Cosa stiamo facendo


Stamattina un’amica, dalla Sicilia, mi segnala una notizia dell’ANSA, che vi riporto sinteticamente qui di seguito.

“Due autisti sono morti e 25 migranti sono rimasti feriti, alcuni in modo grave, in un ìncidente stradale avvenuto l’autostrada A1, all’altezza di Fiano Romano (Roma). I migranti, una cinquantina circa, erano sull’autobus della Patti tour di Favara che ha un contratto con la Prefettura di Agrigento. Da Porto Empedocle era partito alle ore 10 di ieri per trasferire i migranti in Piemonte. Sul colpo è morto uno dei due autisti a bordo; l’altro, sbalzato dall’abitacolo, non è stato ancora ritrovato. Il bus ha avuto un impatto frontale con un mezzo pesante. I due autisti, entrambi italiani, sono morti. I migranti erano sbarcati a Lampedusa nei giorni scorsi. I due autisti morti avevano 35 e 32 anni. Tra i feriti due sono stati trasferiti in codice rosso al Gemelli ed all’Umberto I, otto in codice giallo distribuiti in vari ospedali. Altri 35 migranti sono stati visitati, ma non trasportati in ospedale perché illesi: sono stati quindi affidati alla prefettura”.

Gli incidenti, per loro natura, sono tragici e imprevedibili. In questo caso, però, credo che sia utile sottolineare alcune circostanze che sono impietosamente messe in luce dai nudi fatti riportati dall’agenzia.

Una cinquantina di migranti, sbarcati nei giorni scorsi a Lampedusa, sono stati prima trasferiti a Porto Empedocle e di lì venivano accompagnati, in pullman, in Piemonte. Non si tratta di un fatto eccezionale, ma di un normale meccanismo di distribuzione dei migranti che arrivano via mare in tutte le regioni di Italia. Tale distribuzione implica che i trasferimenti siano da mesi pressoché continui e dai porti della Sicilia (o della Calabria) si utilizzano pullman, con tutte le ore di viaggio che questo implica. Sulle modalità, i tempi e i criteri con cui lo smistamento (o il “riparto”, come viene spesso definito) è effettuato ci sarebbe molto da dire, ma lasciamo per ora da parte questo aspetto. Limitiamoci a notare che i migranti sbarcati a Lampedusa e spesso soccorsi in mare a valle di viaggi efficacemente descritti, ad esempio, nel bellissimo film di Garrone “Io, capitano”, vengono assegnati al centro di accoglienza a cui per legge hanno diritto dopo una serie di passaggi non ovvi, non sempre lineari, che talora prevedono trasferimenti da un porto all’altro (ho sentito usare il termine “stallo” per definire queste soste tecniche) e attese anche di giorni in sistemazioni di fortuna.

D’altro canto, perché questo avvenga, centinaia di altre persone, per lo più italiane (funzionari di Prefettura, poliziotti, medici e infermieri, operatori di agenzie europee e internazionali, mediatori, volontari, persone volenterose e – la cosa oggi ha la sua tragica rilevanza – autisti), sono soggette – chi più chi meno – a turni di lavoro impossibili, tensioni, conflitti, problemi da affrontare senza reali strumenti per risolverli, obblighi di legge da rispettare senza la possibilità concreta di farlo.

Io credo sia davvero disonesto dire che tutto questo avviene perché le persone che arrivano sono troppe. Mi rendo tuttavia conto che chi considera solo quello che viene riferito normalmente dai telegiornali non può che pensare questo. I numeri degli arrivi sono sicuramente alti (a ieri erano sbarcati in Italia 125.928 migranti, secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Interno), ma nel 2016 in un anno le persone arrivate via mare sono state 181.436, quindi abbastanza in linea con la situazione attuale. Una situazione non si può valutare solo con i numeri, altri elementi vanno considerati. Ma certamente una diversità importante rispetto al 2016 riguarda il funzionamento e la capienza effettiva del sistema di accoglienza. I posti disponibili sono sempre di meno e ci sono ragioni che determinano questa situazione.

In questi anni sono state prese delle decisioni, politiche, che – contro ogni buon senso e razionalità di uso delle risorse economiche – hanno di fatto minato il molto di buono che era stato faticosamente costruito (sia pure a macchia di leoprado, con mille limiti, in modo incompiuto…) per una gestione intelligente delle migrazioni forzate. (Questo è un discorso lungo, ma per una battuta rapida sulla recentissima attualità ascoltate ad esempio questa intervista). Queste decisioni oggi presentano il conto, non solo per quello che subiscono i migranti (che pure ci riguarda, evidentemente), ma più direttamente nel quotidiano di molti cittadini, in molti più forme di prima.

L’arroganza di pochi governanti incapaci (o almeno non intenzionati) a valutare la realtà è sempre più pericolosa. Io vorrei almeno vedere l’indignazione di molti cittadini. Non solo la legittima commozione per la morte di una bambina. Ma la profonda indignazione, argomentata e motivata, nei confronti di chi si prende il lusso di dare per scontata la morte e la profonda sofferenza di sempre più persone (migranti, lavoratori, persone che prendono seriamente la legge e il senso dello Stato).

Accoglienza


Ucraina: un’altra emergenza, un’altra ondata di solidarietà al cui confronto quella suscitata dagli afgani pochi mesi fa sparisce (e del resto non se ne parla più in tv, quelle persone restano una priorità solo per gli “addetti ai lavori”). Onestamente i sentimenti di chi di accoglienza si occupa, in Italia, sono divisi. Da un lato tanto entusiasmo a aprire le porte di casa è bello da vedere e in qualche modo confortante. Dall’altro la disparità di trattamento stride. Quegli stessi operatori che faticano a convincere chicchessia a affittare anche solo una stanza a un rifugiato con regolare contratto di lavoro, che sanno di frontiere ostinatamente chiuse e di quarantene lunghe e rigorose per chi cerca protezione da altre sponde, si chiedono perché per queste vittime innocenti di guerra le aperture siano tanto maggiori.

