Parare i colpi


Mala tempora currunt. E non accennano minimamente a migliorare. Bersagliati da notizie funeste da ogni parte, io e la mia bolla di amici ci barcameniamo tra la tentazione di imporci di fare gli struzzi e quella di rintanarci nel nostro piccolo privato (il che ovviamente vale per quei pochi che, per dirla con De André, “hanno una donna e qualcosa”: in caso contrario, il piccolo privato rischia di essere più angoscioso dello scenario globale).

L’ennesimo femminicidio nei giorni scorsi ha dato il via a una serie di commenti sui social e in parte anche fuori dai social che, se possibile, mi hanno ulteriormente intristito. Stamattina la mia amica Valentina ha espresso molto bene quella che era anche la mia perplessità: ma siamo davvero così sicuri di poter dare la responsabilità di un delitto commesso da un giovane di 22 anni ai suoi genitori? Io da parte mia non faccio che constatare che, per quanto mi adoperi, la maggior parte delle cose, incluse quelle che riguardano mia figlia, sfuggono fatalmente al mio controllo. E magari è meglio, perché onestamente non credo di essere proprio la persona più adatta a determinare le sorti dell’universo.

Mi sento di dire che da genitore mi pare ovvio mettercela tutta, investire tutto il mio cuore, tutta la mia anima e tutta la mia mente, e in adolescenza questo qualche volta può implicare perdere il proprio equilibrio e la propria sanità mentale, eppure essere disposti a ricominciare il giorno dopo. Eppure, pur facendolo, sono piú gli errori che le cose ben fatte e, soprattutto, questo non ci dà nessuna garanzia né tanto meno potere. Io ho esposto mia figlia almeno in un paio di occasioni, a meno di 15 anni, al rischio molto concreto di subire violenza. È andata bene, ma poteva andare male, malissimo. Certe volte la cosa mi tiene sveglia la notte ancora oggi, ma non so se in futuro valuterei diversamente.

Questo discorso però mi ha portato anche a farne un altro, leggermente diverso, con una collega. Notavamo, intorno a noi, un livello di crescente disagio e sofferenza dei nostri coetanei, che permea ormai quasi tutti i rapporti interpersonali e li rende faticosi, dolorosi e a tratti impossibili del tutto. La collega sosteneva che, mediamente, gli uomini sono messi peggio delle donne. Ci ho pensato un attimo e istintivamente mi veniva da concordare. Non perché noi donne soffriamo di meno, anzi: ma mediamente, stringendo molto i denti, andiamo avanti e teniamo i pezzi insieme. Stamattina, per dire, mi sarei volentieri rintanata sotto il letto come fa la mia gatta quando le cose non le vanno a genio. Però non l’ho fatto. Perché?

Direi che, statisticamente, una donna italiana difficilmente se lo potrebbe permettere, perché banalmente ha (o avverte) su di sé la responsabilità di qualcun altro: figlio/a, genitore anziano, altro parente, marito/compagno che (poverino) deve essere supporato, persona o animale a caso bisognosa/o di cura. E così lo stesso carico (irragionevole, inappropriato e a volte francamente ingiusto) di cui ci carichiamo istintivamente, finisce per essere quello che ci protegge dall’abisso. Paradossale, magari. Ma sospetto che ci sia del vero.

Tre madri 3. Quella divisa a metà


B. è un’altra delle donne forti che incontro a Ottati. In carcere in Libia c’è stata con il marito e con due gemelli nati da poco. Ha lottato come una leonessa per arrivare qui e anche oggi non è disposta a cedere di un millimetro. Se c’è da andare a prendere per un orecchio il marito che tarda al bar, lo fa. Se c’è da affrontare una scalinata spingendo sotto il sole il passeggino gemellare, lo fa. Viso largo, sguardo duro.

