Montagne russe


Questo blog ha compiuto 15 anni e forse per questo non lo accudisco più come prima. Però lo continuo a guardare con affetto e rispetto, forse lo prendo persino più sul serio: custodisce molte cose, alcune senza importanza, altre per me utili e persino preziose.

Scrivo questo post dopo. Dopo alcuni cambiamenti importanti, il più evidente dei quali è quello lavorativo. Ma non è tanto di questo che voglio parlare, quanto di me in questo furioso alternarsi di paura e eccitazione, di gioia pura e di tristezza. Persino dolore. Da un paio di mesi sono a bordo di infernali montagne russe di emozioni e non c’è verso di scendere.

Mi sono chiesta a cosa posso aggrapparmi quando la discesa mi pare troppo ripida e dubito di tutto. Certamente la bellezza un po’ aiuta. Roma ogni tanto sembra farmi un cenno di incoraggiamento. Ma c’è stato anche tanto altro, in questo periodo. Sculture di Verrocchio, graffiti rinascimentali, persino un airone che faceva colazione lungo un fiume in una mattina struggente ma comunque a modo suo (agro)dolce. Ancora di più mi aiutano i momenti in cui mi trovo per caso sintonizzata su una frequenza che mi appartiene e allora riesco a splendere con disinvoltura, divertendomi persino, dimenticando remore, insicurezze e mancanze vere o presunte.

Sotto una perfetta luna piena, la settimana scorsa, mi sono ripromessa di coltivare una doverosa gratitudine per questa vita ricca che ho avuto e che ho ancora tra le dita, anche se in alcuni momenti i vuoti rimbombano più dei pieni.

A suo tempo


Mi capita, qualche volta, di incrociare di nuovo persone perse di vista da tempo. Mi è successo ieri, per lavoro. Una telefonata formale, ma un nome che abbinavo a un volto preciso. Non un mio amico direttamente, ma un amico del mio fidanzato dell’epoca. Una persona che mi aveva colpito. Rivisto quindi ieri, in una sala riunioni con affaccio sul Cupolone. Diverso il contesto, diversi i nostri rispettivi ruoli. Diversissime, evidentemente, le scelte che abbiamo fatto in questi anni, anche se per qualche tempo il percorso, almeno di studi, un po’ si somigliava.

La sua capa a un certo punto ha fatto un riferimento al mio curriculum. La cosa mi ha un po’ spiazzato. Forse voleva solo farmi vedere che prima della riunione lei o uno dei suoi collaboratori si era preso il disturbo di guardare chi fossi. Magari neanche l’aveva fatto davvero, chissà. Ma in un discorso in cui i collaboratori suddetti erano stati presentati sulla base della loro capacità di “attirare fatturato” il riferimento mi ha fatto impressione. “Un curriculum che parla da solo”, ha detto più o meno quella donna elegante. “Eppure…”, non sono riuscita a trattenermi dal rispondere io con un sorriso. Chissà se ha capito cosa intendevo. Chissà se io ho realizzato davvero pienamente cosa intendevo con quella risposta. Certo l’ho realizzato mezz’ora dopo, uscendo da quella sala riunioni. Non era rimpianto il mio, sebbene per forza me lo sia dovuta chiedere. Tante cose certamente avrei potuto scegliere meglio, nella mia vita lavorativa. Ma in tutta onestà, qualunque svolta io avessi potuto prendere nella mia vita precedente, sono abbastanza certa che in nessun caso, alla fine, mi sarei trovata a sedere dall’altra parte del tavolo, in quella sala riunioni.