Buon per loro, buon per noi. Ma qualche domanda si impone. Perché usare ora una direttiva europea per la protezione temporanea rimasta nel cassetto per 11 anni, al punto che si ipotizzava di cancellarla? La guerra in Siria non era abbastanza guerra, l’afflusso che nel 2015 è stato definito “emergenza profughi”, “esodo biblico”, “tsunami umano” non era abbastanza massiccio? Tanto si sta dicendo e scrivendo sul colore della pelle e sulle somiglianze, fisiche e culturali (?), che solleciterebbero l’empatia. Questo esiste, ma penso e spero che ci sia anche dell’altro.

In realtà molti italiani conoscono degli ucraini, in un modo o nell’altro. Ci sono stati anni di accoglienza dei bambini di Chernobyl, che hanno lasciato sui territori una rete di affetti, anche molto duraturi. Ricordo un tassista che mi parlava della “sua” ex bambina, con cui tutta la sua famiglia continuava a sentirsi con regolarità. La bellezza di quell’esperienza era la trasversalità. Persone molto diverse erano state coinvolte, senza pescare in categorie specifiche. E poi, naturalmente, ci sono donne e uomini ucraini che lavorano in Italia. Come assistenti familiari e badanti, per esempio, il che implica spesso un grande scambio affettivo e una relazione continua e significativa. Alle manifestazioni per la pace molti amici parlavano di donne con un nome, a cui sono legati da importanti vincoli di riconoscenza per il loro lavoro prezioso e, il più delle volte, indispensabile e in una certa misura impagabile. Donne che hanno figli, mariti, nipoti che sono di fatto già entrati, in un modo o nell’altro, nella sfera delle relazioni delle famiglie italiane.

Ma poi ci sono i compagni di scuola, di università, i colleghi di lavoro, i vicini di casa. Quando la guerra irrompe nella vita di amici e conoscenti ovviamente ci pare molto diversa. In qualche modo è molto diversa. Non è solo questione di razzismo.

E allora forse mi capirete quando vi dico che avere amici rifugiati è una benedizione e una maledizione allo stesso tempo. Perché quando sai che è il nipote minorenne del tuo amico curdo a tentare la lotteria della rotta balcanica, sfidando fili spinati e la violenza delle polizie di frontiera, il tuo stato d’animo va oltre la comune indignazione e si tinge di paura, di rabbia e di impellente voglia di cambiare le cose, che purtroppo fondamentalmente si traduce in nulla.

Ma se vedo l’effetto potente delle relazioni di amicizia mi viene da pensare che alla lunga l’unica soluzione sostenibile è questa. Avere sempre più amici rifugiati. E quando dico amici, intendo persone legate a noi da un rapporto di reciprocità. Non persone che aiutiamo (o pensiamo di aiutare) e basta. C’è differenza.

Qualche settimana fa ho intervistato, a Parma, una studentessa universitaria di 20 anni coinvolta in un bellissimo progetto che abbina un rifugiato a qualcuno della comunità locale (singoli, famiglie, gruppi) che gli possa fare da “buddy”, da compagno di strada, per facilitare il suo inserimento sociale in Italia. Lei raccontava che un giorno, durante una telefonata con il ragazzo rifugiato a lei abbinato, le era scappato uno sfogo su quanto fosse stressata dallo studio e dalle scadenze degli esami. “Io avevo sempre cercato di non buttargli addosso i miei problemi, visto che lui ne ha già molti. Ma in quell’occasione mi è stato di grandissimo conforto e incoraggiamento. Allora mi sono resa conto che se voglio che il nostro rapporto sia alla pari e veramente reciproco, anche io devo aprirmi e mostrarmi vulnerabile. Quel giorno ha segnato una grande crescita nel nostro rapporto”.

Molte donne ucraine hanno visto vulnerabili noi e i nostri cari e questo ha cementato relazioni di affetto sincero, che rendono ora molti capaci di slanci veri e che saranno probabilmente anche duraturi. Altra cosa, certo, sono gli slanci sollecitati solo dal momento mediatico, dall’entusiasmo che non affonda in nulla di reale, dalla tentazione di vestire i panni del buon salvatore di bimbi biondi o di donne afgane oppresse. Quel moto, pur in buona fede, dobbiamo imparare a riconoscerlo in noi e a addomesticarlo, indirizzandolo in canali alternativi (donazioni, approfondimento, impegno graduale e sostenibile nel tempo che ci consenta di capire davvero cosa ci corrisponde). Perché preso alla lettera non fa bene a nessuno: né a noi, né a chi vogliamo sostenere, né a chi dovrà continuare a farlo quando noi ci saremo resi conto di aver fatto il passo più lungo della gamba.

Voci nella testa


I progetti sono croce e delizia di chi lavora nel sociale in genere, e mia in particolare. Sono a volte opportunità uniche di fare le cose in modo diverso, di incontrare persone interessanti, di essere più o meno costretti a pensare al di là dell’attività quotidiana. Sono anche, spesso, lavoro inutile, burocratico, a tratti troppo teorico, che non cambia davvero le cose, che non riesce a toccare la sostanza. Per non parlare della frustrazione del fatto che i progetti tipicamente finiscono esattamente quando servirebbe che funzionassero, magari proprio nel momento in cui finalmente iniziano a ingranare.

