(Cambiamo) l’ordine delle cose


Ho visto ieri in anteprima al Senato “L’ordine delle cose” di Andrea Segre. Stamattina, attenendomi alle istruzioni del regista, ho letto il pamphlet scaricabile dal sito del film. La prima cosa che voglio dirvi è che questo non è solo un film, è un invito, anche piuttosto impegnativo. Però la prima cosa da fare, senza dubbio, è vedere il film. Qui trovate il calendario delle uscite.

Lo so, anche il primo passo è impegnativo. Il tempo è poco, quando vado al cinema (sempre più raramente) cerco l’evasione, perché amareggiarmi con questi temi anche i momenti di relax, l’amica con cui esco non è interessata…. Le so tutte, queste scuse. Le uso tutte. Però stavolta non usatele. Specialmente se siete tra quelli che in questi mesi, in questi anni, osservano costernati e increduli quello che accade e vorrebbero credere che un’alternativa c’è, andate al cinema. Se nella vostra città non proiettano il film, chiedete che lo facciano. Peraltro è un film bellissimo, ben girato, ben recitato. Ma davvero, non è questo di cui voglio parlarvi, mica sono un critico cinematografico.

Questo film se fosse ambientato negli anni nel nazismo sarebbe solo commovente. Diremmo che ha saputo cogliere con poesia e intelligenza la banalità del male. Però questo film non è ambientato negli anni del nazismo. Purtroppo non è ambientato neanche nel futuro prossimo, come probabilmente era nelle intenzioni di chi l’ha pensato. E’ ambientato nel presente, nel quotidiano di tutti noi.

Non voglio dirvi altro di questo film, a parte un’ultima precisazione. Nonostante le apparenze, non parla di migranti. Parla di noi. Quando dico noi intendo davvero noi tutti, non solo “i politici cattivi”. Noi che cresciamo i nostri figli, noi che andiamo al lavoro tutte le mattine, noi che ci concediamo un weekend romantico e sorridiamo davanti a un regalo inaspettato. Per questo, se ci lasciasse così, nel buio di una sala a leggere i titoli di coda, sarebbe un film davvero crudele.

Invece no, al film segue una proposta. Se l’emergenza è culturale, non bastano i gesti simbolici, non bastano i proclami, né le manifestazioni. Prima bisogna pensare, molto. Mettere insieme la potenza del pensiero di tutti per cercare una prospettiva veramente nuova. Per questo, una volta visto il film (non barate, non sareste davvero utili alla causa), leggete il pamphlet (io ho apprezzato particolarmente l’introduzione di Andrea Segre e il contributo di Igiaba Scego). Poi pensate e contribuite alla riflessione comune inviando un commento sul sito. E vediamo dove questo ci porta. Io ho bisogno di credere che ci porti lontano. O almeno un passo più in là.

Letture difficili


Approfittando di una trasferta, sono riuscita a fare tre letture, in qualche modo collegate una con l’altra. A dispetto del titolo di questo post, nessuna era pesante nel senso proprio del termine: tutti e tre i volumi, ciascuno a suo modo, avevano il taglio del reportage giornalistico e dunque uno stile scorrevole e agile. La difficoltà stava piuttosto nell’argomento: islam, fondamentalismo e radicalismo, Isis/Daesh. Ma andiamo in ordine di lettura.