Ma poi le chiedo se sente la famiglia in Ghana e le trema la voce. “Sì, sento mia madre, vedova e invalida. Con lei sta mia figlia, la più grande. Ha 13 anni. Ci pensa lei”. Ci guardiamo. Silenzio. Si affretta ad aggiungere che 11 anni fa, quando lei e il marito sono andati in Libia a cercare lavoro, non aveva idea che non sarebbero più riusciti a tornare indietro. Lei aveva due anni, il viaggio molto pericoloso. Sembrava ragionevole lasciarla alla nonna. “Se solo avessi immaginato, non l’avrei mai lasciata. Mai”.

Per B. il dolore più grande è quella ragazza diventata adulta troppo presto, che non la aspetta più e che per strada non la riconoscerebbe. Più della Libia, più delle violenze, più delle incertezze del futuro, quella figlia incolume ma perduta le pesa sul cuore.

Uguali


“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Se leggiamo questa frase così, in automatico, specialmente in questi giorni di commemorazioni, immagino che nessuno abbia obiezioni sostanziali. 

Credo che sappiamo tutti, però, che non è così. Non tutti gli esseri umani nascono liberi e tanto meno uguali in dignità e diritti. Certe volte, in questi giorni (non più tardi di ieri sera) mi sono chiesta se davvero vorremmo essere uguali agli altri. Perché alla fine nascere privilegiati in sostanza è proprio questo: avere molto di più degli altri, indiscutibilmente. Io credo che quando parliamo di diritti umani, con le migliori intenzioni, fondamentalmente intendiamo che gli altri, tutti gli altri, dovrebbero aver diritto (idealmente) a un minimo, posto che noi evidentemente abbiamo assai di più.

In Italia negli ultimi 13 mesi sono nati due bambini. Una, che chiameremo Maryam, è nata in Sicilia, poco dopo che la sua mamma, Hope, è stata soccorsa nel Mediterraneo. Il suo fratellino invece è nato a Roma, di 30 settimane, alcuni giorni fa. E’ ancora in terapia intensiva neonatale.

Su questo blog ho incontrato e fatto amicizia con tante madri, anche con qualcuna che ha avuto l’esperienza di una nascita prima del termine, delle ansie e delle oggettive difficoltà che ne derivano. Però nessuna di quelle mamme, incinta di sette mesi, si è sentita dire che doveva passare la notte per strada, per giunta con una bambina di 13 mesi. Nessuna ha visto il padre dei suoi figli dormire lui per strada, per mesi, perché il sistema di accoglienza, che infine li ha espulsi e basta, considera una pretesa eccessiva che due genitori vivano insieme, con i loro bambini piccoli. 

Maryam a 13 mesi probabilmente non ha avuto un’esperienza paragonabile a quella di mia figlia alla stessa età. Sua madre non ha avuto un’esperienza lontanamente paragonabile a quella mia o delle mie amiche che hanno avuto figli. Anche soprassedendo sulla sua esperienza precedente e soffermandosi solo sulla maternità, credo di poterlo affermare con certezza. Io e Hope non siamo uguali in dignità e diritti.

Immagino come commentereste qui se vi raccontassi che mia figlia, a 13 mesi, è stata buttata in mezzo a una strada una notte che aveva la febbre. Se vi dicessi che gli assistenti sociali mi hanno detto che purtroppo anche se alcuni posti ci sono, io non rientro più tra quelli che possono accedervi.  Delle regole debbono pur esserci e su queste la maggior parte degli italiani sono d’accordo.

Hope ha un permesso di soggiorno valido e così suo marito, ma questo non dovrebbe neppure essere necessario precisarlo. Se pure non lo avesse, questo non toglierebbe alcunché alla sua natura di essere umano. Come pure non dovrebbe essere rilevante dire la nazionalità di Hope, la sua religione, il colore della sua pelle. Non dovrebbe essere rilevante se nella sua vita ha commesso reati (non ne ha commessi), se ha pagato o meno le tasse dovute (le ha pagate).

Tutti gli esseri umani vuol dire tutti. Io mi chiedo davvero se ci rendiamo conto del significato letterale di quella frase.

