale. “Ma piuttosto Tor Tre Teste!”, azzarda persino, imbaldanzito dalla mia approvazione.

Si parlava, durante la nostra trasferta lampo in Olanda e Germania, di qualità della vita. Beh, immagino che parlare di qualità della vita qui, secondo i parametri comunemente adottati, possa suonare come sparare sulla Croce Rossa. Ma che vi devo dire, a me Roma calza come un guanto (da un certo punto di vista). Smadonno, impreco, sbuffo. Ma poi le perdono tutto. Come quei parenti o amici che sono oggettivamente impossibili e insopportabili, che tu stesso non riesci razionalmente a giustificare perché ancora non li hai espulsi dalla tua vita, che ti fanno fare figure barbine con gli altri perché il loro comportamento è oggettivamente ingiustificabile. Ma poi non solo li giustifichi, in qualche modo, ma li ami pure.

Certo, con il tempo magari affini strategie più o meno ingegnose per arginarli, per parare i colpi, per prevenire le catastrofi più serie nel relazionarti con loro. Roma è esattamente così. Il visitatore esterno se lo mangia in un boccone. Può arrivare persino a privarlo di qualunque barlume di piacevolezza, per non dire di fascino. Per relazionarsi con Roma e uscirne vivi, bisogna essere innamorati. Non necessariamente romani, anzi. Ma innamorati sì.

Allora non mi chiedete di essere razionale quando parlo di questa città. Roma non si misura, non si valuta (anche se si potrebbe e si dovrebbe pure, ovviamente). Dentro Roma ci si tuffa ogni giorno. Nel suo naturale flusso di storytelling perpetuo. Nella sua inaspettata capacità di abbracciarti e di capirti (ammesso che, come è giusto tra amici, si lascino i giudizi fuori dalla porta).

Roma è una città europea? Non direi. Roma può essere solo, nel bene e nel male, patrimonio dell’umanità.

Buon compleanno, Roma


Domenica scorsa, per rifarci da qualche giorno di clausura a causa dell’influenza, io e Meryem siamo state a spasso per quasi tutto il giorno. Proprio alla mostra dei Numeri, insieme a varie cose interessanti, abbiamo avuto modo di riflettere sulla relatività dei calendari e su quanti modi possibili esistono per definire date (che per alcuni sono) storiche.

Eppure, in barba alla ragionevolezza storico-scientifica, oggi ho voglia di festeggiarlo, questo 2768° Natale di Roma. Mi piacerebbe partecipare alle iniziative proposte dal comune (visite guidate, ingresso gratuito nei musei, illuminazioni…): con tutte le difficoltà che ci sono e che non staremo qui oggi ad elencare, credo faccia un gran bene a noi romani ricordare che la nostra è una città speciale e meravigliosa.

Domenica, non del tutto studiatamente, uscite dalla mostra abbiamo reso omaggio alla Città Eterna e al suo talento più straordinario: riuscire a stupirci e a sorprenderci sempre con qualcosa di nuovo. Quest’anno al corteo storico classico lungo i Fori, a cui negli anni scorsi abbiamo partecipato, abbiamo preferito il Nagar Kitan della comunità sikh. Perciò abbiamo puntato con decisione verso Piazza Vittorio.

11117464_10152696586655047_1745750698_nMeryem là per là era convinta di essere l’unica di tutta la folla variopinta a parlare italiano. Non so se l’aver incontrato vari amici vistosamente italofoni incuriositi come me dalla festa l’abbia fatta ricredere. Una cosa è certa: è rimasta assolutamente rapita dal fascino delle esibizioni dei “pirati”, che saltavano roteando scimitarre, sbattendo bastoni e facendo roteare delle reti colorate con delle palline (che per l’entusiasmo di documentare io alla fine sono riuscita a prendermi in testa). E’ rimasta colpita anche dalla signora rom che, passando accanto alla processione, ha gridato con entusiasmo: “Buona festa!”.

Quella stessa mattina, mentre camminavamo verso l’Esquilino, siamo passate davanti alla chiesa ucraina, dove un nutrito gruppo di fedeli che seguiva la messa dalla piazza antistante (la chiesa è piccolissima) e abbiamo anche visto un ambulante musulmano che pregava sul marciapiede. Una piccola antologia della città multireligiosa che ho imparato a scoprire in questi anni e che mi piace far notare anche a Meryem.