  1. Napolislam, di Ernesto Pagano. Premesso che non ho visto il film/documentario, ho trovato la lettura interessante, anche se in qualche modo apre diverse domande e questioni. Si racconta la storia di alcuni  convertiti all’Islam e si offrono spunti incoraggianti rispetto alla capacità di un’esperienza religiosa calata nella quotidianità di integrarsi e trovare vie di comunicazione, facilitata da un tessuto sociale complesso ma comunque pieno di relazioni interpersonali come la città di Napoli. Ho apprezzato lo sforzo di andare oltre lo stereotipo, ma in qualche modo alla fine del libro si resta con l’idea di aver solo cominciato a seguire alcuni fili, che in fondo hanno a che fare con la religione fino a un certo punto. Insomma, interessante ma non completamente appagante.
  2. Il combattente, di Karim Franceschi. Qui mi impongo di restare nel format del post e di limitarmi a una scheda breve, ma vi anticipo che questa lettura mi ha messo in seria difficoltà. La storia è stata raccontata anche dai media: Karim, unico italiano a partire per il fronte di Kobane per combattere l’Isis, figlio di partigiano e attivista lui stesso, dopo una missione umanitaria in Kurdistan si rende conto che aiutare non basta, bisogna contribuire alla lotta più direttamente, sia pur per pochi mesi (3, la durata del visto turistico). La perplessità mi era sorta già con Kobane calling di Zerocalcare: pur avendo sinceramente apprezzato l’autore, il suo modo di porsi rispetto al tema, lo stile rispettoso e in qualche misura critico (il format della graphic novel piena di ironia aiutava), già allora mi ero fatta delle domande sull’operazione in sé e sul messaggio o sui messaggi connessi ad essa. Il racconto di Franceschi più che lasciarmi perplessa mi ha fatto a tratti davvero arrabbiare. Soprassiedo su alcuni sfumature che potremmo definire “culturali” e che, raccontate sinteticamente, potrebbero distogliere dal punto principale della mia critica. Il mio problema, credo, sta tutto nella descrizione – o piuttosto nella non-descrizione – dei “nemici barbuti”, i combattenti dell’ISIS. Non fraintendetemi: non starò qui a fare l’apologia di chi perpetra azioni feroci e disumane e si preoccupa anche di farne intensa pubblicità. Ma il nemico di Franceschi è solidamente anonimo, cattivo e uniforme: lo si uccide singolarmente, con colpi di fucile di precisione, ma non ha caratteristiche individuali. Forse più che ucciderlo lo si elimina, come in un videogame. Un colpo e basta. Mi si obietterà che per fare la guerra questo serve. E tanto più quando si tratta di una guerra proprio sporca, dove da un lato e dall’altro del fronte sono coinvolti anche minorenni, quasi ragazzini. I dubbi magari non ce li si può permettere quando si difende la propria terra dall’invasore. Non pretendo di mettermi dal punto di vista di una guerrigliera curda, ci mancherebbe: troppo diversa è la mia vita, la mia forma mentis, il mio punto di osservazione. Ma non posso fare a meno di gridare nel profondo di me stessa che non ce la faccio, in nome di nessuna emergenza, a rinunciare al mio senso critico. E allora io continuo a pensare che la guerra non può essere la soluzione, ma anzi alimenta altre guerre. Che le armi così ben descritte da Franceschi forse più che strumenti di liberazione sono parte del problema. E che un nemico solo brutto e cattivo, ontologicamente diverso da noi che abbiamo ragione, non esiste. Può essere una utile astrazione ideologica e intellettuale, ma non esiste. E da questo consegue che non ce la faccio a pensare davvero che questo sia il contributo che noi siamo chiamati a dare in questa situazione e non solo perché non tutti abbiamo il fisico e l’attitudine del guerrigliero (o del foreign fighter, che poi non è così diverso, almeno da questo punto di vista). Ma mentre scrivo mi rendo conto che la questione non è esaurita, neppure per me.
  3.  Au coeur de Daesh avec mon fils, di Laura Passoni. Comprato per pura reazione e con un certo timore, questa testimonianza mi ha invece sorpreso positivamente. Qui ho ritrovato una lettura più autentica della complessità della questione e, in qualche modo, delle indicazioni più concrete su cosa davvero sarebbe d’aiuto per contribuire a una soluzione. Perché la radicalizzazione dei “combattenti” avviene anche – e in larga misura – in Europa. Perché alcuni di loro, prima di essere anonimi nemici barbuti, erano ragazzi come Laura e come suo marito: con fragilità più o meno marcate, arrabbiati, pieni di rancore, alla ricerca di soluzioni concrete e tangibili, ora, subito. Non tanto diversi da alcuni degli intervistati di Napolislam, se vogliamo. E questo Islam senza comunità e senza moschee è il terreno più fertile per l’indottrinamento online. L’esperienza di Laura e di suo marito fa capire che il rapporto tra il Medio Oriente e le nostre periferie, geografiche e esistenziali, è più diretto di quanto possiamo pensare. Ma anche che le persone coinvolte non sono marziani, non sono strane creature sanguinarie che nulla hanno a che fare con noi. A volte hanno alle spalle famiglie come le nostre, magari sopraffatte dalle difficoltà, ma presenti e a volte disperate delle proprie insufficienze e incapacità. A volte sono loro stesse genitori e ritrovano, come in questo caso, il filo d’Arianna per uscire dal labirinto del fanatismo proprio grazie all’amore per i propri figli (o per quelli della propria compagna). Questo da un lato fa paura, ma dall’altro chiama alla speranza. E alla responsabilità di tutti: genitori, insegnanti, vicini di casa, educatori di ogni genere, amici, conoscenti. La guerra da vincere non è una sequenza di sparatorie, ma la ricostruzione di comunità in cui nessuno viene lasciato indietro. Non è sufficiente, certo. Ma aiuta moltissimo, anche a ragionare insieme su cosa davvero è importante cambiare, anche a livelli politici che sembrano ormai indiscutibili e irraggiungibili.

Avvicinarsi a Pasolini


Nel lungo elenco di cose che per qualche motivo non ho finora conosciuto c’è la figura di Pasolini. Non ho letto i suoi romanzi, non ho visto i suoi film. Non ne ho mai saputo granché. Lo so che detto così suona eccessivo e che c’è un sottofondo di informazioni che una persona della mia età e vissuta negli ambienti che ho frequentato si ritrova comunque da qualche parte nella testa. Però in sostanza è così: a Pasolini non avevo mai pensato.