Più tardi sono andata alla presentazione di un libro, questo. Come ho già scritto su Facebook, è un libretto illuminante e necessario, una boccata di pensiero onesto e pulito. Una lettura che consiglio caldamente a tutti, ma in particolare a: noi che nel tema siamo impelagati fino al collo e oltre, politici, aspiranti cittadini pensanti, persone che vorrebbero tanto dirsi di sinistra ma non sanno più bene che significa, professori (specialmente di scuole superiori), giovani votanti e non votanti, persone convinte che dell’immigrazione si debbano occupare solo gli addetti ai lavori e i leghisti. Al di là di questa recensione per inciso, ieri sera partecipando a questo rito ormai desueto della presentazione di un libro da Feltrinelli mi tornava in mente la mattinata trascorsa. E mi rafforzavo nel pensiero che a un certo punto, in effetti solitamente abbastanza presto, si finisce per scegliere da che parte stare, magari non del tutto consapevolmente. Mi ha colpito leggere che per Filippo Miraglia questo momento sia legato al fastidio nel vedere il diverso trattamento che in famiglia aveva sua sorella che, in quanto femmina, “aveva tutti gli occhi addosso”. E per me, mi sono chiesta in autobus tornando, quando è stato questo momento? Non saprei dirlo. Certo incontrare i rifugiati mi ha cambiato molto, ma certamente qualche fondamento precedente c’era.

Uno dei relatori di ieri, Oliviero Forti di Caritas Italiana, scherzando ha detto che un altro libro si potrebbe scrivere sul motivo per cui i principali oppositori i Papa Francesco sono assolutamente convinti di essere pienamente cristiani e cattolici, magari più dello stesso Bergoglio. Questo mi ha fatto pensare al fatto che i miei genitori, abbastanza impliciti nella trasmissione di valori, una cosa mi hanno sempre passato come assolutamente fondante e imprescindibile nelle loro scelte: il Concilio Vaticano II. Alla fine forse questa è la corrente che più mi ha trascinato, in questi anni, a prescindere dalle formali appartenenze. Alcuni dei temi fondanti di quel Concilio li ho ritrovati, a suo tempo, nell’apostolato sociale dei gesuiti. Quei concetti formano il patrimonio intellettuale che più sento mio e più mi rappresenta.

Come andrò avanti? Sempre più spesso me lo chiedo. Però certamente ieri mi è stato chiaro che fino ad ora una direzione c’è stata, anche se non sempre mi è parso di sceglierla del tutto. Dove andrò da adesso in poi lo scoprirò a suo tempo.

Vale la pena?


Come si nota anche dal ritmo di pubblicazione dei post di questo blog, sono leggermente travolta. Il tempi del lavoro si dilatano, sgomitano, assumono forme anomale. Provvidenzialmente mi è stato regalato un tempo di pausa non riempito da tutto il resto, un fine settimana tra le montagne di Trento a fare “una cosa gesuita”, come ha detto uno dei partecipanti. Se avessi saputo di cosa si trattava sicuramente non sarei andata. L’avrei considerato un lusso che non potevo permettermi. Invece mi serviva proprio. Ne sono uscita un po’ scossa e in qualche modo riconciliata, soprattutto rispetto alla domanda che mi sono posta negli ultimi mesi: “Ma cosa ci sto a fare? Ne vale la pena? Magari è giunto il momento di cambiare strada? E’ arrivato il vento del nord di Mary Poppins?”.

In estrema sintesi, ne sono uscita rafforzata nella convinzione che vale la pena di fare il mio lavoro, oggi più che mai. Vale la pena perché c’è bisogno di capire, di pensare, di spiegare, di provare cose nuove e raccogliere nuove idee. Non sono ovviamente le uniche cose che faccio al lavoro, ma faccio anche questo. E’ innegabilmente un momento entusiasmante. Cambiano le carte in tavola, continuamente. Ci sono più che mai motivi di indignazione e di denuncia. In Italia in queste settimane si stanno verificando cose gravissime. Ieri sera un operatore umanitario in collegamento dal porto di Pozzallo ci raccontava di come la sua organizzazione, addetta al triage sanitario allo sbarco, può segnalare donne incinte anche ai primi mesi, persone con patologie varie che possono essere risparmiate dal respingimento immediato. A un certo punto ha parlato anche di un istituto religioso dove avevano proposto di ospitare per qualche giorno uno dei migranti colpiti da questi provvedimenti dati un po’ a casaccio. Il pensiero è corso agli ospedali che ricoveravano gli ebrei al tempo del rastrellamento nazista a Roma, ai conventi che nascondevano i bambini.