Ieri poi ho completato la mia personale celebrazione del Natale di Roma con una visita alla Moschea di Monte Antenne, la più grande d’Europa. Un edificio imponente, in cui sampietrini e travertino convivono con le geometrie riprese dall’Andalusia spagnola e con le cupole che ammiccano a Istanbul, la Roma del Bosforo.  L’unica cosa che mi ha fatto un po’ tristezza è stato vedere che, dopo il richiamo della preghiera, la moschea restava occupata solo da noi visitatori. Il che, ovviamente, è normale, considerato il fatto che era un pomeriggio lavorativo e che la Moschea sorge alle pendici di Parioli, in un luogo sostanzialmente distante da negozi e abitazioni. “Se fossimo a Centocelle, a questo punto sarebbero già arrivate un centinaio di persone”, ha commentato uno dei musulmani presenti, aggiungendo anche: “Questo per questo luogo è un grande vantaggio, così resta bello e pulito”. Ora io non so se questa chiosa fosse dettata dal desiderio di non sfigurare o da una convinzione effettiva. Io, per conto mio, preferirei che questo spazio così bello e significativo non restasse la moschea delle grandi occasioni, ma potesse effettivamente servire a raccogliere la fede vissuta di tanti uomini e donne. Una fede che fa rumore, non è sempre esteticamente piacevole e magari, in effetti, sporca anche. Ma è la vera ricchezza che tutti noi abbiamo bisogno di scoprire.

Mi torna in mente un passo del discorso del Papa al Presidente Mattarella in visita al Vaticano: “Un sano pluralismo non si chiuderà allo specifico apporto offerto dalle varie componenti ideali e religiose che compongono la società, purché naturalmente esse accolgano i fondamentali principi che presiedono alla vita civile e non strumentalizzino o distorcano le loro credenze a fini di violenza e sopraffazione. In altre parole, lo sviluppo ordinato di una civile società pluralistica postula che non si pretenda di confinare l’autentico spirito religioso nella sola intimità della coscienza, ma che si riconosca anche il suo ruolo significativo nella costruzione della società, legittimando il valido apporto che esso può offrire”. Una convivialità della cittadinanza attiva, insomma, che faccia delle differenze un punto di forza per accogliere, sperimentare, immaginare.

Il mio augurio a Roma, oggi, è che non smetta di essere metropoli nello spirito. Per quanto limitata, provinciale e chiusa nei suoi confini possa essere l’Italia o l’Europa in questa stagione, Roma non smetterà mai di guardare al mondo. Di più. Dentro Roma, il mondo, ci sta comodamente tutto.

Due ville


Arriva la primavera. Roma fa l’occhiolino a locali e turisti e sfodera cieli azzurri e scintillii di sole malandrino. La voglia di passeggiare è ai massimi livelli. Amici, romani, concittadini: fatelo. Non lasciamo questo privilegio ai turisti.

Rapidamente, prima delle vacanze pasquali, ci tengo a lasciarvi due consigli spassionati per respirare a pieni polmoni la bellezza di Roma. Due posti dove fino a pochi mesi fa non ero mai stata. No, non vi stupite. Roma è piena di posti dove non sono ancora stata.

La prima meta che voglio consigliarvi è la Villa Farnesina a via della Lungara, a Trastevere. Nel sito trovate tutte le indicazioni di cui avete bisogno, ma se avete bambini con voi non perdetevi la visita guidata che organizza Alessandra Mezzasalma, comprensiva di caccia al tesoro con il naso all’insù alla scoperta dei segni zodiacali e racconto della favola di Amore e Psiche. Meryem ne è rimasta conquistata. Io sono rimasta colpita dai graffiti dei Lanzichenecchi sugli affreschi mozzafiato del primo piano: storia viva e pulsante, a portata di mano.
Volendo si può proseguire la passeggiata all’orto botanico, proprio a due passi.

La seconda meta che mi sento di raccomandarvi è Villa Medici. Io ero abituata a considerarla un po’ parte del panorama e non ricordo di aver notato quando ci ero andata, forse per una mostra moltissimi anni fa, quanto fosse splendido il giardino, la facciata, la terrazza e, in una parola, tutto quanto. Ci ho fatto un salto domenica 29 marzo, quando l’Accademia di Francia ha organizzao una giornata promozionale a ingresso gratuito in cui sono stati offerti dei rapidi assaggi delle ricche visite guidate in programma.  Sono fermamente intenzionata a raccogliere l’invito e a tornarci, magari con Meryem. Intanto sono grata per una mattinata meravigliosa, che ha dato ufficialmente inizio alla mia primavera 2015.

