Specchi


Ho sempre apprezzato, quasi idolatrato, la sincerità. Oggi mi rendo conto (meglio tardi che mai) che la sincerità, un po’ come l’intelligenza, da sola non basta e quindi non è un valore assoluto. Probabilmente per capirlo mi serviva diventare (o realizzare di essere) più vulnerabile e più stupida. Smettere di essere quella che era brutalmente sincera e interpretare la parte di quella che ascolta qualcun altro essere brutalmente sincero.

Oggi finalmente capisco cosa ho fatto per anni a persone che pure mi erano care e non ne sono fiera. Era per il loro bene? Ho creduto di sì, in tutta sincerità. Ma vista la cosa da una prospettiva nuova, sospetto che fosse soprattutto per il mio bisogno di compiacermi della mia brutale sincerità. Per quel che vale, mi dispiace molto per tutto lo spreco di amore che questo ha portato. Amore che potevo dare in modo meno giudicante, amore che potevo ricevere scendendo dal mio ridicolo piedistallo.

Cammini


In una giornata in cui molto più di quanto avrei voluto avevo abbondantemente rimuginato sul passato, sul presente, sugli errori fatti in tempi remoti e su quelli commessi pochi minuti prima, mi sono trovata ancora una volta sotto la splendida cupola di S.Andrea al Quirinale.

Neanche a farlo apposta, un brano dello spettacolo a cui ho assistito parlava di cammini incrociati e di piani diversi che si intersecano. E allora è stato inevitabile ripensare al mio, di cammino, alle tappe aggrovigliate che ancora una volta mi hanno portato in quella chiesa, peraltro un po’ da imbucata, in mezzo a tanti gesuiti.

Quel pensiero, oggi, mi faceva un po’ paura. Mi sentivo particolarmente vulnerabile e temevo il giudizio impietoso che solitamente riservo a me stessa. Poi, sotto una bellezza surreale e avvolta dalle note di una canzone che mi è particolarmente cara, inaspettatamente mi sono trovata nel cuore se non una risposta una sicurezza: avevo fatto bene, oggi, ad essere lì.

Tra tutti gli inciampi che ho avuto e avrò, mi è oggi chiara una cosa: l’amore non è mai sprecato. E prima o poi ritorna, magari trasformato, si riflette e si moltiplica, anche e forse soprattutto dove non si credeva potesse avere senso mettercelo. Di molte scelte oggi mi rammarico, ma non delle volte che ho cercato di dare attenzione e importanza a un amico, non delle volte in cui ho espresso in parole un apprezzamento senza calcolo.

E la bellezza, specialmente quella del cuore (ma anche quella artistica, qualche volta) tutto copre e tutto sopporta.

Citrosodina


Mi ricordo che me ne prendevo un piattino e poi facevo sciogliere i bastoncini bianchi sulla lingua, per godermeli uno a uno. Scioglierli in acqua, come si sarebbe dovuto fare, mi è sempre parso uno spreco.Non credo comunque che la Citrosodina la prendessi per facilitare la digestione: ne ero golosa e basta.

Oggi mi sono sorpresa a desiderarne un cucchiaino perché davvero ho faticato a ritrovare la concentrazione, dopo la pausa pranzo. Certo la digestione richiesta era più impegnativa del solito, ma sospetto che il peso maggiore mi venisse dai pensieri aggrovigliati nella mia testa. Allora mi sono ricordata di un quadretto visto al museo Pitrè di Palermo, con cui illustro il post: si vede un povero malcapitato che, durante la messa, si trova con un drappello di demoni che gli escono dalla testa. Miracolosamente e, suppongo, con un certo suo sollievo morale, ma anche fisico.

Posto che non ho Citrosodina in credenza, ne un esorcista a portata di mano, mi rassegno a un pomeriggio assolutamente ordinario. Non sarà oggi che brillerò particolarmente. E se riesco a non fare danni, è già un buon risultato.