Fa impressione pensare che una similitudine che da tempo era venuta in mente ad alcuni (leggetevi questo bellissimo post di Anna di più di due anni fa) oggi sia ancora più calzante.

“Così muore la civiltà europea”. Muoiono innocenti, ogni giorno, e sembra che ci siamo abituati. Per questo, nonostante qualche fatica e qualche insoddisfazione, continuo a credere che questa sia la mia frontiera. A tratti, la mia trincea. Sono davvero grata a tutti quelli che si trovano qui con me. Alcuni per un pezzetto di strada, altri da 15 anni. Grazie per tutte le risate liberatorie che ci aiutano ad andare avanti, testardi e resilienti.

Ciao, fondi Solid!


Giugno, mese di eroiche prestazioni ai limiti del sovrumano, si è chiuso ieri. L’anno scorso mi ripromettevo, se ne fossi uscita viva, di regalarmi la targa di eroe dei nostri tempi. Quest’anno la targa l’ho anche avuta (non proprio personale, dài: è quella di questo progetto, ma per impatto e importanza sulla mia vita lavorativa e quotidiana in genere fa lo stesso). Oggi, primo luglio, mi guardo incredula e mi dico che:

a) sono viva

b) non mi pare esattamente l’inizio di un periodo tranquillo.

Del resto, si sa, se non ho troppe cose in testa e per le mani mi annoio. E quando mi annoio, le conseguenze sono pessime. Lunedì scorso (a Roma era festa) mi sono ridotta a tentare di montare un ghepardo in carta regalato a Meryem per il compleanno. Le istruzioni promettevano che si trattava di operazione facilissima, che non richiedeva né forbici né colla. Alla trentesima volta che la maledetta zampa anteriore sinistra, piegata più volte in fogge diverse e evidentemente nessuna corrispondente alla laconica freccetta rossa del disegnino, si è staccata dal fragile tronco deforme del potenziale animale, ho lanciato tutti i componenti ai quattro angoli della stanza, chiarendo cosa pensassi dei sofisticati progettisti francesi che avevano ideato l’oggetto. Che poi, uno cosa se ne dovrebbe fare di un ghepardo di carta fragile come una bolla di sapone? Loro allegavano un filo per appenderlo al soffitto. Avrei dovuto capire tutto da quel particolare.

Ma sto divagando. Quello che volevo celebrare in questo post è la fine ufficiale dei fondi Solid, i FER e i FEI che hanno segnato la mia vita professionale negli ultimi… parecchi anni. Abbiamo ancora parecchie scartoffie da smaltire, ma un’era si è chiusa, con ieri. Non voglio qui commentare su quanto nuova/migliore possa essere l’era che si aprirà nei prossimi mesi, rispetto ai finanziamenti europei in materia di migrazioni. Sarebbe un ragionamento molto poco estivo e anche un po’ amaro. Solo piacevolezza, oggi.

Qui, in questo blog in cui la mia me lavorativa sgomita sempre più prepotentemente per uscire, voglio ricordare solo la crescita di questi anni di duro lavoro. Dalla prima volta in cui tentai, invano, di compilare una application per il FEI, sono arrivata ad oggi, in cui bene o male sono stata in grado non solo di framene finanziare, ma anche di coordinarne uno tutto mio. E’ un pezzo importante di quello che ho imparato in 15 anni di lavoro qui. Non era l’aspetto che mi attraesse di più, né quello che mi è più congeniale. Eppure l’ho imparato e ne ho persino, a tratti, apprezzato la bellezza.