Glory days


A volte va così. Si fanno strategie di comunicazione e alla fine basta una circostanza favorevole per portare il progetto Incontri in prima pagina su La Repubblica. Circostanza favorevole e tanto lavoro ben fatto, ovviamente. Lavoro di squadra di tutto il Centro Astalli, non da ieri. Ma stasera mi concedo il lusso di qualche pensiero e ricordo, rispetto al percorso frastagliato che mi ha fatto dire con sicurezza, oggi, alla giornalista che mi intervistava che sono “responsabile per il dialogo Interreligioso del Centro Astalli”. Per una volta ho una qualifica pertinente.

Non ho inventato io il progetto Incontri, ma l’ho visto nascere e camminare, talora faticosamente. Negli anni però mi è stato sempre più chiaro che quel tentativo artigianale di dialogo dal basso era importante, molto importante. Che aveva attinenza con la missione del JRS, che non era un lusso, un divertimento intellettuale, ma una modalità, uno stile, una pratica da coltivare con pazienza. Dal basso.

La religioni negli ambienti accademici le ho frequentate e non riuscivo a trovarci quello che invece ho adesso: la vita, la quotidianità, le relazioni. Ricordo sempre il mio primo sabato in compagnia di ebrei a Gerusalemme: anni di studio dell’ebraico e tanto dotto studio etimologico mi avevano lasciato analfabeta rispetto a cosa dovevo aspettarmi. Fissavo il sale, il vino e mi chiedevo chi me l’avesse fatto fare. Ero persa. Tanto ebraico, nemmeno un amico ebreo. Il seder di Pesah l’avrei gustato solo molti anni dopo. E ancora quella sensazione prepotente di non aver mai colto l’essenziale.

Una volta ho sentito un professore ordinario di lingua e letteratura ebraica dire: “Non si può ragionare con gli arabi. Sono un popolo rozzo”. Era una battuta in corridoio, non un articolo scientifico. Ma mi sono chiesta cosa potesse cogliere, quel professore, di quell’ antigiudaismo medievale di cui lo si ritiene esperto. Discriminazione, pregiudizio, razzismo, stigmatizzazione: ne disquisiva, ma allo stesso tempo continuava a praticare tutto, senza averne la minima consapevolezza. Studiare non serve? Serve, certo. Ma non è sufficiente. Se scienza e vita percorrono strade parallele, tutto resta teorico. Si pensa, si scrive, si parla, si argomenta e non si vede niente al di fuori delle proprie costruzioni.

Molti anni dopo, sono entrata in un tempio induista a Bangkok. Un’esperienza intensa, anche emotivamente, una tappa di un percorso solitario di osservazione di un popolo in preghiera, di forme di relazione con il divino che parlano ai sensi in modo più complesso e articolato di quelle che conoscevo io. E un pensiero, strambo e allo stesso tempo familiare: un santuario fenicio certo somigliava di più a quel tempio che ai disegnini freddi ricavati diligentemente dalle piantine da archeologi scientificamente solidi. Offerte di cibo,  profumi, colori, simbologie intrecciate, musica. Vita. Per associazione di idee, penso a quello che mi è stato spiegato una volta sulla medicina occidentale: nasce dall’anatomia, dallo studio del corpo morto. Precisa, accurata molto più di altre per la chirurgia. Ma l’energia? Il magnetismo? Tutte le altre componenti che concorrono alla vita non meno del funzionamento meccanico degli organi? Ecco, le religioni che ho studiato all’università mi hanno dato un’infarinata di conoscenza anatomica. Il resto ho iniziato a viverlo con il canto dei muezzin di Istanbul e poi, esponenzialmente, al Centro Astalli.

Il dialogo è possibile? Oggi Papa Francesco ha detto che nessun dialogo autentico è possibile senza conversione. Io forse direi che questa esperienza comporta la disponibilità a rivoluzionare almeno un po’ i propri schemi mentali. A essere pronti ad accogliere logiche diverse. A praticare il pensiero laterale. In altre parole: a sforzarsi di accettare i propri limiti e di andare anche oltre, come si riesce, senza paura. Fidandosi.