La cosa più difficile da domare, oggi, è una domanda che non formulo. Da un lato la mia testa mi dice che dovrei farla. Ma poi, cercando di essere ragionevoli (per una volta) mi dico che è meglio non chiedere se non si è veramente disposti a sapere la risposta. Questo è uno dei più utili insegnamenti dei corsi di lettura di tarocchi che ho frequentato. E allora evito, rimugino e spero di riuscire a digerire il tutto, prima o poi. Lasciando posto ai fatti concreti e togliendone alle paturnie.

In caso di stress, rompere il vetro


Stamattina rileggevo un post riuscitissimo di Barbara su Genitoricrescono (la cui lettura raccomando a tutti) e mi sono trovata a farmi alcune domande, che in realtà mi inseguono, in forme diverse, da un po’ di tempo.

Come reagisco io sotto stress e cosa funzionerebbe per me nei momenti neri?

Ce l’ho qualcuno da chiamare in caso di crisi?

Premettiamo che nella mia esperienza è chiaro che stress è una definizione generica, che può etichettare situazioni troppo diverse per non necessitare una precisazione. Qui intendo quei “momenti in cui tutto è semplicemente troppo”, come dice Barbara molto efficacemente. Troppe emergenze contemporaneamente, troppo dolore su fronti diversi, troppi rospi ingoiati nell’unità di tempo, troppe sollecitazioni (lavorative, familiari, emotive…). Troppo tutto.

Altrettanto chiaro è che tutti reagiamo diversamente e tutti siamo diversamente sollecitati anche da situazioni apparentemente identiche. Per me ad esempio un certo numero di sollecitazioni è addirittura necessario per sentirmi viva e non sprofondare in baratri apparentemente inspiegabili. Capisco solo in teoria le persone che hanno bisogno di dosare il contatto umano quando stanno male: per me l’esposizione alle relazioni è quasi sempre terapeutica. Potrei continuare, ma avete capito il concetto.

Ci sono stati spesso momenti, negli ultimi anni, in cui ho realizzato di aver passato il limite. Cosa ha funzionato/avrebbe potuto funzionare per me in quei momenti?

Mi viene in mente uno specifico sabato mattina dello scorso ottobre. In quel momento forse la cosa che mi è apparsa più evidente come un bisogno assoluto fosse non essere sola. In senso fisico (con qualche limitazione, visto che ero davvero prostrata al limite del crollo fisico), ma soprattutto emotivo. Ho cominciato davvero a telefonare quasi a chiunque, a buttare addosso a amici e conoscenti quello che era successo e non riuscivo a gestire.

Da quel momento in particolare ho messo a fuoco una enorme paura di questa fase della mia vita: la solitudine. Quando lo confesso agli amici (e l’ho fatto più di qualche volta, negli ultimi mesi) li vedo spiazzati: in un certo senso in questo periodo la mia quotidianità appare (ed è, in effetti) molto ricca di relazioni, di scambi, di frequentazioni. E allora questa solitudine dove la vedo? Si tratta solo del fatto di non avere un rapporto di coppia?

In realtà la seconda domanda posta da Barbara è quella che mi turba di più. Chi chiamerei se avessi davvero bisogno? Mi sono trovata a chiedermelo quando dovevo inserire nel cellulare il “contatto da chiamare in caso di emergenza”. La verità è che non lo so (più). Che ci sono diverse persone che posso chiamare in momenti specifici e per esigenze specifiche, ma se dovessi indicarne una o un paio che ci sarebbero per me pienamente, a qualunque ora, senza nessuna riserva, non credo di sapere rispondere.

E se per le emergenze sanitarie alla fine la risposta sarebbe chiaramente una delle mie sorelle (o pure più di una, visto che ho la fortuna di averne diverse vicine), quando “in quei momenti” a cui Barbara si riferisce nel post mi viene voglia di chiamare qualcuno che non abbia bisogno di spiegazioni su perché lo chiamo e che capisca quello che non sono in grado di articolare, in virtù di strategie comunicative implicitamente concordate, qui davvero non so mai che pesci pigliare.