Oggi mi voglio dire brava da sola per questo. Non è stato facile, per una persona orgogliosa come me, accettare il fatto che ho fatto, faccio e farò un sacco di errori. Che non sarò la migliore progettista sulla piazza, né la migliore coordinatrice di progetto. Ma è qualcosa che oggi so fare in modo accettabile e solo io so quanto mi sia costato. Quindi mi dico brava.

Però devo dire anche una marea di grazie, troppi per scriverli tutti qui. Concedetemene solo due. A Berardino (Guarino), per la pazienza e la tenacia con cui mi forma e mi sopporta (in tante occasioni assai superiori alle mie). E a Le Quyen: ancora oggi non riesco a immaginare fino in fondo un progetto europeo senza di lei.

Migliorarsi

rimuginare, cose serie


Se avessi trent’anni e un lavoro che ti paga generosamente per trascorrere il tempo con le mani in mano, senza particolari incombenze, facendo beatamente i casi tuoi, saresti felice?
Mi faccio questa domanda, dettata da un aneddoto che mi è stato raccontato oggi e non credo di essere ipocrita a rispondermi che no, non sarei felice. Non dico che mai e poi mai lo accetterei, intendiamoci. So che a volte una scelta in questo senso è obbligata e anche fortunata, rispetto a lavori pesanti e mal pagati. Ma felice, no. Specialmente a trent’anni. Ma anche ora. Mi sembrerebbe di essere privata di un diritto, del sacrosanto diritto che abbiamo tutti (e o giovani ancor di più) di migliorarci, sfidarci, progredire.
Non parlo di carriera, ovviamente. Io, tanto per fare un caso personale, platealmente non ho fatto carriera e non la farò mai. Ma se mi guardo indietro, professionalmente ho imparato moltissimo e continuo costantemente ad avere occasione di sbattere il muso contro aspetti in cui ho ampi margini di miglioramento.
Il mio lavoro è l’opposto di quanto descritto sopra. Mal pagato e frenetico, pieno di cose diversissime tra loro. Ma è il mio lavoro, parla di me. Mi dà tanto e adesso posso dire che, almeno qualche volta, porta la mia impronta: un progetto pensato, voluto, scritto e ora – faticosamente – gestito; un evento riuscito; un rapporto annuale, quello che presenteremo la prossima settimana, che mi/ci soddisfa fino in fondo. Potrei continuare a elencare le opportunità che ho lavorando a Astalli, ma oggi il punto che mi preme è un altro.
Non è male essere ben pagati per il proprio lavoro. Beato chi lo è. Ma il lavoro deve dare qualcosa oltre allo stipendio. Passiamo al lavoro una parte importante della vita. Un lavoro che non chiede nulla si può sopportare, per necessità. Ma che un giovane ne sia felice mi rattrista e insieme mi allarma.
Sono esagerata?

P.S. A proposito di miglioramenti. Ho fatto il proposito di migliorare un po’ anche questo blog. Chissà se terrò fede a questa buona intenzione…

Rifugiati: quali domande vorrei sentire


Si fa un gran parlare di sbarchi, di naufragi, di arrivi e di ISIS in Libia in questi giorni. Eppure ho la sensazione che le domande poste dai giornalisti non servano a far capire di cosa davvero si stia parlando. Ascolto queste trasmissioni, anche con ospiti competenti (non solo i talkshow pattumiera), leggo le bacheche di amici e conoscenti e l’insoddisfazione continua a crescere. Avete presente quando uno fa uno sforzo supremo, si prepara, affronta un discorso importante e poi realizza che l’interlocutore è comunque lontano mille miglia da quello che volevamo dire?

E’ vero che i rifugiati costano 30 euro al giorno? E’ vero che con la crisi non c’è lavoro per gli italiani figuriamoci per loro? E’ vero che i barconi possono essere utilizzati dai terroristi per infiltrarsi? Ma non si potrebbero fare accordi con i Paesi di transito perché se li tengano lì? Non si potrebbe pattugliare meglio le coste per evitare le partenze?

Le domande incanzano e certo, a tutte c’è una o più possibili risposte. A volte i sì e i no non bastano. Ma soprattutto io comincerei da due concetti preliminari.