Il nostro Parlamento ha votato una nuova legge che rende le persone un po’ meno uguali, certamente in diritti e sicuramente anche in dignità. Una legge che rivela una visione del mondo che divide con enfasi in vincenti e perdenti, in cui la paura di cadere tra i perdenti rende molti di noi sempre più meschini e cinici. Così perdiamo quasi tutti e finiamo per affocare nel mare di bugie pietose che ci raccontiamo tutte le mattine.

Ho sempre creduto che la dignità degli altri sia il fondamento della mia libertà
Melania Mazzucco, Io sono con te

Divagazione (apparente)


Una donna di origine somala è cittadina di un Paese europeo. Non è stato facile, ma ha una casa, un lavoro e un passaporto. La sua vita, non da ieri, è lì. Questa storia inizia da quello che sembra un lieto fine.

E non continua neanche così male. Incontra un uomo, che ha la sua stessa origine, ed è arrivato da poco nel Paese dove lei è ormai di casa. Condividono molte cose di un passato che si sono lasciati entrambi alle spalle. Si intendono. Lui è stato riconosciuto rifugiato da un altro Paese europeo, diverso da quello in cui si incontrano. Si innamorano. Si sposano. Hanno tre bambini. La loro vita procede normalmente, con le difficoltà e le gioie di una famiglia comune.

A un certo punto però sorge un intoppo. Il governo del Paese in cui vivono si accorge che lui è rifugiato sì, ma altrove. Si è sposato, certo. Ha tre bambini piccoli. Ma questo non cambia la sostanza dei fatti. Se ne deve andare. “Tornare” in un Paese dove non ha nulla se non un pezzo di carta. Non vuole separarsi dalla sua famiglia? Benissimo, questo è comprensibile. Ci mancherebbe. Ma che problema c’è? La signora è cittadina di un grande e rispettabile Paese europeo, così come i bambini. Hanno i loro passaporti. Possono andarsene tutti insieme, se tanto si amano. E buona fortuna a tutti.

Intanto, a una manciata di chilometri di distanza, si ripropone una situazione simile, a parti invertite. Lei, la moglie, ha partorito da poco. La bambina ha tre mesi appena. Il padre, suo marito, è cittadino del Paese in cui vivono. Lei “solo” rifugiata, riconosciuta da un altro Paese europeo. Anche in questo caso, il governo è chiaro: tanti auguri per la bimba, che è cittadina anche lei. Ma la madre deve andarsene. A lei la scelta. O il resto della famiglia lascia tutto e se ne va con lei in cerca di fortuna, oppure lei può lasciare la bimba al padre (si sa, crescere con un solo genitore è una cosa che capita sempre più spesso, ci fanno anche tante toccanti pubblicità) e andarsene.

Perché vi racconto questi due episodi, purtroppo assolutamente veri e ancora non risolti? Per farvi capire che da tempo, nella nostra Europa, è passato il concetto che non tutti i cittadini sono uguali, neppure quando hanno i pezzi di carta che li dichiarano tali. Neppure se intendiamo la parola cittadinanza in quel senso angusto e meschino di tessera di un club esclusivo. Perché ad alcuni quella tessera può essere ritirata, nella forma (come prevede in decreto Salvini, in alcuni specifici casi) o nella sostanza, come avviene ahimè tutti i giorni nel nostro Paese e anche in Paesi “più civili” del nostro. Provate a immaginare di essere nei panni dei genitori di cui vi ho parlato prima e che lo Stato di cui siete cittadini metta voi davanti alle opzioni descritte. Non credo che questo possa accadere, vero? Credo che la cosa farebbe notizia sui giornali. Ma a noi non può accadere, giusto? Perché noi siamo cittadini “veri”. (Sicuri? No, perché io ovviamente non credo di poter dire in tutta onestà che a me non potrebbe succedere, anche se il padre di Meryem è da due anni cittadino italiano).

