Un bel funerale


Cinque anni fa ho cambiato lavoro. Era stato il punto di arrivo di un percorso di restauro di me stessa, che aveva anche comportato un autoregalo significativo: un corso di scrittura autobiografica con Rossana Campo.

Come capita abbastanza spesso quando mi lancio nelle cose senza troppo pensarci, solo alla prima lezione ho realizzato che la scrittura del corso non era genericamente creativa, ma proprio autobiografica. Il mio inconscio aveva evidentemente trovato un escamotage per vincere le mie resistenze.

Tuttavia, finito il corso (le due edizioni che mi sono concessa), le resistenze continuavano. Ho rimuginato altri 5 anni per realizzare il progetto che avevo definito alla fine del corso. Poi, un po’ inaspettatamente, mi ci sono buttata (sempre in modo disordinato e scomposto) e in pochi mesi ho scritto lei, la Prima Stesura del mio memoir.

Tutto questo per dire che non so se questo porterà mai a una pubblicazione vera, come quella di almeno due delle mie compagne di quello splendido corso. Ma intanto ho vissuto un’esperienza importante, l’ho attraversata e ho imparato molto di me stessa e di cosa mi ribolliva dentro.

Non lo leggerete mai in una quarta di copertina, ma quello che mi è venuto da pensare rileggendomi è stato: “Quella parte della mia vita probabilmente è morta per sempre, ma almeno ho provato a mettere su un bel funerale…”

E adesso? Chissà. Ho cominciato una strada. Mi sono fermata un po’ di mesi a riposare, ma ora devo capire come andare avanti. Se sono rose fioriranno.

Quell’ultima sera di libera uscita


4 marzo 2020. La vigilia di quando ci hanno chiuso in casa. Non me lo aspettavo affatto, non riuscivo neanche bene a immaginare cosa avrebbe significato.

Avevo fatto lezione all’Università Lateranense, quel pomeriggio. Alla fine della lezione era arrivato il bidello e aveva messo i lucchetti al cancello dell’università. Fine delle lezioni in presenza. Zoom non sapevamo ancora cosa fosse, anche se lo avremmo imparato presto.

Tornavo a casa in una Roma già spettrale. Aspettavo l’autobus davanti al Colosseo, dove si vedeva la sagoma del Molokh, allestito per la mostra di Cartagine che poche settimane prima avevo visitato con un gruppo di vecchi amici, in uno di quegli sprazzi di grazia che ogni tanto mi fanno pensare che sono fortunata (e il più delle volte non ci faccio caso, ma quella volta sì).

Altri ricordi sono più appannati, e neanche Facebook, stampella della mia memoria, mi aiuta. Forse quella sera a casa mi aspettava uno di quegli amici selvatici in cui a tratti ripongo eccessive speranze. Un altro, per curiosa coincidenza, quella stessa sera tornava da un posto dove sarebbe stato normale incontrarmi. E invece il tempo di quell’ incrocio non era ancora arrivato.

Oggi, quattro anni dopo, se penso a cosa abbiamo attraversato mi gira la testa. E allora ritorno sul pensiero di prima: sono fortunata, dovrei farci caso più spesso. Ma oggi mi concedo anche di dire, però, che in questi anni ho anche dato molto. Pure troppo, magari. Oggi però più che mai sono convinta che l’amore non sia mai uno spreco, fosse solo come antidoto al cinismo sempre in agguato.

Questa età, predicavo sabato nella sala di aspetto della stazione di Zagarolo, è davvero tosta. È allo stesso tempo troppo tardi per “fare nuove tutte le cose” e troppo presto per tirare i remi in barca. E dunque vado avanti. Ogni tanto mi arriva una pacca sulla spalla, un incoraggiamento. Ogni tanto me la dò da sola, perché qualcosa l’ho azzeccata, spesso inavvertitamente. Ma le buone intenzioni, quella specie di ingenuità e testardaggine che mi rende così difficile arrendermi all’evidenza e tante porte in faccia mi ha procurato e mi procura, quelle farei bene a non perderle. Perché sono forse il tratto che mi rende simpatica ai miei occhi e che mi permette di essere almeno un po’ indulgente con me stessa.