Da molti anni ormai i progetti sono una parte molto rilevante del mio lavoro: pensarli, scriverli, negoziarli, farli funzionare, raccontarli. Ci sono momenti in cui non li amo, ma in generale ne subisco il fascino. Due o tre poi sono rimasti davvero nel mio cuore, fino ad oggi, insieme alle persone che li hanno condivisi con me.

La prossima settimana ci sarà la conferenza finale di un progetto che ho seguito fin da quando ho iniziato a lavorare all’IPRS, un anno e mezzo fa. Un progetto dedicato alla salute mentale dei migranti forzati e a come tutelarla e promuoverla nei sistemi di accoglienza. Posso dire che è stato un successo almeno per quanto riguarda il contributo che ha dato alla mia salute mentale. Non ho più molte occasioni, negli ultimi anni, di fare conversazioni significative con delle persone rifugiate. E’ un peccato e un grande impoverimento. Per Psychcare posso dire davvero di aver preso la palla al balzo per parlare con più persone possibili (qualcosa vi ho già raccontato: qui, qui, qui, qui e qui) e per ricordare, in primis a me stessa, a cosa dovrebbero servire i nostri report. A cambiare le cose.

Oggi voglio condividere con voi una storia che mi ha raccontato un uomo gambiano, nella sede di un’associazione di volontariato davanti alla Stazione di Roma Termini. Avrei voluto inserirla nella pubblicazione finale, ma non avendo potuto farlo la scrivo qui. Per non dimenticarla, in tutta la sua durezza. (I lettori più attenti ricorderanno che ne avevo già parlato, per accenni: ma oggi ve la voglio far leggere tutta).

Sono arrivato a Lampedusa nel 2007. Mi hanno trasferito a Milano e lì sono stato ospite di almeno 4 diversi centri di accoglienza, per un periodo complessivo di quasi 4 anni. Il diniego della Commissione Territoriale mi è arrivato nel 2010. Secondo me la Commissione non mi ha capito, l’interprete non parlava esattamente la mia lingua. In ogni caso, non mi hanno creduto. Quando è arrivato il diniego, mi sono sentito tradito. Tradito da questo Paese. Al centro mi avevano detto che dovevo andare a scuola, seguire corsi, rispettare le regole. Io l’ho sempre fatto, sono una brava persona. Volevo fare le cose per bene. Sono andato a fare corsi persino a Bologna, avevo tutte le carte in regola. Giocavo a calcio. Poi però non mi hanno lasciato nessuna possibilità, tutte le strade per me erano chiuse perché non mi hanno creduto.

Mi sono spostato a Roma e ho provato a presentare un’altra domanda d’asilo. Ma in Questura ho trovato soltanto problemi. Credo di esserci andato almeno 32 volte. Mi hanno dato un permesso di soggiorno provvisorio di sei mesi, ma alla fine non mi hanno mai convocato in commissione. Un’altra possibilità non hanno voluto darmela. Allora tra il 2015 e il 2018 me ne sono andato a Foggia. Non solo a Foggia: anche a Rosarno, a Castel Volturno. Lavoravo nei campi, senza dare fastidio a nessuno. Mi pagavano pochissimo, ma almeno avevo qualche soldo sul cellulare per chiamare mia madre. Mio padre è morto quando ero piccolo, mia sorella è sposata e mia madre è rimasta sola. La vita a Foggia in particolare era molto dura. Tutti i pochi documenti che avevo li ho persi in uno dei tanti incendi. Mi sono rovinato la salute. A un certo punto tossivo sangue. Mi sono ferito in più punti
[nota dell’intervistatore: mostra varie cicatrici, sulle mani e sulle gambe]. Non ero più in grado di lavorare e allora un amico mi ha consigliato di tornare a Roma per curarmi.

Sono tornato in città lo scorso dicembre. Da allora le cose vanno peggio che mai. Dormo alla stazione Tiburtina. I medici del San Gallicano mi seguono, mi hanno mandato in diversi ospedali per fare analisi, radiografie…
[nota dell’intervistatore: mostra pacchi di radiografie, ecografie, analisi, ricette mediche…]. Ora dicono che mi devo operare, ma io non voglio. Non ho un posto dove dormire, non ho documenti… Come dovrei fare? Qui alla Casa dei diritti Sociali mi hanno comprato questo zainetto, così mi posso portare sempre dietro le medicine e i documenti. L’avvocato dice che per me l’unica possibilità è avere un permesso di soggiorno per cure mediche, ma mi hanno spiegato che anche se me lo dessero con quello non potrei lavorare. Quindi la mia situazione non si risolverebbe.

Sono qui da 12 anni e non ho fatto niente. Gli amici mi dicono di andare in Spagna, o in Germania. Conosco alcuni che lavorano lì in agricoltura anche per 7, 8 o persino 10 euro all’ora. Ma come faccio senza documenti? Per giunta il problema in Questura ormai non si può più risolvere. L’ultima volta mi hanno detto che se torno lì ancora una volta mi arrestano. Vedi? C’è scritto qui
[nota dell’intervistatore: mostra un tagliandino tagliato a metà, in cui in effetti non c’è scritto nulla del genere]. Perché? Perché mi hanno fermato due, anzi tre volte a Piazza Vittorio. I poliziotti sono così, vedono un gruppo di africani, magari uno fuma, ha qualche grammo di hashish, e loro arrestano tutti. Io non fumo, non bevo. Ma importa qualcosa a qualcuno? Che conta? A loro basta che non mi faccia vedere. A Foggia, in campagna, non davo fastidio a nessuno. Se non mi ammalavo restavo lì.