Sono andata allo spettacolo Sono Pasolini di Giovanna Marini soprattutto perché ci cantava mio cognato. E’ stata l’occasione per cominciare a capire qualcosa di più. Gli spettacoli di Giovanna Marini sono abbastanza didascalici e questo non faceva eccezione. Il pregio principale forse è stato di cominciare a raccontarmi Pasolini a partire dal Friuli, terra di mio padre e ciò nonostante a me ignota come e quanto l’artista in questione. Eppure alla fine i frammenti noti di due cose ignote hanno in qualche misura iniziato a combaciare, a suggerirmi pensieri, associazioni.

E poi la lettura di questo testo terribile, che inframezza i quadri dello spettacolo. Una lettura che suscita in me allo stesso tempo fascino intellettuale e consapevolezza che no, non è così, non è vero. Cioè, è un testo profondamente giusto e acuto politicamente e allo stesso tempo profondamente stonato dal punto di vista della relazione. Forse la cosa si spiega, tra l’altro, con il fatto che l’autore non è mai stato padre. Sarà una banalità e non mi riferisco meramente a una condizione biologica e/o anagrafica. Ma certo essere padre nello spirito non è esattamente la stessa cosa di essere genitore nella carne e nella quotidianità. Essere “padre quotidiano”, quotidiano come il pane per cui gli uomini pregano, con quella stessa spietatezza del “per sempre” di uno dei più bei versi di De André (“femmina un giorno e poi madre per sempre”) è diverso – non per forza di più o di meno, ma certo molto diverso – da essere educatore, ispiratore, mentore.

Eppure quella condanna della civiltà dei consumi, di quella “accettazione — tanto più colpevole quanto più inconsapevole — della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo”, mi colpisce in tutta la sua acutezza e fondatezza, ogni giorno di più. Oggi, in un’intervista, monsignor Tomasi parla di “soggettivismo esasperato” di cui l’Europa sta dando prova. Una cosa è sicura: questo tipo di connivente complicità e promozione di stragi oggi è di dimensioni sbalorditive soprattutto in quei Paesi in cui la qualità della vita è più alta.

Ieri sera, celebrando inconsapevolmente la vigilia dell’anniversario della morte, mi sono guardata su Netflix Pasolini, un delitto italiano. E ora comincio ad essere pronta ad avvicinarmi un po’ più direttamente alla sua opera.

P.S. Intanto mi sono letta anche questo.

Io sono con te


“Che cos’è la verità?”. Fin da piccola, alle celebrazioni del giovedì santo, questa domanda di Ponzio Pilato mi è rimasta impressa. Un personaggio che esce di scena con una domanda non passa inosservato. E che domanda. Trovare citato questo episodio evangelico nell’introduzione del primo (e probabilmente unico!) romanzo in cui sono citata per nome mi è parso un curioso segno del destino.

Facciamo un passo indietro. Melania Mazzucco è certamente una delle mie scrittrici preferite. Mi incanta il fatto che ogni suo libro che ho letto era profondamente diverso dall’altro. Ne ho menzionati due su questo blog, qui e qui. Il fatto che si sia lasciata coinvolgere nelle attività del Centro Astalli è stata una grande emozione, già alcuni anni fa. da allora ci si vedeva almeno due volte l’anno, alla riunione della giuria del concorso La scrittura non va in esilio e poi, un mesetto più tardi, alla cerimonia di premiazione. Per niente star, attenta e pienamente partecipe, in sala riunioni ci dimenticavamo tutti del fatto che fosse una scrittrice di fama internazionale. Era Melania.

“Che cos’è la verità?”. Ero tentata di usare questa citazione anche all’inizio del mio ultimo post sui rifugiati.  Davanti a tante bugie la verità va cercata e raccontata: Melania ha accettato di farlo e ci ha chiesto di incontrare una persona. Io sono con te è la storia di Brigitte. Non è solo una storia vera. E’ una storia di verità.

La verità dolorosa di una donna ferita innumerevoli volte, in un Congo brulicante di lutti e di violenza, ma anche qui in Europa. La verità della difficoltà e della fatica di accompagnare il suo percorso, che non ha nulla a che fare con il passo trionfante di un operatore umanitario che sorride a favore di telecamera in uno spot di raccolta fondi. Si inciampa eccome, quando le persone le si accompagna davvero. Si inciampa con loro, si inciampa contro di loro, si inciampa dietro di loro o addirittura sopra di loro, travolgendole con le nostre limitatezze. La verità più importante di tutte: ogni storia è preziosa, ogni generalizzazione o etichetta è una sopraffazione che si aggiunge a tante altre. Non si può provare empatia con una folla di persone. Ma questo non è una scusa per non guardarne negli occhi nemmeno una.