1. Un esercizio. Guardate una delle persone distrattamente inquadrate dalle telecamere a Lampedusa o sulle motovedette che li hanno soccorsi. Uno che si è messo su un barcone, a volte con i suoi bambini, consapevole che poteva morire. Uno che, in molti casi, ha già visto molte persone morire durante il viaggio e nonostante questo continua a pagare tutto quello che ha e a volte quello che non ha per continuarlo, quel viaggio. Cercate di immaginare perché lo fa. Documentatevi un minimo sui Paesi di origine. Leggete le storie di queste persone. Provate a chiedervi cosa avreste fatto, voi, al suo posto.

2. “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Costituzione Italiana, principi fondamentali, art. 10. Vi pare troppo? Abbassiamo il tiro, allora. “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. Convenzione di Ginevra, art. 33. E sì, l’Italia è uno Stato contraente. Perché continuiamo a chiederci come fare a respingere queste persone in fuga? Come possiamo evitare che partano? Come essere sicuri che si fermino altrove? Hanno diritto di arrivare. Hanno diritto di chiedere protezione. L’Italia ha il dovere di esaminare le domande di protezione e ha facoltà di verificare se sono fondate o meno. Se non lo sono, esistono leggi che stabiliscono le modalità di espulsione, ovviamente dopo aver usufruito del diritto a fare ricorso. Ma una cosa è certa: il respingimento preventivo è illecito, in ogni caso.

Altre sono le domande che dovremmo porci. Faccio solo due esempi.

1. Non riusciamo a accogliere in forma adeguata e dignitosa? Perché? Come utilizzare gli investimenti in modo più efficace e trasparente?

2. Muoiono migliaia di persone nel tentativo di accedere al loro diritto di chiedere asilo. Cosa si può fare per evitare questa strage e, allo stesso tempo, combattere efficacemente le organizzazioni criminali che lucrano sulla disperazione altrui?

Glory days


A volte va così. Si fanno strategie di comunicazione e alla fine basta una circostanza favorevole per portare il progetto Incontri in prima pagina su La Repubblica. Circostanza favorevole e tanto lavoro ben fatto, ovviamente. Lavoro di squadra di tutto il Centro Astalli, non da ieri. Ma stasera mi concedo il lusso di qualche pensiero e ricordo, rispetto al percorso frastagliato che mi ha fatto dire con sicurezza, oggi, alla giornalista che mi intervistava che sono “responsabile per il dialogo Interreligioso del Centro Astalli”. Per una volta ho una qualifica pertinente.

Non ho inventato io il progetto Incontri, ma l’ho visto nascere e camminare, talora faticosamente. Negli anni però mi è stato sempre più chiaro che quel tentativo artigianale di dialogo dal basso era importante, molto importante. Che aveva attinenza con la missione del JRS, che non era un lusso, un divertimento intellettuale, ma una modalità, uno stile, una pratica da coltivare con pazienza. Dal basso.

La religioni negli ambienti accademici le ho frequentate e non riuscivo a trovarci quello che invece ho adesso: la vita, la quotidianità, le relazioni. Ricordo sempre il mio primo sabato in compagnia di ebrei a Gerusalemme: anni di studio dell’ebraico e tanto dotto studio etimologico mi avevano lasciato analfabeta rispetto a cosa dovevo aspettarmi. Fissavo il sale, il vino e mi chiedevo chi me l’avesse fatto fare. Ero persa. Tanto ebraico, nemmeno un amico ebreo. Il seder di Pesah l’avrei gustato solo molti anni dopo. E ancora quella sensazione prepotente di non aver mai colto l’essenziale.