Ingenuità


Non è che io abbia mai seriamente pensato di essere furba. Questo mai. Eppure in fondo sono convinta di essere veloce a capire le cose, dotata persino di una certa capacità di analisi e di deduzione. Un po’ è la scuola che mi ha indotto a credere di essere intelligente.

Eppure, guardando all’ultimo anno e mezzo, ho preso cantonate madornali, tale da indurmi a dubitare delle mie più elementari capacità logiche. Più precisamente, mi sono bevuta balle, storie inverosimili, frasi dette evidentemente tanto per dire. Si sa, che tra adulti si fa così. Mica l’avrai presa sul personale? Ma sì, vedrai che una soluzione si trova.

Semplificare la vita agli altri, sempre. Non creare problemi. Ma figurati se ci rimango male. Certo, capisco benissimo. Riguardo foto rimaste nella galleria di whatsapp, percepisco in un pensile la presenza di un piccolo contenitore non mio e no, non capisco affatto e tuttavia, come si diceva in un antico programma di Arbore, mi adeguo.

Incasso silenzi, per adesso. Rosso di sera, bel tempo si spera. E tutto quel che segue.

Frammenti e ammissioni


Sentivo parlare di questo film fin da quando lo stavano girando e questo poteva essere un buon motivo per non andare a vederlo. Se devo essere del tutto onesta, avevo avuto anche modo di farmi alcune idee sull’opera in sé che ancor di più potevano portarmi a risparmiarmelo. La ciliegina sulla torta ce l’hanno messa i social: da quando è uscito, me lo riproponevano in forma di post sponsorizzato letteralmente in tutte le salse. Avete presente quando camerieri troppo zelanti insistono per farti sedere ai tavolini di un ristorante dove magari senza tutta quell’insistenza ti saresti pure seduto? Ecco, da quando l’algoritmo ha stabilito che questo film corrispondeva ai miei interessi, avevo ancora meno voglia di vederlo.

Ma per fortuna odio essere condizionata e in un angolo della mia mente ho continuato ad ammettere a me stessa che l’idea alla base di questo film/documentario era indubbiamente buona, anzi unica. Quindi ieri sono andata alla Sala Troisi, da sola, in uno scampolo di una giornata forse non storta, ma certamente anomala.

Ripensandoci ora, mi chiedo se in fondo non mi augurassi di trovare un motivo intelligente per confermare i miei pregiudizi negativi. Forse. Comunque non l’ho trovato. Mi è piaciuto moltissimo. A tratti mi ha persino commosso. Perché è vero quello che dicono le critiche: è talmente individuale, talmente spudoratamente messo a fuoco su una singola persona, da avere un guizzo di universalità. È come se l’autoreferenzialità fosse spinta talmente oltre da traboccare nel suo opposto.

Rimuginare sull’amore e sulla memoria, sulla nostalgia e sulle conseguenze delle scelte, fatte e subite, ha un fascino a cui è difficile resistere. E chi non ha mai fantasticato di chiedere a chi abbiamo amato e a chi ci ha amato quella terribile e potente domanda evangelica: “Voi, chi dite che io sia?”. Ecco, la regista lo ha fatto. Anzi, lo ha fatto fare da altri, filmandolo, trasformando la cosa da una specie di esercizio retorico individuale in una indagine spietata e a tratti degna dell’Edipo Re.

Stamattina ne ho parlato a mia figlia, che ha 16 anni. Spero di averla incuriosita abbastanza da vederlo anche lei. Lei che comincia solo ora a archiviare in scatole colorate i primi passati amori. E che ha detto che quello che ha fatto Chloé Barreau è geniale e un giorno vorrebbe farlo anche lei. “Riconoscendole il merito di averci pensato per prima, ovviamente”.

Conversazioni in Calabria


Chissà perché i treni quando vanno verso sud mi paiono più lenti di quando vanno verso nord. Le 4 ore abbondanti di viaggio verso Vibo Valentia sembrano infinite e le ho passate per lo più immersa nella lettura del mio Kindle, cercando di ridurre al minimo i contatti fisici e verbali con gli altri passeggeri. Poi però, quando siamo avvicinandoci alla meta, la coppia che mi siede accanto inizia a chiacchierare con il ragazzo seduto di fronte a me e a quel punto non posso fare a meno di partecipare. E meno male.