La storia in questo romanzo è anche la mia storia, anche se la “Chiara” nominata qua e là è una comparsa irrilevante, che scrive un articolo e smista ospiti sui taxi dopo un evento. E’ come una fotografia scattata in quel luogo immaginario, composto da tanti luoghi, azioni, persone e sentimenti, che sono gli ultimi sedici anni della mia vita. C’è la Termini in cui anche io vagavo, mi fermavo, mi sedevo ai tavolini a bere cappuccini e soprattutto tè, da sola o in compagnia (e dove ho imparato ad arrotolare la bustina sul cucchiaino). Ci sono i brividi di febbre, qualche volta mia e molto più spesso di altri, che abbiamo portato in giro per autobus e metropolitane; i vestiti bagnati, la fame, l’imbarazzo. C’è l’inspiegabile accadere di eventi inattesi che tante volte hanno raddrizzato ciò che pareva perso per sempre (“sulla Provvidenza possiamo sempre contare”, mi diceva serio e addirittura pragmatico il mio primo capo gesuita).

Ci sono soprattutto i miei colleghi, a cui troppo spesso non sono capace di dire quanto li apprezzi e quanto li ammiri. Sono grata a loro perché compongono quel Centro Astalli che è, ad oggi, prima di un lavoro, il mio rapporto affettivo più duraturo. Sono grata a Melania Mazzucco perché li ha osservati, li ha ascoltati e di ciascuno ha colto qualcosa di unico.

E con questo vi invito a leggere questo romanzo e poi, se vi va, a scrivermi cosa ve ne è parso.

A suo tempo


Mi capita, qualche volta, di incrociare di nuovo persone perse di vista da tempo. Mi è successo ieri, per lavoro. Una telefonata formale, ma un nome che abbinavo a un volto preciso. Non un mio amico direttamente, ma un amico del mio fidanzato dell’epoca. Una persona che mi aveva colpito. Rivisto quindi ieri, in una sala riunioni con affaccio sul Cupolone. Diverso il contesto, diversi i nostri rispettivi ruoli. Diversissime, evidentemente, le scelte che abbiamo fatto in questi anni, anche se per qualche tempo il percorso, almeno di studi, un po’ si somigliava.

La sua capa a un certo punto ha fatto un riferimento al mio curriculum. La cosa mi ha un po’ spiazzato. Forse voleva solo farmi vedere che prima della riunione lei o uno dei suoi collaboratori si era preso il disturbo di guardare chi fossi. Magari neanche l’aveva fatto davvero, chissà. Ma in un discorso in cui i collaboratori suddetti erano stati presentati sulla base della loro capacità di “attirare fatturato” il riferimento mi ha fatto impressione. “Un curriculum che parla da solo”, ha detto più o meno quella donna elegante. “Eppure…”, non sono riuscita a trattenermi dal rispondere io con un sorriso. Chissà se ha capito cosa intendevo. Chissà se io ho realizzato davvero pienamente cosa intendevo con quella risposta. Certo l’ho realizzato mezz’ora dopo, uscendo da quella sala riunioni. Non era rimpianto il mio, sebbene per forza me lo sia dovuta chiedere. Tante cose certamente avrei potuto scegliere meglio, nella mia vita lavorativa. Ma in tutta onestà, qualunque svolta io avessi potuto prendere nella mia vita precedente, sono abbastanza certa che in nessun caso, alla fine, mi sarei trovata a sedere dall’altra parte del tavolo, in quella sala riunioni.

Più tardi sono andata alla presentazione di un libro, questo. Come ho già scritto su Facebook, è un libretto illuminante e necessario, una boccata di pensiero onesto e pulito. Una lettura che consiglio caldamente a tutti, ma in particolare a: noi che nel tema siamo impelagati fino al collo e oltre, politici, aspiranti cittadini pensanti, persone che vorrebbero tanto dirsi di sinistra ma non sanno più bene che significa, professori (specialmente di scuole superiori), giovani votanti e non votanti, persone convinte che dell’immigrazione si debbano occupare solo gli addetti ai lavori e i leghisti. Al di là di questa recensione per inciso, ieri sera partecipando a questo rito ormai desueto della presentazione di un libro da Feltrinelli mi tornava in mente la mattinata trascorsa. E mi rafforzavo nel pensiero che a un certo punto, in effetti solitamente abbastanza presto, si finisce per scegliere da che parte stare, magari non del tutto consapevolmente. Mi ha colpito leggere che per Filippo Miraglia questo momento sia legato al fastidio nel vedere il diverso trattamento che in famiglia aveva sua sorella che, in quanto femmina, “aveva tutti gli occhi addosso”. E per me, mi sono chiesta in autobus tornando, quando è stato questo momento? Non saprei dirlo. Certo incontrare i rifugiati mi ha cambiato molto, ma certamente qualche fondamento precedente c’era.

Uno dei relatori di ieri, Oliviero Forti di Caritas Italiana, scherzando ha detto che un altro libro si potrebbe scrivere sul motivo per cui i principali oppositori i Papa Francesco sono assolutamente convinti di essere pienamente cristiani e cattolici, magari più dello stesso Bergoglio. Questo mi ha fatto pensare al fatto che i miei genitori, abbastanza impliciti nella trasmissione di valori, una cosa mi hanno sempre passato come assolutamente fondante e imprescindibile nelle loro scelte: il Concilio Vaticano II. Alla fine forse questa è la corrente che più mi ha trascinato, in questi anni, a prescindere dalle formali appartenenze. Alcuni dei temi fondanti di quel Concilio li ho ritrovati, a suo tempo, nell’apostolato sociale dei gesuiti. Quei concetti formano il patrimonio intellettuale che più sento mio e più mi rappresenta.