Ciò detto il decreto legge che è stato approvato lunedì al Consiglio dei Ministri è terribile. Cambierà le cose drasticamente in peggio per moltissimi di noi. E quando dico “noi” non intendo una specifica categoria professionale o sociale. Intendo proprio noi, persone normali, mediamente oneste, che vivono con più o meno fatica in questo Paese.

Informatevi, in primo luogo spegnendo la televisione e disintossicandovi dai dibattiti. Poi cominciate a leggere cose sensate, iniziando da qui.

Barca storta


Apprendo dal mio amico Dario che in Grecia l’albero di Natale non si usa: al suo posto si decorano modelli di barca a vela di legno. Se penso al Natale di quest’anno mi pare che l’immagine di una barca un po’ malridotta e rattoppata alla meglio, sbattuta dalle onde e dalle correnti all’improvviso, magari proprio quando sembrava che avesse trovato il suo modo di restare a galla, sia più appropriata della sicumera di un nordico e solido abete, scintillante di decorazioni e di luci.

Natale anche quest’anno è arrivato e passato (o forse sta passando) e il fatto che i cicli del tempo e della natura non dipendano da noi è sempre, a suo modo, rassicurante. Resta il fatto che io le vigilie di Natale tendo a viverle piuttosto male e anche se quest’anno ce l’ho messa tutta per creare manovre diversive, inclusi i solitamente per me temibili biscotti di Natale, è pur vero che c’è un limite a quello che si riesce a simulare per amore di una figlia e quel limite si avvicina pericolosamente via via che la figlia in questione cresce, fa domande scomode e fa anche due più due quando qualche cosa non torna (altrimenti detto: ti sgama di più, più velocemente e anche più spietatamente).

La mia barca scricchiola. Non da ieri, non in modo più allarmante di un tempo. Però scricchiola e la differenza più dolorosa è che ormai Meryem lo sa benissimo. Non è la fine del mondo, ma certamente è l’inizio di una stagione nuova.

Mi consolo pensando a quello che mia madre diceva sempre: “Barca storta, viaggio dritto”.

E buon Natale a tutti voi, di cuore.

Sui gruppi


Quest’anno scolastico di Meryem, concluso brillantemente, è stato per me molto diverso dal precedente e mi ha portato, soprattutto nelle fasi finali, a qualche riflessione. I bambini crescono e i rapporti tra noi genitori finiscono per approfondirsi un minimo. E allora ho iniziato a notare un fenomeno curioso. Se da un lato di scelte relative all’allevamento dei pargoli si chiacchiera molto meno di prima (grazie a Dio, aggiungerei: di grandi dibattiti sui tormentoni della prima infanzia, dal pannolino al numero di parole conosciute, per tacere dell’allattamento e del cosleeping, direi che ne abbiamo tutti abbastanza), dall’altro le conseguenze delle scelte più propriamente educative e, in generale, dei valori che ispirano la quotidianità di genitori e famiglie, si fanno più evidenti.

Un punto mi brucia in particolare, perché per me – probabilmente anche per la configurazione della mia/nostra vita familiare – è assai rilevante. Io amo vedere mia figlia sviluppare una personalità propria, dei gusti suoi diversi dai miei, la incoraggio a fare le sue scelte (e assumersene le conseguenze, in modo proporzionato alla sua età). Ma ci capita abbastanza frequentemente di fare attività in gruppo, soprattutto gite ed escursioni che altrimenti, da sole, non faremmo. Il gruppo a cui ci aggreghiamo è molto diverso da noi, per età ed esigenze, e anche assai variegato al suo interno. Se c’è una cosa di cui sono davvero fiera è che – almeno finora – Meryem sembra aver pienamente recepito un paio di concetti chiave che sono la base della felice convivenza in queste situazioni.