In genere me la cavo lanciando qualche whatsapp a casaccio, o facendo cose ancora più improbabili nella speranza che l’universo risponda (o, più facilmente, io trovi un motivo per distrarmi). Ma per quanto efficace possa essere la rete sociale immateriale di cui dispongo e che grazie a Dio esiste, ci sono momenti in cui mi servirebbe davvero qualcosa di fisico: un abbraccio, il bacetto di cui parla Barbara, almeno una voce.

E perché non telefoni allora? mi chiederete voi. Per farlo, per superare lo scrupolo di disturbare o di essere inopportuna, mi ci vuole proprio un motivo di forza maggiore (come è successo quel sabato mattina, infatti).

Dove voglio andare a parare? Forse – e alla fine probabilmente questo è il punto più importante del post di Barbara – ho solo bisogno di ricordare a me stessa che, anche se mi pare così, probabilmente questi momenti di smarrimento non capitano solo a me. Che non solo io mi sento così e che non dovrei vergognarmene quanto invece me ne vergogno. Che probabilmente anche alla persona a cui magari mando un WhatsApp salvo pentirmene subito dopo sarà capitato o capiterà di sentirsi vulnerabile e che magari potrebbe anche decifrarlo questo mio tentativo di contatto umano, anche se a me pare patetico.

Ma non sarebbe molto più semplice se fossimo tutti un po’ meno isolati? Perché anche questo, a giudicare da quello che sento, non è mica solo un problema mio.

Nuove leve


Ieri, dopo una giornata intensa di confronti “come ai vecchi tempi” che aveva tutto il sapore della rimpatriata – e che coinvolgeva infatti persone con cui ho condiviso lunghi tratti di strada, mi sono trovata a bere una birra con alcuni giovani professionisti più recentemente coinvolti sul tema dell’accoglienza e inclusione dei rifugiati. È stato molto bello trovarmi a rispondere a alcune loro domande e richieste di chiarimento sulla discussione del pomeriggio: mi sono sentita utile e ultimamente mi succede davvero troppo di rado.

Più ancora ho realizzato, parlando con loro, che anche in questo campo così di nicchia come le politiche di asilo è difficilissimo passare alle nuove generazioni il bagaglio di esperienze e conoscenze che abbiamo accumulato noi vecchi. E allora il rischio è che i pochi “storici” continuino sempre più in solitudine (e stancamente) a percorrere una strada già in buona parte segnata, mentre i giovani, entusiasti e animati di ottime intenzioni, scoprono l’acqua calda e replicano tutti gli errori già fatti e rifatti nei decenni precedenti.

Non ci sono occasioni, non c’è tempo, a tratti non c’è voglia di condividere, di ascoltare, di sforzarsi di tenere insieme punti di vista, esperienze, idee. Ieri a un certo punto mi è venuto spontaneo dire che devono essere loro, le nuove leve, a fare l’advocacy, non noi vecchi: io personalmente mi rendo conto di essere troppo viziata dai miei pregiudizi decennali per avere idee utili, che possano tratteggiare un cambiamento. Però certo, bisognerebbe trovare il tempo e il modo di farla, questa trasmissione di esperienze.

E mi piacerebbe da morire fare parte di questo processo, perché non c’è niente di più bello di vedere come le cose si rinnovano, cambiano, diventano diverse e lontanissime da come le avevamo immaginate noi.

Tema natale


Oggi mi sono fatta su un sito il tema natale. Condivido giusto qualche estratto. Sarei curiosa di sapere che ne pensa chi mi conosce. Io mi ci ritrovo abbastanza, vi dirò.

Cominciamo dall’ascendente. “L’Ascendente Acquario è tipico di chi si presenta al mondo con semplicità, con il sorriso sornione, le idee creative, la capacità di rinnovare in ogni momento la sua vita. Anche nell’aspetto ama le stravaganze che però non sono da prima donna. Adora condividere e per questo ama gli spazi aperti a tutti. E’ però poco affettuoso ed espansivo e per nulla romantico!”. E già da questo dovrei fare qualche deduzione. Prima donna mai (ma manco seconda…), zero romanticismo. E questa forsennata tendenza a rinnovare, che non ci lascerà per l’intero tema natale.