Come andrò avanti? Sempre più spesso me lo chiedo. Però certamente ieri mi è stato chiaro che fino ad ora una direzione c’è stata, anche se non sempre mi è parso di sceglierla del tutto. Dove andrò da adesso in poi lo scoprirò a suo tempo.

Orizzonti e cultura


Ho finito stamattina sull’autobus un libro che ci stava proprio bene con i miei pensieri degli ultimi giorni, questo. Una roba astrusa e inintelligibile, direte voi. Per nulla, vi rispondo io. Questo libro per me non è solo una cara memoria della passata passione accademica (l’autore, che me lo ha addirittura regalato – lasciate che me ne vanti – “con ammirazione e amicizia”, è praticamente l’incarnazione dello studioso che avrei voluto essere, se avessi avuto il talento e l’opportunità), ma è soprattutto una chiave di lettura per l’attualità. Cerco di spiegarvi perché.

Questa raccolta di studi non parla di oggetti, di lettere, di grammatiche, di fiumi o di montagne (come pure potrebbe parere a prima vista): parla di persone o, più precisamente, di persone che si incontrano, si parlano, si raccontano, spiegano e insegnano cose da decine e decine di secoli. Una parte di quelle persone, quelle che vivono ai nostri giorni, sono citate dall’autore, spesso in nota: “La Sig.ra Semra Karabulut, di Torino, mi ha gentilmente comunicato che un buon keşkül ha come ingredienti….”, “Ringrazio Rainer Voigt, di Berlino, per avermi suggerito questa seconda ipotesi”; “Sono grato al giornalista moscovita Jurij Vjaceslavovic Klicenko (Klitsenko) per avermi segnalato la figura e l’opera di M.B. Satilov”; “Apprendo dal mio informante Ayad Al ‘Abbar che beygan è anche un vocabolo dialettale iracheno…”. Ma ovviamente la maggior parte degli incontri che il libro comunica sono avvenuti nel corso di un tempo lungo, attraverso crocevia di ogni sorta: città, biblioteche, strade di montagna, porti, locande, monasteri, università, piazze di villaggi.

Azerbagiàn persiano, Antiochia, Rodi, Malta, Gibilterra: “è questo l’asse della strada maestra su cui da sempre, almeno dall’inizio del neolitico, si sono rincorse da est a ovest e a ritroso, per poi diffondersi a nord e a sud, tutte le nuove acquisizioni dell’ingegno umano, dalla tecniche per assicurarsi la sopravvivenza, alle idee e ai modelli per garantire una convivenza più civile e socialmente allargata”. Accostate queste parole a quelle dell’Amaca di Michele Serra di ieri: ” Noi che siamo, ci piaccia o no, la modernità, abbiamo l’urgenza di far sapere agli imam, anche a quelli amichevoli e civili, che non è sulla base del timor di Dio, ma su quella del rispetto degli uomini che non uccidiamo”. Non entro nel merito della tesi di Serra, ma una cosa è certa: lui quando guarda fuori dall’Europa non vede le stesse cose che vede Pennacchietti. Ma non solo perché con ogni probabilità conosce meno di lui la prospettiva storica antica. Non solo perché quasi certamente parla e legge meno lingue di lui. Ma soprattutto perché in fondo è convinto, secondo me, che fuori dalla “nostra” cultura (nostra di chi, esattamente? europea? occidentale, qualunque cosa ciò voglia dire? laica, qualunque cosa ciò voglia dire?) non ci sia nulla che valga davvero la pena di conoscere, nulla di più di qualche curioso esotismo. Nulla che costituisca davvero un tassello di cultura, nulla che possa contribuire a definire un modello di convivenza civile.

Se ci si pensa bene, questo punto di vista è il primo presupposto per sostenere che il nostro continente o la nostra nazione bastano a se stesse, almeno dal punto di vista ideale/intellettuale. La migrazione si tollera (quando si tollera) per ragioni demografiche, economiche, per carità cristiana o per principio ideale. Ma in fondo l’assunto è che chi arriva nulla ci possa insegnare, nulla aggiunga alla “nostra modernità”. Che venendo qui sia lui (o lei) ad avere tutto da guadagnare, almeno da quel punto di vista. Ecco, io penso che il cuore della nostra povertà culturale consista precisamente in questo. Chiamiamolo colonialismo, chiamiamolo provincialismo. Chiamiamola, semplicemente, ignoranza collettiva. Una cosa è certa: chi non ne è colpito, riesce a stringere relazioni umane più significative. E di solito non si sente superiore per principio, per nascita, per lingua, per religione, per colore di pelle o per qualunque altra caratteristica rispetto a un altro essere umano, specialmente se non gli ha mai rivolto la parola.