Tra l’altro da quando sono tornato a Roma non ho soldi. Non ho più potuto parlare con mia madre e lei qualche giorno fa è morta. Dopo la fine del Ramadan [inizio di giugno] non l’ho più sentita e lei adesso è morta. Che ci vuoi fare, Dio ha voluto così.
Come sono andato avanti in Italia tutto questo tempo? Posso dire che qui in Italia non mi ha aiutato nessuno. Ci sono solo io, vado avanti solo con le mie forze. Molte persone italiane sono brave, c’è chi mi aiuta senza volere niente in cambio. Ma il governo è contro di me, contro di noi. Si parla di diritti, ma quali diritti? I diritti umani non li vedo. Non è colpa mia se non hanno voluto credermi. Non è colpa mia se non mi danno nessuna possibilità.

Tre madri 2. Quella integrata suo malgrado


Parla a voce bassa, chiede di fare l’intervista in italiano perché esercitarsi nella lingua è importante, ma poi qualche parola in francese scappa. Ma pare un vezzo più che un’insufficienza.

La fuga di A. è cominciata molti anni fa, in Libia. Non ha varcato nessun confine, allora. Ha preso i due bambini ed è fuggita da un marito violento. Straniera anche lei, non poteva tornare in patria perché non avrebbe mai potuto viaggiare con i bambini senza il consenso del padre. E comunque quei figli nati in Libia sarebbero rimasti dei fantasmi in Algeria.

Certe volte le alternative non esistono. Per quanto possa sembrare difficile e impercorribile, la strada è una. Quella di A. consisteva nel mimetizzarsi in una grande città (“È stato allora che ho iniziato a mettere il velo: lo facevano le altre e io non volevo creare problemi. Tanto meno distinguermi o attirare l’attenzione”). Trova un buon lavoro e riesce nell’intento: farcela da sola e mandare i figli a scuola. A. vive in apnea. Fino a quando la guerra diventa pericolosa e sempre più vicina. Ragazzini dell’età dei suoi figli sono rapiti. È ora di saltare di nuovo verso l’ignoto.

A. del mare parla il minimo indispensabile. “Io sapevo nuotare, ma i bambini no”. Basta questa frase per immaginare l’angoscia di quelle ore.

La prima accoglienza è abbastanza deludente. A. si ritrova in un centro affollato e promiscuo, dove episodi di violenza e risse sono all’ordine del giorno. “Ho pensato che era stato tutto inutile. Ho tentato questa strada perché volevo preservare i ragazzi dalla violenza, anche quella solo vista. Se fin da piccoli ci si abitua, poi non si torna indietro”.

Poi però con il trasferimento in un centro SPRAR cambia tutto . I ragazzi vanno a scuola e in pochi mesi diventano parte della comunità. A. mostra con orgoglio foto di gruppo, squadre di calcio, foto di classe. ” Se qualcuno in paese fa qualcosa, i miei ragazzi sono lì”. Dai video anche la parlata è indistinguibile da quella dei coetanei.

Così A. ha abbandonato l’ultimo progetto: proseguire il viaggio verso la Francia. “I miei figli sono italiani ora. Per me sarebbe più facile: per la lingua, per il fatto che a Tripoli lavoravo all’École française ed era un ottimo lavoro… Ma quando si diventa madri il primo posto tocca ai figli. E la loro casa è qui”.

Si aggiusta il velo, grigio scuro a righe chiare sottili. Sorride. Non ha perso l’abitudine a coprirsi i capelli. Lo trova conveniente: “Almeno è subito chiaro a tutti quali sono le mie priorità. Non riesco neanche più a curarmeli, tra l’altro”.

Non posso fare a meno di vedere in A. un pezzetto della mia esperienza, gli anni in cui per me non c’era tempo né spazio, neanche nella mia testa. Domani parto per le vacanze da sola. A. forse, nel paesino della Campania dove abita, potrebbe aver trovato un lavoro Aveva un colloquio in questi giorni. Intanto insegna ai suoi figli a fare le torte e a decorarle. Li aiuterà certamente a far colpo alla prossima sagra. Come tutti gli anni, infatti, daranno una mano per le bancarelle. Guardo un altro selfie scattato da due ragazzoni a torso nudo abbracciati ai compagni di squadra. Sorriso aperto, occhi fieri. La bella gioventù di Fisciano.

Ventotto


Dei sei ragazzi seduti intorno al tavolino di un caffè accanto al palazzo del Comune di Agrigento, A. sembra il più giovane e anche il più indistinguibile per vestiario e discorsi dai suoi coetanei italiani. Sorride, aiuta gli amici a partecipare alla discussione traducendo qua e là. Man mano che si va avanti però l’argomento lo tocca maggiormente e passiamo dalla conversazione di circostanza al racconto, doloroso.

A. è arrivato dalla Nigeria da minorenne. “Non me ne sono mai andato da qui. Tanti hanno cercato fortuna a nord, all’estero… Io no. Ho seguito i consigli che mi davano. Mi sono impegnato”. Parla bene italiano. Ha preso la licenza media. Ha frequentato due anni di istituto turistico. Ne parla con orgoglio, ricordando sempre il nome completo dell’istituto. “Con i miei compagni mi trovavo bene. Qualche volta ci sentiamo ancora”. Gli è dispiaciuto di doverla lasciare, due anni fa, quella scuola, proprio quando poteva scegliere l’indirizzo. Ma la divisa costava, i libri pure e lui nel frattempo era uscito dalla comunità di accoglienza e aveva altre preoccupazioni più urgenti. Mantenersi, prima di tutto. Lo ha sempre fatto, lavorando in campagna, imparando a guidare il muletto e dandosi da fare. Anche ora lavora, in nero. Perché nel frattempo è arrivato il diniego della domanda di asilo. Il ricorso va per le lunghe e il permesso di soggiorno (il maledetto permesso di soggiorno, come lo chiamano in coro i suoi amici) è scaduto.