Posizione dei pianeti nei segni
“La Luna in Scorpione è intuitiva come nessun’altra e misteriosa. Sa tenere i segreti ma soprattutto scova i vostri in qualsiasi situazione. E’ erotica e misteriosa, molto affascinante”. Sarà.
“Mercurio in Scorpione è un pensiero profondissimo, che scava nelle emozioni più profonde e affonda le sue radici nelle paludi della psiche”. Le paludi ci stanno tutte, in effetti.
“Venere in Scorpione è un modo di amare passionale ma tormentato, misterioso e sensuale ma attento al controllo totale”. Sarà.
“Marte in Scorpione è un’aggressività che parte dal controllo mentale per esprimersi anche carnalmente in modo possessivo e assoluto”. Sarà.
Mi comincio a chiedere come mai tutta questa mia prorompente scorpionaggine sia sempre rimasta così desolantemente inespressa.

Posizione dei pianeti nelle case
“La Luna in nona casa è un bisogno di esplorare e di viaggiare, di muoversi e di scoprire. Che sia con la mente o con il fisico non importa: qui la staticità è il più grande timore.” E su questo non ci piove.
“Mercurio in nona casa indica una mente curiosa e assetata di conoscenza. Studiare, leggere, conoscere, scoprire sono attività rigeneranti e amate. Gli argomenti più amati sono la filosofia, le religioni, le diverse culture, il viaggio e le terre lontane”. Attività pure troppo amate. E gli argomenti ci stanno tutti. “Il modo di comunicare è vivace, entusiasta e stimolante”. Anche su questo mi pare ci siano pochi dubbi. La verve me l’hanno riconosciuta persino all’orale del concorso in cui dovevano bocciarmi. Fatemi parlare di qualcosa che mi interessa davvero e vi stendo.
“Venere in nona casa indica attrazione per persone/situazioni lavorative appartenenti a culture differenti e particolarmente avventurose”. Già, ce ne siamo accorti. L’avventura non è mancata. “La libertà è il vero amore, questa è la base su cui si fondano tutte le scelte. Non si raggiunge facilmente la soddisfazione, ricercando una continua evoluzione o qualche stimolante novità”. Si comincia a intravedere il problema, non vi pare?
“Marte rappresenta la volontà e la capacità di affermarsi nella vita (l’energia vitale e sessuale, il coraggio, l’orgoglio, la competizione e l’ambizione). In nona casa è pieno d’energia, diretto, leale, aperto e irrequieto sia fisicamente che mentalmente. Non accetta facilmente una diversa opinione altrui”. Irrequieto mi pare la parola chiave. E sì, anche qualche problemino ad accettare le opinioni altrui….
“Giove in dodicesima casa viene considerato una sorta di “angelo custode”: chi ha questa posizione ripone grande fiducia nell’Universo ed è in qualche modo premiato con colpi di fortuna inaspettati. E’ indice di grande generosità spesso offerta in anonimato, intuito, sensibilità emotiva e sacrificio. I campi di maggiore focus sono il lavoro su se stessi in solitudine, la meditazione e il counseling; temi ricorrenti: psicologia, religione, misticismo”. Sacrificio pure troppo. I colpi di fortuna inaspettati un po’ meno…
“Se la quarta casa è legata alla casa, alla famiglia, alle origini, al nutrimento e all’emotività, Saturno in questa posizione rende più gravosi i compiti legati a questi ambiti aggiungendo un forte senso di responsabilità e del dovere, ne impoverisce la naturalezza. Potrebbe risultare difficile mettere radici, costruire una propria casa e un raggiungere un vero senso di sicurezza”. Ah, ecco. E’ tutta colpa di Saturno. Responsabilità e dovere tanto, sicurezza mai.
“La presenza di Urano in una casa le aggiunge un tocco non convenzionale di originalità. Mostra in quale ambito della nostra vita tendiamo ad andare contro corrente o stravolgere l’ordine costituito. Urano nella ottava casa parla di cambiamento e continua re-invenzione di se stessi come stile di vita”. Almeno sono originale, concedetemelo.
“Nettuno nella decima casa …potrebbe indicare anche una mancanza di visione chiara nel dare un indirizzo alla propria carriera”. Mi pare un eufemismo.
“Plutone in ottava casa indica una propensione al costante cambiamento per il raggiungimento di una evoluzione interiore. L’attrazione per tutto ciò che è segreto, nascosto, taboo porta a scavare e andare oltre la superficie di ogni cosa”. Ok, il concetto mi pare chiaro. Bello, eh? Ma che cavolo di fatica.