  1. Quando si è in gruppo bisogna adattarsi, essere flessibili, ma soprattutto comprendere che le nostre esigenze personali, gusti, desideri devono necessariamente armonizzarsi con quelle degli altri. Questo non per “fare gregge” o annullare la nostra personalità nella massa anonima, ma semplicemente perché altrimenti qualunque attività abbiamo scelto di fare sarebbe resa impossibile dai guizzi di iniziativa dei singoli.
  2. Prendersi l’onere e la responsabilità di coordinare un gruppo, specie se numeroso, è comunque un compito ingrato, che merita rispetto e gratitudine. I direttori di gita sono più soggetti a errori e critiche degli altri, semplicemente perché si sono messi in gioco a servizio di tutti. Il mugugno e la rimostranza sono ovviamente ammessi, entro certi limiti, ma deve sempre prevalere uno spirito costruttivo e soprattutto la volontà di collaborare alla soluzione dei problemi che, inevitabilmente, si presenteranno. Criticare questo o quel dettaglio è facile, dalla comoda posizione di chi fruisce di un servizio. Ma neanche il genio dell’organizzazione può far funzionare un gruppo i cui componenti non decidano di concorrere alla buona riuscita dell’iniziativa, mettendo almeno a tratti da parte il proprio ego (vedi punto 1).

Dalla nostra posizione di famiglia “scomposta”, probabilmente io e Meryem siamo un po’ meno soggetto a quello che Bregantini (citando Alesina e Ichino) ha chiamato “familismo amorale” (ne parlavo qui): ““In fondo la mafia cos’è? Rispondere agli interessi della propria famiglia più che a quelli della comunità”. In questi ultimi mesi mi sono sempre più convinta dell’importanza di difendere quel confine scivoloso di cui parlavo già 5 anni fa: “Mio figlio, se non proprio io, certamente merita di passare avanti in una lista d’attesa di ospedale. Mio figlio, se non proprio io, ovviamente è moralmente giustificato se si avvale di una raccomandazione. E’ tanto un bravo ragazzo. E poi in questo schifo di Paese altrimenti nessuno si sarebbe potuto accorgere di quanto vale. I nostri figli diventano la misura, sballata, di tutte le cose. Qualunque piccolo o grande illecito o abuso che facciamo entrare nelle nostre vite, ci pare molto più accettabile o persino lodevole se fatto per i figli, per assicurare loro un futuro migliore”. Sono passata e passo molte volte per fessa e/o perdente, in questi anni. Ogni volta che faccio un passo indietro, ogni volta che rispetto una regola o una fila, ogni volta che ricordo a mia figlia di farlo anche lei, anche se ha nove anni. Sono profondamente convinta che lei sia meravigliosa e meriti il meglio, certo. Ma il meglio è saper vivere insieme. Il meglio è il bene comune.

P.S. Quella nella foto è Meryem con due amici escursionisti. Potrebbe sembrare una famiglia, ma è “solo” un gruppo.

Chi impara da chi


Il mio ufficio, nonostante i recenti lavori di ristrutturazione (ancora in corso, peraltro), non consente l’isolamento acustico di tutti gli uffici. Il mio, in particolare, è separato da quello accanto solo da una vetrata che non arriva fino al soffitto. Capita quindi che involontariamente io senta i colloqui delle mie colleghe con i rifugiati che si rivolgono a loro.

Oggi c’era una famiglia nigeriana di cui avevo già sentito parlare. Una situazione indubbiamente difficilissima. Lui – che in Nigeria ha frequentato quattro anni di politecnico ed era elettricista – è rimasto senza lavoro, lei ha dovuto smettere di lavorare perché ha tre bambini, l’ultima dei quali nata prematura e ancora in ospedale (alla nascita pesava 1 kg). Hanno perso la casa perché non sono più riusciti a pagare l’affitto e oggi sono ospiti di un’amica, ma la cosa non può durare a lungo per ovvie ragioni logistiche.

A un certo punto mi sono alzata e ho gettato uno sguardo al di là della vetrata. Erano bellissimi, pieni di amore, con due bimbi sorridenti e educatissimi. A vederli non traspare nulla del dramma che stanno vivendo. Avrei voluto scattare mille fotografie.