Concedersi un cinema


Inaspettatamente, nel giro di una settimana sono andata al cinema ben tre (3) volte. Mi ricordo che quando Meryem era piccola ero convinta che dopo una serie di giornate negative, di malattie e tensioni, a un certo punto il verso cambiava e si cominciava a infilare una serie positiva di eventi che quasi mi spiazzava. Parliamo, evidentemente, di piccole cose (sia nel male che nel bene). Questo periodo è un po’ così. Arrivata all’apice della tensione, si sono spalancate delle piccole vie di fuga. Quel che serviva per riprendere la salita – ché di salita si tratta, comunque.

Per la prima scappatella cinematografica devo un ringraziamento a Chiara. Offriva alle sue lettrici una ghiotta anteprima di Room in orario incastrabile tra l’ufficio e l’orario di tolleranza della tata. Detto fatto. Non sapevo neanche che film fosse. Sarei andata a vedere pure il remake di Uccelli di Rovo, francamente. E invece era un film bellissimo e potentissimo, che ancora oggi mi lascia sensazioni tangibili. Andate a vederlo, in lingua originale, un giorno che vi sentite solidi e poco claustrofobici. O, al contrario, un giorno in cui volete piangervi tutte le vostre lacrime e uscire dal cinema un po’ più ricchi. Insomma, andateci e basta. Farà male, ma ne vale assolutamente la pena.

Il giorno dopo (!!!), grazie a un provvidenziale invito di Meryem a dormire da un’amichetta, ho accolto il consiglio di un intenditore e sono andata all’Apollo 11 a vedere Amore, furti e altri guai. Un giusto compromesso tra il cinema impegnato e la commediola. Adattissimo alla compagnia con cui l’ho visto, ancor più adatto alla sala in cui si proiettava. Insomma, abbiamo sghignazzato, ma possiamo dire di aver visto un film palestinese in bianco e nero. Vedetelo quando vi va di sentirvi intellettuali senza prendervi troppo sul serio. Meglio se, come abbiamo fatto noi, dopo una buona e economicissima cena indiana, a due passi dai portici di Piazza Vittorio: perché per ogni cosa serve il giusto contesto.

Oggi infine il senso di colpa mi ha indotto a portare anche Meryem al cinema. Le ultime esperienze con lei francamente mi avevano lasciato freddina e quindi mi sono adagiata sulle larghe poltrone dell’UCi Cinema con l’atteggiamento della vittima che va al patibolo (e prevede di farsi pure una pennica, al limite). E invece Zootropolis è un gran bel film. Messaggi positivi e non banali, idee davvero divertenti. Io e l’altra mamma ci siamo sbellicate dall’inizio alla fine, lo confesso. Le facce dei clienti della motorizzazione valevano da sole la visione… no, non vi dico di più. Andateci. Al limite fatevi prestare un bambino compiacente. La vostra stupidera troverà il giusto sfogo. E Shakira in versione gazzella non è affatto male.

 

Il Piccolo Principe


Ci siamo andate anche noi a vedere il Piccolo Principe al cinema, convinte dalle molte recensioni entusiastiche dei miei amici sui social. “Non vorrai essere una fondamentalista saintexuperiana anche tu”, mi sono detta. Restava una perplessità di fondo: io mica c’ero riuscita ad appassionare Meryem al libretto che ho stretto al cuore in almeno quattro lingue diverse (incluso ebraico e turco) e che ha fatto da contrappunto più alla mia adolescenza e giovinezza che alla mia infanzia. E in effetti, a pensarci bene, mi ero pure già data una spiegazione: i miei sospiri sull’addomesticamento della volpe, sulle separazioni, sul tempo speso per la tua rosa che ha reso la tua rosa così importante sono stati per me legati a sospiri di amori possibili e soprattutto impossibili, a una malinconia consapevole che in una parabola così lieve trovava una forma poetica e le opportune tinte pastello acquerellate che la rendevano meno lagnosa. Nulla di strano dunque che non riuscissi a comunicare questo al solido orizzonte di concretezza di una bambina di 6-7 anni. All’epoca, dunque, desistetti.

Ieri dunque siamo andati al cinema e ho scoperto un’altra interpretazione, tra le mille possibili, del libro. Il Piccolo Principe come ode all’infanzia perduta, schiacciata dalla programmazione compulsiva e dalla vita eccessivamente frenetica dei genitori di oggi (redimibili, almeno in parte, sul finale). Peccato che per rimpolpare la narrazione, un po’ troppo evanescente e allusiva per i ritmi cinematografici odierni, sia stata aggiunta tutta un’altra vicenda, che sottraeva del tutto il bambino diafano e biondo all’atmosfera sognante e rarefatta del libro per farlo protagonista di un’avventura come un’altra, con i dovuti colpi di scena e lo scioglimento finale.