Aspetti planetari
“Sole opposizione Saturno indica una rottura con gli schemi, un bisogno di libertà rispetto a tutte le forme di controllo sia sociale sia, ad esempio, famigliare”. Di libertà alla fine ne ho avuta pure troppa…
“Sole congiunzione Nettuno indica creatività, sensibilità, emotività, ampiezza della visione, idealismo e amore cosmico. La filosofia e la religione così come la scoperta e i viaggi sono un bisogno importante e uno stile di vita imprescindibile. Questo aspetto rischia però di rendere confusi, eterei, incapaci di vivere nel quotidiano e nella sua logistica. Potrebbe amplificare l’idealismo irrazionale e l’illusione”. Potrebbe, eh?
“Luna sestile Giove indica una disposizione d’animo ottimista, nobile e generosa. Queste persone sono corrette e cordiali, spesso caratterizzate da un’immaginazione feconda e che tendono a sognare molto ad occhi aperti”.
“Venere congiunzione Marte indica una persona dalla natura passionale, educata ma molto suscettibile e tendente a scatti d’ira che però passano molto velocemente”. Vero.
“Venere sestile Giove indica persone amanti del piacere e goderecce, che spesso hanno talento artistico e musicale”. Spesso, ma non è il mio caso purtroppo: però avere talento artistico e musicale mi sarebbe tanto piaciuto.
“Marte sestile Giove. Questo aspetto armonioso indica persone piene di energia, entusiasmo contagioso e vivacità. Hanno bisogno di costante movimento sia fisico che intellettuale e in entrambe le attività mettono tutto il loro cuore”. Insomma, non si dica che non mi impegno. Il cuore ce lo metto, l’energia di solito pure (anche troppa).

Abbiamo giocato, ma è forte la tentazione di dedurne che ci sono nata così: irrimediabilmente spiantata e con resistenza a mettere radici dove che sia, irrequieta , contro corrente e soprattutto “incapace di vivere nel quotidiano e nella sua logistica”. Questa, di tutte, è la frase che mi descrive meglio.

Su e giù


Questi sono giorni in cui mi ritrovo a pensare tutto e il contrario di tutto. Nell’arco di 24 ore mi capita di sentirmi profondamente scoraggiata, ma anche di sorridere da sola per strada per nessun motivo particolare. A parte, ad esempio, la bellezza di questa cupola che nell’ultimo anno soprattutto è diventata una sorta di volto amico. Ci passo sotto, la mattina, controllo l’intensità dell’azzurro del cielo, sbircio i riflessi e le ombre, spesso (un filo troppo spesso) la fotografo.

In questa specie di turbine, ho persino pensato di appuntarmi in una nota sul cellulare i motivi per cui una certa sera mi sono trovata in testa di nuovo gli stessi pensieri archiviati diverse settimane prima, per provare a me stessa che questi motivi esistevano, oggettivamente. E naturalmente no, non c’è nessun motivo per averli, quei pensieri, se non il fatto che mi ci sono affezionata, a dispetto di ogni buon senso.

Sono più indulgente del solito con me stessa. Alla fine che male faccio ad essere un po’ più sciocca del solito, un po’ più bionda, come direbbe Meryem? La testa corre con la solita consueta lucidità esagerata, ma non esiste solo quella. Mi godo le mie conversazioni immaginarie e le occasionali percepite vicinanze, altrettanto immaginarie.

L’unica vicinanza effettiva, calda e pelosa, è probabilmente la gatta Zoe detta Zozo, che mi fa le fusa sulla pancia. E mi godo quella.

Faresti a cambio?