Il giovane atletico che ho davanti, che a Roma aveva la normale espressione del viaggiatore standard, ora che abbiamo varcato il confine regionale pare trasfigurato di felicità. “Sono stato in servizio sette mesi a Verbania”, sta spiegando ai vicini di posto. “Finalmente ho ottenuto il trasferimento e glielo ho già detto, alla mia fidanzata: io da qui non mi sposto più. Ci ho provato, davvero, ma io lontano dalla Calabria non posso proprio stare. Per carità, ci sono dei servizi che noi ce li sogniamo. Si vive comodi. Ma a che serve avere servizi se non si è felici? Intanto il mare. Tre tatuaggi del mare mi sono fatto fare, in questo periodo che sono stato lontano. La luce, il sole, i colori. E il cibo. Spendevo un patrimonio per del cibo che non sapeva di niente. Io ora che ho arrivo a casa so già che mi aspetta: pomodori e cipolla di Tropea, gliel’ho detto a mia mamma. Meglio di così non esiste. E poi le persone: gentili, per carità, ma fredde, distanti. Niente, io sono nato per vivere qui. Sono stato fortunato, ora ne ho l’opportunità e non ho intenzione di sprecarla”.

La coppia accanto ha tre figli grandi, che in occasione della laurea della più piccola hanno regalato una crociera ai genitori per festeggiare “la fine dei figli a carico”. “A mio figlio avevano offerto un’opportunità di lavoro a Milano, molto ben retribuita. Ma lui preferisce restare dov’è. Per fortuna il lavoro non gli manca, al limite viaggia. È molto richiesto, come commercialista. Ma di trasferirsi non vuole sentirne parlare. Per fortuna hanno studiato tutti e tre, brillantemente. Mantenerli agli studi fuori è stato un sacrificio. Ma ora possono scegliere e finora hanno scelto di vivere in Calabria. E credo che se potranno continueranno così. La famiglia per noi conta qualcosa…”.

Il giorno dopo racconto questa conversazione al tassista, un uomo ormai alle soglie della pensione. “Non lo dica a me, capisco benissimo. Lo sa che lavoro facevo io? Il macchinista di treni. Negli anni ’80 mi assumono in ferrovia, una posizione molto ambita. Ma mi mandano a Trieste. A me, a Trieste. Ho resistito per due anni, ma quanto ho sofferto. Le persone erano più fredde e ostili del clima. Parlavano apposta non italiano, perché non capissi. E io rispondevo in calabrese. Quelli non si sentono neanche italiani, con uno come me non volevano averci niente a che spartire. Ho chiesto trasferimento, ovunque: a Napoli, a Messina, a Palermo, ma pure a Roma mi sarebbe andato bene. Niente, mi hanno detto che prima di dieci anni non mi avrebbero spostato da nessuna parte. Allora ho presentato le dimissioni. La prima lettera la hanno strappata, il mio dirigente non ci voleva credere. Pensava che fossi impazzito. Allora ho chiesto di nuovo trasferimento e di nuovo me lo hanno negato. A quel punto ho scritto un’altra lettera e mi sono assicurato che la protocollassero. Non me ne sono mai pentito. Io penso che un uomo deve morire dove è nato. Magari vivere lontano, certe volte si deve per forza. Penso a tutti quelli che se ne sono dovuti andare in America, in Australia, dall’altro capo del mondo. Ma almeno da vecchi tutti dovrebbero poter tornare a casa”.

Non mi trattengo e gli faccio notare quante persone sono oggi costrette a arrivare qui, dall’altro capo del mondo, e magari provano sentimenti e sofferenze simili. “Dice? Non so se per loro è uguale. Quelli sono musulmani…”. Poi ci pensa un attimo e aggiunge: “Però mi sa che ha ragione. Tutti uomini siamo”.