Una volta ho sentito un professore ordinario di lingua e letteratura ebraica dire: “Non si può ragionare con gli arabi. Sono un popolo rozzo”. Era una battuta in corridoio, non un articolo scientifico. Ma mi sono chiesta cosa potesse cogliere, quel professore, di quell’ antigiudaismo medievale di cui lo si ritiene esperto. Discriminazione, pregiudizio, razzismo, stigmatizzazione: ne disquisiva, ma allo stesso tempo continuava a praticare tutto, senza averne la minima consapevolezza. Studiare non serve? Serve, certo. Ma non è sufficiente. Se scienza e vita percorrono strade parallele, tutto resta teorico. Si pensa, si scrive, si parla, si argomenta e non si vede niente al di fuori delle proprie costruzioni.

Molti anni dopo, sono entrata in un tempio induista a Bangkok. Un’esperienza intensa, anche emotivamente, una tappa di un percorso solitario di osservazione di un popolo in preghiera, di forme di relazione con il divino che parlano ai sensi in modo più complesso e articolato di quelle che conoscevo io. E un pensiero, strambo e allo stesso tempo familiare: un santuario fenicio certo somigliava di più a quel tempio che ai disegnini freddi ricavati diligentemente dalle piantine da archeologi scientificamente solidi. Offerte di cibo,  profumi, colori, simbologie intrecciate, musica. Vita. Per associazione di idee, penso a quello che mi è stato spiegato una volta sulla medicina occidentale: nasce dall’anatomia, dallo studio del corpo morto. Precisa, accurata molto più di altre per la chirurgia. Ma l’energia? Il magnetismo? Tutte le altre componenti che concorrono alla vita non meno del funzionamento meccanico degli organi? Ecco, le religioni che ho studiato all’università mi hanno dato un’infarinata di conoscenza anatomica. Il resto ho iniziato a viverlo con il canto dei muezzin di Istanbul e poi, esponenzialmente, al Centro Astalli.

Il dialogo è possibile? Oggi Papa Francesco ha detto che nessun dialogo autentico è possibile senza conversione. Io forse direi che questa esperienza comporta la disponibilità a rivoluzionare almeno un po’ i propri schemi mentali. A essere pronti ad accogliere logiche diverse. A praticare il pensiero laterale. In altre parole: a sforzarsi di accettare i propri limiti e di andare anche oltre, come si riesce, senza paura. Fidandosi.

Analfabeti di speranza


Alcuni di voi mi chiedono di scrivere qualcosa su Tor Sapienza, sull’Infernetto, su questa assurda ondata di violenza e intolleranza che sembra dilagare ovunque e che, naturalmente, trova con facilità palcoscenici compiacenti nelle televisioni e nei giornali. Mi sopravvalutate, temo. Una cosa è certa: molte delle informazioni che circolano sul tema immigrazione e rifugiati in particolare sono, nella migliore delle ipotesi, non correttamente interpretate e spiegate (se non false del tutto). Non mi sento di farne del tutto una colpa ai singoli cittadini: se la stessa RAI manda in onda in prima serata trasmissioni che rimestano del torbido, non senza malizia, e se su uno dei principali quotidiani italiani si scrive che a Roma negli ultimi mesi sono stati aperti migliaia di nuovi posti di accoglienza per i rifugiati (il che è, semplicemente falso, visto che ci si è limitati a finanziare diversamente posti preesistenti), a questo punto viene la tentazione di considerare più attendibile il proverbiale “amico di mio cuGGino”, come si dice nella mia città natale.

Quegli stessi amici che, sapendo che lavoro faccio, mi chiedono di esprimermi sono certa che mi scuseranno se faccio un passo indietro e rispondo, più per me che per loro, a una domanda che in queste settimane mi tormenta: quando così evidente appare l’immensità del lavoro da fare e la sproporzione inquantificabile di mezzi tra chi mette zizzania (passatemi questa sottile analisi sociologica…) e chi avanza proposte diverse, che senso ha il nostro impegno?