“I pensieri continuano ad andare lì. Certe volte mi sorprendo a parlare da solo”. Sorride un po’ esitante. Lo incoraggio. E cosa fai per sentirti meglio? “Cerco di restare concentrato. Ho trovato su internet delle frasi che mi aiutano. Vuoi vedere?”. Mi allunga il telefono aperto su delle schermate di meme motivazionali.

E poi gioca a calcio. Qui lo sguardo si riaccende, in un misto di orgoglio agrodolce. Mi racconta del mister che ha creduto in lui e delle partite in una squadra locale. Mi fa vedere un articolo di giornale di un po’ più di un anno fa che parla di lui, il goleador arrivato sul barcone. “Quell’anno sono stato capocannoniere, con 28 reti segnate. Il secondo, italiano, ne ha fatte 18”. Sul telefono scorre altre foto, di lui in divisa, in campo, abbracciato ai compagni di squadra. Io non riesco a smettere di pensare quanto sia crudele e insensato distruggere tutto questo per mera burocrazia.

Sospira, A., che non chiederebbe altro che poter finire gli studi, lavorare nel turismo di questa terra che ha imparato ad amare nonostante la sua asprezza, giocare a calcio con i colori del mister Peppe. Giusto la sera prima una professionista locale mi raccontava come il luogo sia adattissimo ai bambini e ai pensionati, ma un inferno di solitudine e fatica per i giovani. Questi giovani, A. come gli altri suoi amici, qui vorrebbero restare. Hanno fatto amicizia con i loro vicini, hanno rispetto per il luogo dove vivono e vorrebbero uguale rispetto e dignità. “Un ragazzo semplice e rispettoso delle nostre regole”: così il giornalista ha definito A. un anno fa. Gli faceva gli auguri. Glieli faccio anche io, augurandomi che non lo lasciamo solo e che il mio Paese smetta di far morire la gente non solo in mare, ma anche giorno dopo giorno dietro l’angolo delle nostre case.

Dodici anni


Dodici anni fa è nata mia figlia. Dodici anni fa, nel 2007, forse d’estate ma non ne sono sicura, F. è arrivato a Lampedusa. Uno studente universitario gambiano che cercava in Europa, come tanti suoi coetanei, democrazia e libertà. E, come molti suoi coetanei, vedeva questo perfettamente compatibile con una gran voglia di darsi da fare, di combinare qualcosa nella vita e anche di dare una mano alla sua mamma, vedova, rimasta in patria.

In questi dodici anni mia figlia è diventata la bella ragazza che qualcuno di voi conosce, grazie alle molte possibilità che ha avuto e avrà (che sono molte, anche se costantemente ho il timore che non siano abbastanza, perché per i nostri figli, come forse è naturale, quasi niente ci pare abbastanza). F. ha passato quasi 4 anni tra vari centri di accoglienza a Milano e dintorni. Ha seguito corsi, di lingua e poi professionali. Ha iniziato a giocare a calcio in una squadra.

“Ho seguito tutte le regole, sempre. Sono una brava persona”, mi ripete più volte mentre parliamo. Oggi è stanco, deluso, confuso. Più di ogni altra cosa si sente tradito. Quel diniego alla domanda d’asilo, confermato dopo il ricorso, F. ancora oggi non se lo spiega. “Mi sono detto tante volte che probabilmente non hanno capito. Magari l’interprete non traduceva bene. In Africa ci sono tante lingue”. Mi sono chiesta tante volte, nei giorni che sono seguiti a questa conversazione, se F. non sia arrivato troppo presto, prima che le commissioni prendessero consapevolezza della situazione in Gambia. Ma purtroppo la cosa non ha più importanza.

Ricevuto il diniego, F. va a Roma. Gli consigliano di riprovare a chiedere asilo. “36 volte sono andato in Questura”. La Questura di Roma per F. è un incubo, ancora oggi. Ricordi di allora si mischiano con ricordi più attuali. “Se torno lì mi arrestano. Vedi? C’è scritto qui”. Sul tagliandino strappato che mi porge in realtà non c’è scritto nulla del genere. Magari era un altro cedolino. Anche questo non cambia granché le cose.

A Roma non verrà mai riconvocato in commissione. F. allora ci rinuncia e si rimbocca le maniche. Va a sud, a lavorare nei campi. Rosarno, Castel Volturno, Foggia. Gli anni passano. Pochi euro al giorno, condizioni di vita durissime. “Foggia è il posto peggiore. Ogni tanto c’era un incendio e tutto bruciava”. Ma ci resta, F., a Foggia. Si spacca la schiena, manda qualche soldo a casa. “Non rompevo i coglioni a nessuno. Nessuno sapeva che esistevo”.

Solo che a un certo punto il fisico non regge più. Inizia a tossire sangue, non sta più in piedi. Gli amici gli consigliano di tornare a Roma a curarsi. Da dicembre F. dorme alla stazione Tiburtina. Lo curano, mi mostra pacchi di referti e uno zainetto che trabocca di medicine. Ma dorme per strada e non ha più un soldo. Con sua mamma, negli ultimi tempi prima che morisse, non è riuscito neanche a parlare al telefono. Non aveva più credito telefonico. Lo zainetto, come tutto il resto, glielo hanno comprato i volontari che lo aiutano.

Più di tutto, a F. brucia di non vedere futuro. “Dicono che devo fare un’operazione, ma ho detto di no. Che senso ha restare qui? Magari me ne vado in Spagna. O in Germania. Vediamo”. Guarda nel vuoto. Ci salutiamo. Non posso smettere di pensare a che spreco immenso si sia consumato in questi dodici anni. Questo e tanti altri. Tantissimi. Ma il numero non rende la cosa meno grave. E io non riesco a smettere di pensarci.