Già. Penso a questa terra che di umanità trabocca e che a volte si perde e affoga nella mancanza di servizi. A quanto si potrebbe fare (e qualche volta si riesce a fare) mettendo le cose in una prospettiva diversa e valorizzando le idee, l’entusiasmo, il calore che c’è. Oggi a una riunione in Prefettura ho sentito parlare dell’importanza del successo scolastico dei giovani di origine straniera e del contributo che potrebbero dare per il futuro di questa terra. Sono discorsi non ovvi di questi tempi, in questo momento politico, in un luogo in cui perdersi nell’ultima emergenza è fin troppo facile.

Come fare perché tutte queste potenzialità non vadano sprecate? Certe volte pare di svuotare il mare con un cucchiaino. Viene da pensare che tutto è inutile, che non valga neanche la pena di credere che un cambiamento sia possibile. E invece vale sempre la pena di credere nella bellezza delle persone e nel loro potere di trasformare la realtà. “Ormai è una parolaccia”, scriveva monsignor Bregantini, un trentino che a queste terre ha dedicato un impegno lungo e sincero. Quasi quasi stasera mi rileggo il suo libro.

Specchi


Ho sempre apprezzato, quasi idolatrato, la sincerità. Oggi mi rendo conto (meglio tardi che mai) che la sincerità, un po’ come l’intelligenza, da sola non basta e quindi non è un valore assoluto. Probabilmente per capirlo mi serviva diventare (o realizzare di essere) più vulnerabile e più stupida. Smettere di essere quella che era brutalmente sincera e interpretare la parte di quella che ascolta qualcun altro essere brutalmente sincero.

Oggi finalmente capisco cosa ho fatto per anni a persone che pure mi erano care e non ne sono fiera. Era per il loro bene? Ho creduto di sì, in tutta sincerità. Ma vista la cosa da una prospettiva nuova, sospetto che fosse soprattutto per il mio bisogno di compiacermi della mia brutale sincerità. Per quel che vale, mi dispiace molto per tutto lo spreco di amore che questo ha portato. Amore che potevo dare in modo meno giudicante, amore che potevo ricevere scendendo dal mio ridicolo piedistallo.

Cammini


In una giornata in cui molto più di quanto avrei voluto avevo abbondantemente rimuginato sul passato, sul presente, sugli errori fatti in tempi remoti e su quelli commessi pochi minuti prima, mi sono trovata ancora una volta sotto la splendida cupola di S.Andrea al Quirinale.

Neanche a farlo apposta, un brano dello spettacolo a cui ho assistito parlava di cammini incrociati e di piani diversi che si intersecano. E allora è stato inevitabile ripensare al mio, di cammino, alle tappe aggrovigliate che ancora una volta mi hanno portato in quella chiesa, peraltro un po’ da imbucata, in mezzo a tanti gesuiti.

Quel pensiero, oggi, mi faceva un po’ paura. Mi sentivo particolarmente vulnerabile e temevo il giudizio impietoso che solitamente riservo a me stessa. Poi, sotto una bellezza surreale e avvolta dalle note di una canzone che mi è particolarmente cara, inaspettatamente mi sono trovata nel cuore se non una risposta una sicurezza: avevo fatto bene, oggi, ad essere lì.

Tra tutti gli inciampi che ho avuto e avrò, mi è oggi chiara una cosa: l’amore non è mai sprecato. E prima o poi ritorna, magari trasformato, si riflette e si moltiplica, anche e forse soprattutto dove non si credeva potesse avere senso mettercelo. Di molte scelte oggi mi rammarico, ma non delle volte che ho cercato di dare attenzione e importanza a un amico, non delle volte in cui ho espresso in parole un apprezzamento senza calcolo.

E la bellezza, specialmente quella del cuore (ma anche quella artistica, qualche volta) tutto copre e tutto sopporta.

Citrosodina


Mi ricordo che me ne prendevo un piattino e poi facevo sciogliere i bastoncini bianchi sulla lingua, per godermeli uno a uno. Scioglierli in acqua, come si sarebbe dovuto fare, mi è sempre parso uno spreco.Non credo comunque che la Citrosodina la prendessi per facilitare la digestione: ne ero golosa e basta.