La cosa mi ha lasciato interdetta. Non scandalizzata, ci mancherebbe. Ma interdetta sì. Il risultato finale non ha impressionato molto Meryem (però magari è stata condizionata dalla reazione tiepida mia e di suo padre) e tutto sommato mi ha lasciato un’idea di compromesso mal riuscito.

Peccato, perché la grafica delle parti evocative delle illustrazioni del libro era effettivamente stupenda e a suo modo poetica di per sé. Però non ci ho ritrovato nulla del libro che ho amato, se non discretissimi accenni qua e là (e anch’essi a tratti appesantiti di interpretazioni). Forse era l’unico modo per realizzare un lungometraggio da una parabola tutto sommato assai breve, senza trasformarla in una specie di odissea intergalattica (come fa invece il cartone animato, che pure non ho amato affatto). Ma tutto sommato forse l’avrei lasciata lì, la piccola parabola. A parlare con il suo linguaggio, con i suoi tempi e i suoi ritmi, senza popcorn e senza merchandising.

Tre cose che ci sono piaciute del Museo Egizio di Torino


Domenica scorsa abbiamo visitato il Museo Egizio di Torino. Eravamo un gruppo di 25 persone, di cui 11 bambini (alcuni davvero piccolini: giusto 3 o 4 avevano già studiato gli egiziani a scuola, per intenderci). La guida che ci è stata assegnata, Eleonora, è stata molto brava a coinvolgerli. Gli auricolari (group tour), previsti per tutti, una mano santa. Il costo del biglietto è onestissimo (13 euro gli adulti, 1 i bambini tra 6 e 14 anni, gratuito sotto i 5).

Ovviamente di domenica, in pieno ponte e per giunta in concomitanza con l’ostensione della Sindone, il museo era affollatissimo. Se potete scegliere, vi consiglio un giorno feriale, che vi consentirà di apprezzare pienamente l’atmosfera. Il percorso espositivo, peraltro, è davvero notevole. Quando visitavo il museo ai tempi dell’università (il giorno di chiusura, il mio professore di egittologia era il direttore) i reperti erano sempre notevoli, ma il percorso museale era davvero ottocentesco. Oggi è tutta un’altra storia. Un museo di cui andare fieri.

Per quanto riguarda i tempi della visita, io stimerei almeno 3 ore. E comunque si tratterà di un assaggio. Con i bambini, in gruppo e con quella folla ci siamo naturalmente attestati sull’ora abbondante. Di più non sarebbe stato realistico. Io mi sono ripromessa di tornarci al più presto, troppe cose non abbiamo neanche sfiorato.

Tre cose che sono piaciute a Meryem (8 anni)

  • I panini di 3000 anni fa (“Ti rendi conto???? I pa-ni-ni. Proprio quelli che si mangiano!”)
  • Il biglietto, che “somiglia tanto al braccialetto che avevamo a Legoland” [trattasi, apprendo dal sito, di “braccialetto graficamente personalizzato contenente la tecnologia RFID”]
  • Le tuniche [in effetti, assolutamente spettacolari… specialmente quella plissettata]

Tre cose che sono piaciute a me

  • L’ho già detto? L’esposizione. Chiara, esplicativa, gradevole. Le statuette esposte con il loro stampo accanto, le vetrine che consentono l’osservazione degli oggetti da ogni lato, un giusto compromesso tra cronologia e geografia.
  • La sezione dedicata a Deir el-Medina. Sì, anche il favoloso ostacon della danzatrice. Quello che contiene un famoso errore. Voi sapete individuare qual è? Sappiate che una del nostro gruppo (diversa da me, che peraltro avrei dovuto saperlo) lo ha individuato in 2 secondi scarsi. Non per mettervi ansia da prestazione…
  • Il sapiente uso della tecnologia (ad esempio il filmato accanto alla cappella della tomba di Maia, con l’ipotesi ricostruttiva).

Il bookshop, senza essere faraonico, è piuttosto ricco, sia di gadget che di libri. Meryem ha scelto un libretto sui geroglifici, che spero mi darà occasione di accostarla ad alcuni concetti importanti. Il primo è cercare di non considerare necessariamente  ogni cosa lontana nel tempo e nello spazio come “meno evoluto” o “più evoluto” rispetto a ciò che per noi è più usuale. L’alfabeto non è il gradino più alto dell’evoluzione della scrittura. E’ solo un sistema di scrittura diverso da quelli più complessi (come il geroglifico o il cuneiforme), basato sull’economia (minor numero di segni possibile, rapporto quasi univoco tra suono e segno). Gli egiziani non scrivevano con un sistema di scrittura incredibilmente complesso perché non avevano ancora capito come scrivere in modo semplice (in attesa che qualcuno “scoprisse” come farlo). Lo facevano perché era ciò che era adeguato a ciò che dovevano scrivere (a cosa scrivevano, a chi scriveva e a chi doveva essere il destinatario delle loro scritture).

Allo stesso modo, non ritraevano le persone secondo i canoni che conosciamo, quasi immutati per millenni, perché non erano capaci di disegnare in modo più realistico. Gli ostraca di deir el-Medina lo dimostrano ampiamente. Lo facevano perché era quello che serviva in quei contesti e per quelle finalità.