Uguali


“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Se leggiamo questa frase così, in automatico, specialmente in questi giorni di commemorazioni, immagino che nessuno abbia obiezioni sostanziali. 

Credo che sappiamo tutti, però, che non è così. Non tutti gli esseri umani nascono liberi e tanto meno uguali in dignità e diritti. Certe volte, in questi giorni (non più tardi di ieri sera) mi sono chiesta se davvero vorremmo essere uguali agli altri. Perché alla fine nascere privilegiati in sostanza è proprio questo: avere molto di più degli altri, indiscutibilmente. Io credo che quando parliamo di diritti umani, con le migliori intenzioni, fondamentalmente intendiamo che gli altri, tutti gli altri, dovrebbero aver diritto (idealmente) a un minimo, posto che noi evidentemente abbiamo assai di più.

In Italia negli ultimi 13 mesi sono nati due bambini. Una, che chiameremo Maryam, è nata in Sicilia, poco dopo che la sua mamma, Hope, è stata soccorsa nel Mediterraneo. Il suo fratellino invece è nato a Roma, di 30 settimane, alcuni giorni fa. E’ ancora in terapia intensiva neonatale.

Su questo blog ho incontrato e fatto amicizia con tante madri, anche con qualcuna che ha avuto l’esperienza di una nascita prima del termine, delle ansie e delle oggettive difficoltà che ne derivano. Però nessuna di quelle mamme, incinta di sette mesi, si è sentita dire che doveva passare la notte per strada, per giunta con una bambina di 13 mesi. Nessuna ha visto il padre dei suoi figli dormire lui per strada, per mesi, perché il sistema di accoglienza, che infine li ha espulsi e basta, considera una pretesa eccessiva che due genitori vivano insieme, con i loro bambini piccoli. 

Maryam a 13 mesi probabilmente non ha avuto un’esperienza paragonabile a quella di mia figlia alla stessa età. Sua madre non ha avuto un’esperienza lontanamente paragonabile a quella mia o delle mie amiche che hanno avuto figli. Anche soprassedendo sulla sua esperienza precedente e soffermandosi solo sulla maternità, credo di poterlo affermare con certezza. Io e Hope non siamo uguali in dignità e diritti.

Immagino come commentereste qui se vi raccontassi che mia figlia, a 13 mesi, è stata buttata in mezzo a una strada una notte che aveva la febbre. Se vi dicessi che gli assistenti sociali mi hanno detto che purtroppo anche se alcuni posti ci sono, io non rientro più tra quelli che possono accedervi.  Delle regole debbono pur esserci e su queste la maggior parte degli italiani sono d’accordo.

Hope ha un permesso di soggiorno valido e così suo marito, ma questo non dovrebbe neppure essere necessario precisarlo. Se pure non lo avesse, questo non toglierebbe alcunché alla sua natura di essere umano. Come pure non dovrebbe essere rilevante dire la nazionalità di Hope, la sua religione, il colore della sua pelle. Non dovrebbe essere rilevante se nella sua vita ha commesso reati (non ne ha commessi), se ha pagato o meno le tasse dovute (le ha pagate).

Tutti gli esseri umani vuol dire tutti. Io mi chiedo davvero se ci rendiamo conto del significato letterale di quella frase.

Il nostro Parlamento ha votato una nuova legge che rende le persone un po’ meno uguali, certamente in diritti e sicuramente anche in dignità. Una legge che rivela una visione del mondo che divide con enfasi in vincenti e perdenti, in cui la paura di cadere tra i perdenti rende molti di noi sempre più meschini e cinici. Così perdiamo quasi tutti e finiamo per affocare nel mare di bugie pietose che ci raccontiamo tutte le mattine.

Ho sempre creduto che la dignità degli altri sia il fondamento della mia libertà
Melania Mazzucco, Io sono con te

Divagazione (apparente)


Una donna di origine somala è cittadina di un Paese europeo. Non è stato facile, ma ha una casa, un lavoro e un passaporto. La sua vita, non da ieri, è lì. Questa storia inizia da quello che sembra un lieto fine.

E non continua neanche così male. Incontra un uomo, che ha la sua stessa origine, ed è arrivato da poco nel Paese dove lei è ormai di casa. Condividono molte cose di un passato che si sono lasciati entrambi alle spalle. Si intendono. Lui è stato riconosciuto rifugiato da un altro Paese europeo, diverso da quello in cui si incontrano. Si innamorano. Si sposano. Hanno tre bambini. La loro vita procede normalmente, con le difficoltà e le gioie di una famiglia comune.

A un certo punto però sorge un intoppo. Il governo del Paese in cui vivono si accorge che lui è rifugiato sì, ma altrove. Si è sposato, certo. Ha tre bambini piccoli. Ma questo non cambia la sostanza dei fatti. Se ne deve andare. “Tornare” in un Paese dove non ha nulla se non un pezzo di carta. Non vuole separarsi dalla sua famiglia? Benissimo, questo è comprensibile. Ci mancherebbe. Ma che problema c’è? La signora è cittadina di un grande e rispettabile Paese europeo, così come i bambini. Hanno i loro passaporti. Possono andarsene tutti insieme, se tanto si amano. E buona fortuna a tutti.

Intanto, a una manciata di chilometri di distanza, si ripropone una situazione simile, a parti invertite. Lei, la moglie, ha partorito da poco. La bambina ha tre mesi appena. Il padre, suo marito, è cittadino del Paese in cui vivono. Lei “solo” rifugiata, riconosciuta da un altro Paese europeo. Anche in questo caso, il governo è chiaro: tanti auguri per la bimba, che è cittadina anche lei. Ma la madre deve andarsene. A lei la scelta. O il resto della famiglia lascia tutto e se ne va con lei in cerca di fortuna, oppure lei può lasciare la bimba al padre (si sa, crescere con un solo genitore è una cosa che capita sempre più spesso, ci fanno anche tante toccanti pubblicità) e andarsene.