Oggi mi sono sorpresa a desiderarne un cucchiaino perché davvero ho faticato a ritrovare la concentrazione, dopo la pausa pranzo. Certo la digestione richiesta era più impegnativa del solito, ma sospetto che il peso maggiore mi venisse dai pensieri aggrovigliati nella mia testa. Allora mi sono ricordata di un quadretto visto al museo Pitrè di Palermo, con cui illustro il post: si vede un povero malcapitato che, durante la messa, si trova con un drappello di demoni che gli escono dalla testa. Miracolosamente e, suppongo, con un certo suo sollievo morale, ma anche fisico.

Posto che non ho Citrosodina in credenza, ne un esorcista a portata di mano, mi rassegno a un pomeriggio assolutamente ordinario. Non sarà oggi che brillerò particolarmente. E se riesco a non fare danni, è già un buon risultato.

La cosa più difficile da domare, oggi, è una domanda che non formulo. Da un lato la mia testa mi dice che dovrei farla. Ma poi, cercando di essere ragionevoli (per una volta) mi dico che è meglio non chiedere se non si è veramente disposti a sapere la risposta. Questo è uno dei più utili insegnamenti dei corsi di lettura di tarocchi che ho frequentato. E allora evito, rimugino e spero di riuscire a digerire il tutto, prima o poi. Lasciando posto ai fatti concreti e togliendone alle paturnie.

In caso di stress, rompere il vetro


Stamattina rileggevo un post riuscitissimo di Barbara su Genitoricrescono (la cui lettura raccomando a tutti) e mi sono trovata a farmi alcune domande, che in realtà mi inseguono, in forme diverse, da un po’ di tempo.

Come reagisco io sotto stress e cosa funzionerebbe per me nei momenti neri?

Ce l’ho qualcuno da chiamare in caso di crisi?

Premettiamo che nella mia esperienza è chiaro che stress è una definizione generica, che può etichettare situazioni troppo diverse per non necessitare una precisazione. Qui intendo quei “momenti in cui tutto è semplicemente troppo”, come dice Barbara molto efficacemente. Troppe emergenze contemporaneamente, troppo dolore su fronti diversi, troppi rospi ingoiati nell’unità di tempo, troppe sollecitazioni (lavorative, familiari, emotive…). Troppo tutto.

Altrettanto chiaro è che tutti reagiamo diversamente e tutti siamo diversamente sollecitati anche da situazioni apparentemente identiche. Per me ad esempio un certo numero di sollecitazioni è addirittura necessario per sentirmi viva e non sprofondare in baratri apparentemente inspiegabili. Capisco solo in teoria le persone che hanno bisogno di dosare il contatto umano quando stanno male: per me l’esposizione alle relazioni è quasi sempre terapeutica. Potrei continuare, ma avete capito il concetto.

Ci sono stati spesso momenti, negli ultimi anni, in cui ho realizzato di aver passato il limite. Cosa ha funzionato/avrebbe potuto funzionare per me in quei momenti?

Mi viene in mente uno specifico sabato mattina dello scorso ottobre. In quel momento forse la cosa che mi è apparsa più evidente come un bisogno assoluto fosse non essere sola. In senso fisico (con qualche limitazione, visto che ero davvero prostrata al limite del crollo fisico), ma soprattutto emotivo. Ho cominciato davvero a telefonare quasi a chiunque, a buttare addosso a amici e conoscenti quello che era successo e non riuscivo a gestire.

Da quel momento in particolare ho messo a fuoco una enorme paura di questa fase della mia vita: la solitudine. Quando lo confesso agli amici (e l’ho fatto più di qualche volta, negli ultimi mesi) li vedo spiazzati: in un certo senso in questo periodo la mia quotidianità appare (ed è, in effetti) molto ricca di relazioni, di scambi, di frequentazioni. E allora questa solitudine dove la vedo? Si tratta solo del fatto di non avere un rapporto di coppia?