Ieri poi, dopo quattro ore di formazione sulla geopolitica mondiale, il mio scoraggiamento aveva assunto una dimensione cosmica. Uno degli assunti nel nostro relatore era che certamente “a livello individuale” si possono fare tante buone cose. Ma il quadro generale che ne emergeva, tra strategie sul prezzo del petrolio e guerre stellari, era quello di un’enorme partita di Risiko che si svolge, attraverso un miscuglio diabolico di tecnologie avanzatissime e istinti animaleschi, ben al di sopra delle teste di tutti noi. Che senso ha, allora, il nostro lavoro?

E qui mi concedo una precisazione, che in fondo in fondo, contiene un po’ la risposta alle domande della me annichilita e scoraggiata. Noi non lavoriamo per fare del bene, nel nostro piccolo. Noi lavoriamo per cambiare il mondo.

“Parte essenziale della missione del JRS è affrontare le cause profonde delle migrazioni forzate. L’organizzazione si sforza di modificare le politiche ingiuste al livello più appropriato: localmente, a livello nazionale o internazionale”.

Di più: noi lavoriamo per promuovere la giustizia e “ricreare le giuste relazioni” a livello globale. Scusate se è poco.

Ecco, senza questa cornice davvero nessuno dei nostri sforzi ha senso. Essere idealisti non è un difetto, è obbligatorio. Mi spingo un po’ più in là. Bisogna anche sapere che la giustizia e la riconciliazione richiedono di tentare l’impossibile. Quindi, ciascuno faccia appello a quello che ha: la fede religiosa, la convinzione degli ideali, la fiducia nella magia o nei miracoli. I miracoli sono sottovalutati, specialmente quelli quotidiani.

Preciso che i miracoli quotidiani di cui siamo spettatori e che in misura maggiore o minore ci coinvolgono non sono “il nostro piccolo”. Sono lo spiraglio attraverso il quale ci rendiamo conto che il cambiamento che razionalmente è impossibile in realtà ci sarà e forse, in qualche misura, c’è già. «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te».

Ricordo sempre una frase del mio primo “capo gesuita”. I rifugiati insegnano la speranza a noi che siamo analfabeti di questa virtù. Se una persona che ha perso tutto, magari anche se stesso attraverso la tortura, è in grado di rimettersi in piedi, percorrere il deserto e il mare e immaginare qualcosa di nuovo, come possiamo noi essere cinici e rinunciatari?

Ecco, lo so che questo apparentemente non c’entra nulla con Tor Sapienza e con l’Infernetto. Ma prima ancora di parlare di questo avevo bisogno di ricordare a me stessa che ci faccio qui.

Riparare il mondo


C’è un concetto della cultura ebraica che mi ha sempre colpito, pur nella mia conoscenza piuttosto superficiale (mi scuso fin d’ora per la mia approssimazione, magari qualcuno dei miei lettori nei commenti può integrare e correggere): il tiqqun ‘olam. L’idea, in parole fin troppo povere, è che la creazione del mondo non è esclusiva responsabilità del Creatore, ma che va in qualche misura completata dagli uomini, riparando quello che nel mondo, abbastanza vistosamente, non funziona.

Questa immagine ha sempre colpito la mia immaginazione, per diverse ragioni. E’ bella l’idea che quello che non va non sia una corruzione irrimediabile di una perfezione perduta, ma un non ancora su cui abbiamo voce in capitolo. Soprattutto mi piace il concetto che ciascuno possa e debba fare qualcosa per il bene collettivo, globale, senza per questo essere o sentirsi un supereroe.

Troppe volte, quando racconto sommariamente che lavoro faccio, mi trovo davanti a reazioni di ammirazione che mi imbarazzano molto. In primo luogo il mio è, appunto, un lavoro. Per la mia vita, ovviamente, non è solo un modo per guadagnarmi lo stipendio. Lo faccio con passione, con convinzione. Credo molto nella missione della mia organizzazione, il JRS, soprattutto perché non fa “carità”, ma promozione della giustizia (che poi è un modo cattolico di vedere il tiqqun ‘olam di cui sopra). Noi non ci spendiamo per i diritti dei rifugiati perché “siamo buoni”, ma perché crediamo che sia giusto.