Se solo fossimo capaci di deporre lo sguardo di sufficienza con cui guardiamo alle civiltà dell’antichità (ma anche a molte di quelle contemporanee) ed essere fieri della straordinaria richezza della civiltà umana…

Est modus in rebus


Se mi conoscete un po’, saprete che non sono una madre esemplare. Meryem talora gioca col tablet, mangia wurstel e varie cose poco genuine e, soprattutto, guarda la tv. In particolare, dato che in questa fase adora Doraemon, guarda Boing Tv. Non siamo usciti indenni, dunque, dalla campagna pubblicitaria che annunciava la presenza de La casa di Boing qui a Roma, nella sede dell’Archivio di Stato all’EUR, ieri e oggi. Ho acconsentito a portarcela. Mi pareva equo. Talora le chiedo di partecipare a eventi non dissimili per mie piccole collaborazioni lavorative. Ieri abbiamo attraversato la città intera, sotto la pioggia e con i mezzi, perché ci tenevo a partecipare alla terza edizione di “Alice nel paese della Marranella”. Che Boing Tv fosse, dunque.

L’evento in sé era come me lo aspettavo. Attività standard, abbastanza folla, genitori equamente divisi tra civili e maleducati. Un classico. Meryem ha diligentemente svolto tutto ciò che era previsto, collezionando gadget. Doraemon non era presente di persona, per precedenti impegni in un’altra città. In compenso, a un certo punto, è arrivata Barbie. Meryem si precipita dunque sotto il palco, dove fino a quel momento non avevamo sostato un granché. Il format prevedeva che i bambini facessero a Barbie delle domande e che poi la bella bionda si recasse nell’angolo predisposto per scattare foto ricordo e firmare autografi.

In primo luogo, Barbie in realtà NON rispondeva alle domande. Si limitava a sorridere a annuire. Alle domande rispondeva l’animatore-presentatore. Ho poi notato che tutti i personaggi che ho visto intervenire erano muti “perché fuori dalla tv non possono parlare”, come spiegava il ragazzo. Fatto sta che la conversazione ha preso la piega di cui vi darò qui alcuni esempi.

Bambina: “Perché sei così bella?”
Animatore: “Deve essere bella, perché ha un bel fidanzato! E lo sapete come fa a restare bella? Ve lo dico io! Si spalma ogni giorno un sacco di crema di bellezza. Anzi, ora che ci penso, una domanda la faccio io, a Barbie: chi ti spalma la crema? Aaaah, il tuo fidanzato… che fortunato!”

Bambina: “Che bel vestito che hai!”
Animatore: “Eh sì! Tutto pieno di diamanti. Costa tanto, sapete? Vale come mezza Roma!”

Intermezzo. L’animatore finge di scattarsi un selfie con Barbie. “Che bello, un selfie con te, è quello che ho sempre sognato! Peccato che ho le mani occupate…”.

Bambino: “Dove li hai presi i diamanti del vestito?”
Animatore: “Glieli spediscono per posta gli ammiratori. Tutti i maschi regalano un diamante a Barbie. Anche tu, quando crescerai un po’ e avrai 18 anni dovrai comprargliene uno, sai? Ma non devi mica spenderci 10 euro, eh? Devi spendere tanti soldi!”

Bambina: “Dove li prendi i vestiti?”
Animatore: “Nei negozi di tutto il mondo. Sapete, lei ha una grande villa solo per i vestiti, una solo per le scarpe e poi una grande casa piena di specchi, perché a lei piace guardarsi!”

L’intervento si è concluso con una mamma che ha chiesto un bacio a Barbie “per conto del marito”. L’animatore ha chiuso lo spettacolino raccomandando: “Vabbè, ora però lo tenga d’occhio perché Barbie girerà qui per tutto il giorno!”.

Credo che questo saggio sia sufficiente.

Due osservazioni conclusive. Non amo i film di Barbie, ma ne ho guardati molti e mi pare ovvio precisare che i messaggi che contengono sono ben lontani, da tutti i punti di vista, dai contenuti dello sketch a cui abbiamo assistito. In questi anni ho avuto l’impressione che i contenuti dei cartoni siano in genere piuttosto educativi e positivi, con punte di moralismo eccessivo (ricordo che avrei spiaccicato al muro il saccente e perfetto Coniglietto Milo!). Quindi non è Barbie il problema e forse neppure Boing Tv.

Il punto credo che sia che, come ben sanno i genitori che organizzano e subiscono feste di compleanno, gli animatori non sono tutti uguali. E gli animatori dozzinali sul mercato abbondano, e anzi sono la maggioranza. Con l’aggravante che sono anche molto popolari e apprezzati. E allora? Allora quando si organizza un evento, specialmente poi se è un evento vetrina per un marchio, si deve scegliere da che parte stare. Kinder per la caccia alle uova per quel ruolo ha scelto Giovanni Muciaccia. Vedete voi.

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