In realtà la seconda domanda posta da Barbara è quella che mi turba di più. Chi chiamerei se avessi davvero bisogno? Mi sono trovata a chiedermelo quando dovevo inserire nel cellulare il “contatto da chiamare in caso di emergenza”. La verità è che non lo so (più). Che ci sono diverse persone che posso chiamare in momenti specifici e per esigenze specifiche, ma se dovessi indicarne una o un paio che ci sarebbero per me pienamente, a qualunque ora, senza nessuna riserva, non credo di sapere rispondere.

E se per le emergenze sanitarie alla fine la risposta sarebbe chiaramente una delle mie sorelle (o pure più di una, visto che ho la fortuna di averne diverse vicine), quando “in quei momenti” a cui Barbara si riferisce nel post mi viene voglia di chiamare qualcuno che non abbia bisogno di spiegazioni su perché lo chiamo e che capisca quello che non sono in grado di articolare, in virtù di strategie comunicative implicitamente concordate, qui davvero non so mai che pesci pigliare.

In genere me la cavo lanciando qualche whatsapp a casaccio, o facendo cose ancora più improbabili nella speranza che l’universo risponda (o, più facilmente, io trovi un motivo per distrarmi). Ma per quanto efficace possa essere la rete sociale immateriale di cui dispongo e che grazie a Dio esiste, ci sono momenti in cui mi servirebbe davvero qualcosa di fisico: un abbraccio, il bacetto di cui parla Barbara, almeno una voce.

E perché non telefoni allora? mi chiederete voi. Per farlo, per superare lo scrupolo di disturbare o di essere inopportuna, mi ci vuole proprio un motivo di forza maggiore (come è successo quel sabato mattina, infatti).

Dove voglio andare a parare? Forse – e alla fine probabilmente questo è il punto più importante del post di Barbara – ho solo bisogno di ricordare a me stessa che, anche se mi pare così, probabilmente questi momenti di smarrimento non capitano solo a me. Che non solo io mi sento così e che non dovrei vergognarmene quanto invece me ne vergogno. Che probabilmente anche alla persona a cui magari mando un WhatsApp salvo pentirmene subito dopo sarà capitato o capiterà di sentirsi vulnerabile e che magari potrebbe anche decifrarlo questo mio tentativo di contatto umano, anche se a me pare patetico.

Ma non sarebbe molto più semplice se fossimo tutti un po’ meno isolati? Perché anche questo, a giudicare da quello che sento, non è mica solo un problema mio.

Nuove leve


Ieri, dopo una giornata intensa di confronti “come ai vecchi tempi” che aveva tutto il sapore della rimpatriata – e che coinvolgeva infatti persone con cui ho condiviso lunghi tratti di strada, mi sono trovata a bere una birra con alcuni giovani professionisti più recentemente coinvolti sul tema dell’accoglienza e inclusione dei rifugiati. È stato molto bello trovarmi a rispondere a alcune loro domande e richieste di chiarimento sulla discussione del pomeriggio: mi sono sentita utile e ultimamente mi succede davvero troppo di rado.

Più ancora ho realizzato, parlando con loro, che anche in questo campo così di nicchia come le politiche di asilo è difficilissimo passare alle nuove generazioni il bagaglio di esperienze e conoscenze che abbiamo accumulato noi vecchi. E allora il rischio è che i pochi “storici” continuino sempre più in solitudine (e stancamente) a percorrere una strada già in buona parte segnata, mentre i giovani, entusiasti e animati di ottime intenzioni, scoprono l’acqua calda e replicano tutti gli errori già fatti e rifatti nei decenni precedenti.

Non ci sono occasioni, non c’è tempo, a tratti non c’è voglia di condividere, di ascoltare, di sforzarsi di tenere insieme punti di vista, esperienze, idee. Ieri a un certo punto mi è venuto spontaneo dire che devono essere loro, le nuove leve, a fare l’advocacy, non noi vecchi: io personalmente mi rendo conto di essere troppo viziata dai miei pregiudizi decennali per avere idee utili, che possano tratteggiare un cambiamento. Però certo, bisognerebbe trovare il tempo e il modo di farla, questa trasmissione di esperienze.

E mi piacerebbe da morire fare parte di questo processo, perché non c’è niente di più bello di vedere come le cose si rinnovano, cambiano, diventano diverse e lontanissime da come le avevamo immaginate noi.