Perché vi racconto questi due episodi, purtroppo assolutamente veri e ancora non risolti? Per farvi capire che da tempo, nella nostra Europa, è passato il concetto che non tutti i cittadini sono uguali, neppure quando hanno i pezzi di carta che li dichiarano tali. Neppure se intendiamo la parola cittadinanza in quel senso angusto e meschino di tessera di un club esclusivo. Perché ad alcuni quella tessera può essere ritirata, nella forma (come prevede in decreto Salvini, in alcuni specifici casi) o nella sostanza, come avviene ahimè tutti i giorni nel nostro Paese e anche in Paesi “più civili” del nostro. Provate a immaginare di essere nei panni dei genitori di cui vi ho parlato prima e che lo Stato di cui siete cittadini metta voi davanti alle opzioni descritte. Non credo che questo possa accadere, vero? Credo che la cosa farebbe notizia sui giornali. Ma a noi non può accadere, giusto? Perché noi siamo cittadini “veri”. (Sicuri? No, perché io ovviamente non credo di poter dire in tutta onestà che a me non potrebbe succedere, anche se il padre di Meryem è da due anni cittadino italiano).

Ciò detto il decreto legge che è stato approvato lunedì al Consiglio dei Ministri è terribile. Cambierà le cose drasticamente in peggio per moltissimi di noi. E quando dico “noi” non intendo una specifica categoria professionale o sociale. Intendo proprio noi, persone normali, mediamente oneste, che vivono con più o meno fatica in questo Paese.

Informatevi, in primo luogo spegnendo la televisione e disintossicandovi dai dibattiti. Poi cominciate a leggere cose sensate, iniziando da qui.

In trappola


Le notizie che si susseguono in queste ore hanno spazzato via ogni mia velleità di scrivere dei post sul viaggio in Spagna o su alcune altre cose che avrei voglia di condividere con voi. Sono talmente spiazzata che non riesco a commentare le recenti evoluzioni delle politiche su migrazione e asilo (possiamo chiamarle così?) neppure a voce, con gli amici più cari.

Eppure, anche sospendendo i commenti perché il groppo di rabbia, frustrazione e preoccupazione è troppo grande per essere dipanato in un tempo e in uno spazio ragionevoli, mi sento in dovere di fissare qui qualche informazione attendibile sui fatti di cui tanto si dibatte. Perché il dramma è proprio questo: la mistificazione ha raggiunto livelli tali che ormai nessuno ha più elementi per capire che succede. E’ sempre stato così? No, almeno non a questi livelli.

Scelgo a casaccio, in ordine sparso, un numero ragionevole di cose da scrivere. Se avete dubbi o domande fatemele, sono qui per dare chiarimenti.

  1. Il trattenimento di persone per giorni e giorni a bordo di una nave della Guardia Costiera è una misura legittima, o quantomeno giustificabile per ottenere interessamento e attenzione dagli altri Stati europei? No. Mille volte no. Anche a prescindere da chi erano quelle persone. E poi non prescindiamone: abbiamo bloccato per giorni delle donne che avevano subito violenza a stretto contatto con alcuni (gli ultimi) dei loro violentatori – che hanno denunciato allo sbarco, dimostrando una forza che stento persino a immaginare.
  2. Queste persone “affidate alla CEI” avevano l’obbligo di restare nel luogo in cui erano state destinate? Qualcuno aveva il dovere di sorvegliarle? No e no. Dei migranti sono sbarcati in Italia, hanno espresso la volontà di chiedere protezione, sono stati fotosegnalati. Hanno diritto, se non dispongono di altri mezzi, all’accoglienza per la durata della loro proceduta d’asilo. Lo Stato italiano ha arbitrariamente deciso che non voleva assumersi tale obbligo per questo gruppo di persone ed ha quindi stipulato un accordo con dei privati (i vescovi italiani) affinché provvedessero ad alleggerire lo Stato da questo onere. Ottenuto questo vantaggio meramente economico tenendo in ostaggio le persone di cui sopra, queste ultime hanno deciso di non avvalersi delle misure di accoglienza offerte. Come migliaia di altri migranti forzati prima di loro, specialmente eritrei. L’abbandono volontario della struttura di accoglienza non è un reato. Semmai è un impedimento per accedere alla procedura d’asilo, in Italia e altrove. Ma certamente non giustifica che queste persone vengano ricercate dalla Digos in giro per l’Italia.
  3. Il fatto che le persone ambiscano a spostarsi verso una grande città, oppure a lasciare l’Italia è la dimostrazione che non sono rifugiati? No, mille volte no. Sono stati fatti programmi europei per distribuire nei vari Stati gli eritrei proprio perché evidentemente bisognosi di protezione internazionale. Per essere rifugiati è necessario essere privi di volontà? E’ necessario ambire ad essere trattati come merci? E’ necessario essere passivi? Il fatto che questo accada da oltre dieci anni con assoluta sistematicità dimostra solo che la procedura che l’Unione Europea prevede è inefficace, insensata e inadeguata. Ci sono serissimi report in merito, redatti dalla stessa Commissione europea. Sul Regolamento di Dublino e sulla sua riforma ci sarebbe moltissimo da dire, ma non divaghiamo. Se una persona in fuga ambisce a raggiungere la sua famiglia o i suoi connazionali che già vivono in uno specifico Paese, questo non implica che è un impostore, che la guerra da cui fugge non esiste, che le persecuzioni di cui non di rado porta i segni evidenti addosso sono una bugia. Non mi pare difficile da capire. Se le regole europee non gli/le consentono di farlo in nessun caso magari dovremmo farci qualche domanda.
  4. Incitare le commissioni che esaminano le domande di asilo ad abbassare i numeri delle risposte positive a prescindere dalle persone che presentano domanda e della loro storia è gravemente inappropriato di per sé. Ma quando più persone, a torto o a ragione, ricevono un diniego, questo li trasforma in pericolosi clandestini? Ancora una volta no. Questo li mette, a causa della legge sull’immigrazione che abbiamo, praticamente per sempre nella condizione di non avere documenti. Quindi di lavorare in nero, di non pagare tasse, di essere sfruttati, di vivere in un giro di illegalità. Ma se da richiedenti asilo erano giornalisti perseguitati, donne che fuggono alla violenza estrema, contadini lasciati senza terra e senza diritti…. non diventano feroci criminali da un giorno all’altro. Certamente saranno più disperati, finiranno per strada, si troveranno con tutte le strade chiuse. Con tutto quello che questo comporta. Pensateci, possibilmente mettendovi nei panni di uno che ha perso tutto.