Ovviamente non l’ho fatto. Ho solo ammirato quanto può essere splendente una famiglia vera. E ho pensato, ancora una volta, che i rifugiati hanno molto da insegnarci.

L’ego della mamma è come l’acqua


Quando frequentavo con una parvenza di regolarità una palestra, millenni orsono, lo facevo principalmente perché ero incappata in un istruttore bravo, con cui mi trovavo. Un giorno lui, che faceva il personal trainer, raccontò una cosa che mi colpì: molte delle ragazze e signore seguite da lui erano convinte, assolutamente a torto, di soffrire di ritenzione idrica. “E invece sono disidratate. Non bevono abbastanza!”. Ora non so dirvi precisamente i termini scientifici della questione, ma il suo punto era che a furia di sentire parlare di ritenzione idrica in tutte le pubblicità e articoli di riviste, frotte di donne avevano falsamente individuato il proprio problema e lo combattevano con zelo come pareva loro meglio (quindi male).

Questo aneddoto mi è tornato in mente oggi leggendo questo bell’articolo di Silvia Tropea. E che ci azzecca?, vi chiederete voi. Ve lo spiego. Alle donne un po’ stagionate (over 40, su) i messaggi, sul web e sulle riviste, lasciano intendere che la nostra autostima abbia un gran bisogno di essere rafforzata. Perché noi valiamo, lo sanno tutti. E sembrerebbe che siamo noi le uniche a non saperlo, a non accorgerci del nostro proprio splendore. Quindi ci va detto. Andiamo incoraggiate a esporci, a credere in noi stesse, a osare, a volerci bene e a non vergognarci di dimostrarlo.

Quando poi arriviamo alla maternità, i messaggi si combinano in formule curiose. Dobbiamo essere attente, ma non abnegate. Dobbiamo essere creative, ma anche simpaticamente imperfette. Dobbiamo splendere, non solo in quanto donne, ma anche in quanto madri, in un giusto mix di tradizione e innovazione. E anche di quanto siamo straordinariamente uniche come madri non dobbiamo vergognarci. Dobbiamo mettercelo bene in testa, ripetercelo di continuo. Non sia mai che cediamo alla tentazione di metterci in ombra.

Ecco, leggendo l’articolo di Silvia mi sorge un dubbio. Ma siamo certe che il nostro problema (assumendo che ne abbiamo uno, si intende) di donne e di madri sia una mancanza di autostima? L’esperienza dentro e fuori dal web mi dice piuttosto il contrario. Vedo donne prese e comprese nel rappresentarsi come madri: madri lavoratrici, madri emancipate, madri tradizionali di ritorno, madri intellettuali e documentate, madri empatiche, madri consapevoli di se stesse come donne. Madri, madri, madri. C’è chi “lo fa per gioco, c’è chi lo sceglie di professione”. Ma alla fine la tentazione numero uno , qualunque sia il nostro stile genitoriale (io ho citato quelli che mi sono più consoni, naturalmente), resta la stessa: che il nostro ego, ben lungi dall’essere sminuito, cresca e si esprima a dismisura, anche e soprattutto a scapito dei figli.

Allora vi dirò una cosa. Noi valiamo. Noi dobbiamo volerci bene e apprezzarci. Ma l’amore per gli altri, a partire da quello per i figli, dovrebbe sempre restare nella lista delle nostre priorità e orientare le nostre scelte concrete. A costo di fare, almeno una volta ogni tanto, un discreto passo indietro.

Maglietta verde


Tram 8, pomeriggio di venerdì. Rimugino su me stessa, sul mio destino, sulla mia vita, su quello che è successo e quello che non è successo. Penso a una frase sentita ieri sera: la felicità dipende per il 50% da predisposizione genetica, per il 10% da quello che accade e per il 40% dal nostro impegno e consapevole lavoro per essere felici.