Io, personalmente, credo che nello sfacelo che la mia vita è, da molti punti di vista, svolgere questo lavoro sia in questo momento il pezzettino che devo contribuire a rammendare per la riparazione del mondo. Qui mi ha portato la sorte, qui posso spendere le cose che so fare. Ma credo che non sia necessario lavorare in una ONG per fare questo. Credo che molte persone abbiano nel lavoro l’opportunità di fare giustizia, nel loro piccolo. Il pensiero corre agli insegnanti, ai giornalisti, ai medici, ma anche agli infermieri, agli operatori di sportello, agli impiegati… Fare con coscienza il nostro compito, rammendare il pezzo che è alla nostra portata, è alla fin fine niente di più e niente di meno che fare quello che ci è proprio, in quanto esseri umani. Gli eroi lasciamoli nei fumetti (e nei film americani).

Post scriptum
A proposito di tiqqun ‘olam: vi consiglio di leggere il romanzo di Myla Goldberg, Bee Season. La traduzione italiana non si trova e ne hanno tratto un film con Richard Gere e Juliette Binoche, Parole d’amore, che mi ha incuriosito e spinto a cercare il romanzo per leggerlo. Il romanzo è molto meglio, più complesso e interessante.

La storia


Say this city has ten million souls,
Some are living in mansions, some are living in holes:
Yet there’s no place for us, my dear, yet there’s no place for us.

Once we had a country and we thought it fair,
Look in the atlas and you’ll find it there:
We cannot go there now, my dear, we cannot go there now […]

Went to a committee; they offered me a chair;
Asked me politely to return next year:
But where shall we go today, my dear, but where shall we go today? 

Came to a public meeting; the speaker got up and said:
‎’If we let them in, they will steal our daily bread’;
He was talking of you and me, my dear, he was talking of you and me.

Questa poesia di Wystan Hugh Auden parla degli ebrei tedeschi al tempo della persecuzione nazista. Un tema abusato, mi direte. Ma leggendo queste parole non riesco a non pensare alle persone che da 14 anni a questa parte, mese più mese meno, ho cominciato a conoscere. Non a caso un documentario che parla dei rifugiati palestinesi in fuga dalla Siria, proiettato qualche giorno fa a Beirut, deve il suo titolo proprio a un verso di questa poesia.

Certe volte la sensazione di non andare avanti neanche di un passo è davvero incombente. “Perché fate questo lavoro? Credete davvero di poter cambiare qualcosa?”, mi ha chiesto ieri uno di quei rifugiati, perfettamente integrato, in apparenza (qualunque cosa ciò voglia dire). E invece ogni volta che parliamo, anche se non la nomina più da anni, sento vibrare in lui la paura dei confini attraversati a piedi, mista alla rabbia, alla delusione, alla frustrazione. Ricordo quei fogli grandi su cui scriveva, infinite volte, “sono solo”.

Cosa ho risposto? Che a volte un lavoro fatto con coscienza non può cambiare il mondo, ma può fare la differenza, anche piccola, almeno per qualcuno. Che è troppo facile abbandonarsi alla rabbia, alla disperazione, al senso di inutilità davanti all’enormità dell’ingiustizia (ad oggi l’Europa tutta intera ha accolto appena l’1% dei profughi in fuga dalla Siria) e all’ottusità arrogante di tanta gente intorno. E’ giusto arrabbiarsi, è giusto sconfortarsi. Ma non si è comunque giustificati, rimboccarsi le maniche serve comunque. Fosse solo per poter dire che abbiamo fatto di tutto per non essere complici. Per poter guardare mia figlia negli occhi e poterle raccontare che, con tutti i miei errori e le mie insufficienze, ho sempre saputo da che parte stavo, in questa storia. Che, lo ripeto sempre, a un certo punto sarà raccontata. E a quel punto, se saremo ancora vivi, ci chiederemo cosa stavamo facendo mentre tutte queste persone morivano ai confini della nostra Europa.

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