Mi fermo qui. Del nuovo decreto in preparazione preferisco non parlare ancora. Vi spiego però il titolo di questo post, citando un rifugiato maliano che ieri ho avuto la fortuna di ascoltare: “Italiani e migranti, veniamo tutti spinti sempre più verso i margini della società da una minoranza di privilegiati. Potremmo renderci conto che il nostro problema è lo stesso e darci la mano per rialzarci. Invece ci sbraniamo tra noi, non riusciamo da uscire da questa trappola in cui ci hanno fatto cadere”.

Link di letture attendibili per chi vuole portarsi avanti sul resto
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/stop-alla-protezione-umanitaria-arriva-la-scure-del-decreto-salvini
http://www.vita.it/it/article/2018/09/06/stop-fondi-sprar-salvini-non-blocchi-un-modello-daccoglienza-che-leuro/148932/
https://www.avvenire.it/amp/opinioni/pagine/ascoltiamo-chi-bussa-nella-nostra-notte?__twitter_impression=true

Come lo spiegherei a mia figlia


Con mia figlia Meryem, specialmente durante il nostro ultimo e felice viaggio in Spagna, riesco ormai a parlare di tutto. Certo, molte cose serve che gliele spieghi, ma lei ancora è abbastanza convinta che io abbia qualcosa da spiegarle. Il tutto per dirvi che non solo avrei voglia, ma mi sentirei anche in dovere di raccontare perché tutta questa storia della nave Diciotti e delle “soluzioni” che pare si stiano definendo mi pare surreale, ogni giorno di più. Ma l’esperienza mi insegna che non si può abusare dell’attenzione altrui, di questi tempi. Dunque tralasciamo tutti i perché e i percome, tralasciamo la normativa italiana e quella europea, tralasciamo pure le migrazioni. Ne ho parlato già tante volte, su questo blog, e tante altre volte ne parlerò. Limitiamoci all’essenziale.

  1. Non mi venite a chiedere le statistiche, vi prego, per giudicare se e quanto fosse giustificabile tenere 170 persone in ostaggio su una nave della Guardia Costiera. Non era giustificabile in ogni caso. Poi sì, possiamo aggiungere molti numeri verissimi che smentiscono le assurdità che i politici blaterano non da ieri, ma dal 2015 almeno. Ma l’esperienza mi insegna, ahimè, che ormai i numeri non servono quasi a nulla. Ciascuno se li capovolge come gli pare.
  2. Ma erano clandestini o rifugiati? Altra domanda irrilevante, se posta in questi termini. Se proprio non siamo disposti a pensare che i passeggeri della Diciotti siano persone come noi (e intendo proprio come noi, che ci aspettiamo giustamente assistenza e empatia anche dal personale della compagnia aerea se il nostro volo delle vacanze tarda più di due ore, specialmente se viaggiamo con dei bambini o con dei malati), almeno non facciamo i giuristi a metà. Chi arriva sul territorio italiano e desidera chiedere protezione può farlo. Sta poi allo Stato, con le sue procedure, accertare se sussiste il diritto ad averla. Ma per tutto il tempo che serve lo Stato ha l’obbligo di accogliere le persone, a prescindere da come la pensa il Ministro di turno o da cosa esige la sua campagna elettorale.
  3. Eh, ma la politica europea non funziona, è ingiusta. C’è chi lo sostiene da decenni e cerca di chiedere dei cambiamenti. Si può fare, è persino doveroso. Di più. E’ uno scandalo che non si sia già fatto. Ma intendiamoci: se il cambiamento significasse fregarsene tutti insieme delle convenzioni internazionali, della nostra storia e cultura giuridica di italiani e di europei, nonché delle regole democratiche in generale, non mi pare un progresso per nessuno.
  4. E qui veniamo al punto più importante. Davvero ho sentito un cittadino italiano (nonché ministro della Repubblica) sostenere che il “consenso”, comunque misurato, lo esime dall’osservare le leggi? Ecco, facciamo che ho sentito male (e continuo a sentire male ogni volta che riascolto il video). Perché questo in effetti è più grave e allarmante di tutto il resto. Il perché anche Meryem lo capisce da sola: sarebbe la fine di qualunque tutela per chiunque non sia perfettamente parte della “maggioranza”.

    Quando la maggioranza sostiene di avere sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia. Umberto Eco

P.S. E come dovrebbe reagire, questa minoranza, esattamente? Buona domanda, me la sto facendo anche io, sempre più insistentemente. Ma di questo ne riparliamo in un’altra occasione. Se avete idee e suggerimenti però scriveteli. Lo apprezzerei.