Davanti a me, su due sedili affiancati, il mio sguardo viene catturato da un gruppo familiare. Mamma africana, una bambina seduta a fianco, un bambino in braccio, la piccolina legata sulla schiena della donna. Gli occhioni spalancati della figlia minore hanno stregato un certo numero di passeggeri. Una filiforme signora bionda sta giocherellando con lei, consentendole di acchiapparle vigorosamente il dito inanellato (e ogni volta la faccina della piccola si illumina in un sorriso furbetto). Vari passeggeri in piedi, me compresa, sorridono inebetiti. La bambina è in effetti di una bellezza e vivacità straordinarie.

Comincio a guardare anche gli altri due bambini. La grande, forse poco più piccola di Meryem, siede composta e seria con in grembo la cartella rosa. Il maschietto è spalmato sul petto della madre e ogni tanto pencola in direzione della sorella maggiore.

Tanti pensieri mi si accavallano in testa (e sospendo prontamente i bilanci esistenziali) mentre passo ad osservare la madre. Probabilmente abbastanza giovane, con i capelli neri ben pettinati e legati in una sobria coda di cavallo. Testa prima china sulle mani, appoggiata al sedile davanti. Poi, sentendo la piccola che si agita, alza uno sguardo pieno di apprensione, che poi si rilassa al vedere che la figlia non sta disturbando nessuno, ma anzi si è conquistata la simpatia di molti. Sorride, e una dolcezza stanca illumina il viso largo. Non so nulla di lei, anche se sono portata a immaginare molte cose, chissà quanto fondate.

Certo è che arrivata a Stazione Trastevere si alza, raccoglie senza apparente sforzo i suoi bambini e scende. La guardo allontanarsi dignitosa e composta, la sua maglietta verde scompare tra la folla. Si parla molto di famiglia, di questi tempi. E anche di parità di genere. Però poi alla fine mi chiedo quanti dei discorsi di principio che a molti sembrano così irrinunciabili siano concretamente di sostegno alla famiglia che ho incontrato oggi sul tram.

Con le mani


Meryem quest’anno con me ha fatto esperienza di diverse forme di viaggio, gita, escursione. In gruppo, con il padre o solo noi due.

Una di queste esperienze però l’ha fatta da sola, anche se io la seguivo a pochi passi. Una passeggiata in un giardino, che non ha visto ma solo intuito. Il bel video realizzato dai soliti Artigiani Digitali (stavolta lanciati nell’impresa non da poco di realizzare un filmato che potesse essere fruito anche senza vederlo) la racconta bene. Vedrete spesso lei, in un paio di fotogrammi anche me (assai meno decorativa, diciamocelo).

L’altra sera siamo andate insieme alla festa dell’istituto S. Alessio, dove abbiamo assistito alla proiezione in anteprima e anche assistito alle notevoli performance musicali, teatrali e in generale di intrattenimento offerte da persone che sulla vista non possono contare, ma non per questo hanno meno voglia di essere protagoniste. Con evidente successo, peraltro.

Chi ha paura del buio? recita la canzone dello Zecchino d’Oro di cui abbiamo conosciuto l’autore, Giovanni Paolo Fontana. Noi no, o almeno noi molto meno di prima. Certamente abbiamo avuto modo di riflettere sul concetto di fiducia e sulla coltivazione sapiente dei sensi. Mi ha fatto piacere notare che Meryem non fosse del tutto nuova a simili esperimenti: a scuola hanno fatto qualche esercizio anche pratico sulla diversità e lei era assai meno disorientata di me.

Io mi sono dovuta confrontare di colpo con la sensazione di avere di fatto messo mia figlia in mano ad altri senza averli mai visti prima (e senza poterli peraltro vedere neanche durante…). Mi credevo una madre più sportiva, ecco. Probabilmente avevo sottovalutato l’importanza del poterla “tenere d’occhio”, sia pure a distanza. Sono stata comunque molto fiera di lei, e contenta di questo viaggio fuori dal comune che abbiamo avuto occasione di fare, una dopo l’altra.