Ogni tanto, nelle ultime settimane, mi trovo a chiedermi, con un’amica con cui condividiamo sospiri e lamentazioni: “Ma tu faresti a cambio?”. Che tradotto vuol dire: “La vorresti la vita di x o di y, che apparentemente non è manchevole delle carenze di cui noi ci lamentiamo (e non sto neanche a esplicitare, tanto ve le immaginate facilmente)?”.

E, inspiegabilmente – ma neanche tanto – la risposta è puntualmente: “No, mille volte no”. Perché alla fine noi ci lamentiamo, ma in fin dei conti non è mica un caso che ci troviamo in questa collocazione un po’, per dir così, sbilenca rispetto al corso medio delle esistenze altrui. Stare scomode alla fine non è che proprio ci piaccia, ma certamente ci sono cose che ci farebbero stare ben peggio. Allora il dubbio sorge spontaneo: non sarà che sono proprio quelle cose il ragionevole prezzo di quello che pure ci diciamo di desiderare?

Qualche giorno fa mi sono sentita dire, tra il serio e il faceto, che sono condannata alla solitudine. La solitudine non la amo (e questo è un eufemismo). Ma anche se mia figlia adolescente mi accusa di essere una “sottona” (direi che potrebbe tradursi come “eccessivamente accomodante ai limiti del succube nei confronti della persona a cui sono affettivamente legata”), mi pare evidente che in tutti questi anni non ho mai smesso di essere me.

Non è che essere me mi renda necessariamente fiera. Ho molti difetti che mi fanno rabbia e che vorrei essere capace almeno di attenuare. Ma più passa il tempo più me ne convinco: nel complesso mi apprezzo. Mi riconosco alcune qualità (molto diverse da quelle che credevo importanti quando ero giovane) e non esiterei a definirmi una persona più che decente. Confesso che addirittura alcuni tratti del mio carattere mi piacciono molto. Io mi vorrei come amica, pur riconoscendo che sono impegnativa.

Il tutto per dire che se continuare a essere me (possibilmente la miglior versione di me a cui riesco ad arrivare, si intende) mi condanna alla solitudine, me ne farò una ragione. E in fondo in fondo non perdo le speranze che la condanna non sia definitiva. Perché la capacità innata di sognare con infantile spudoratezza, a dispetto di ogni dato di realtà, è probabilmente uno dei tratti di me che amo di più.

Svegliarsi


“Se potessi fare una magia, domani vorresti svegliarti a…”. Leggo distrattamente scrollando sulla timeline di Facebook questa frase, che sembra il titolo di un tema delle elementari. E io, dove vorrei svegliarmi domani?

Vorrei svegliarmi qui, credo, ma il desiderio lo formulerei in modo diverso. Il punto non è dove vorrei svegliarmi, ma piuttosto come. O al limite con chi.

Se potessi fare una magia, domani vorrei svegliarmi presa da quell’entusiasmo e eccitazione che provo quando succede qualcosa di bello, anche piccolo, che non mi aspetto. Con il sorriso che non riuscivo a togliermi dalla faccia ieri sera, perché mi sono arrivate in successione una serie di gioie in gran parte inaspettate e di momenti di bellezza.

Vorrei svegliarmi credendo a quello che diceva spesso padre Giovanni: il meglio deve ancora venire. Senza cinismo, senza amarezza, senza quella familiare convinzione che in fondo la mia giocata l’ho già fatta e che se mi è toccato un cinque faccio bene a stare, hai visto mai che riesca a evitare altri danni.

Perché non oso neanche formularlo del tutto questo desiderio, ma un po’ è vero. Con tutti i disclaimer del caso, con le formule scaramantiche e le mille condizionalità che non potrei non aggiungere, se potessi fare una magia, domani vorrei svegliarmi con qualcuno vicino.

Cadute di stile


Stamattina mi è stato segnalato l’articolo che illustra il post e il primo impulso è stato ignorarlo. Parla della scuola di mia figlia e di una questione che ho cercato di approfondire, soprattutto (ma non solo) negli ultimi due giorni, anche perché la sanzione disciplinare di cui si parla interessa anche Meryem. Ma poi l’ho letto e credo non sia del tutto ozioso condividere con voi alcune considerazioni.

Prima vi chiarisco il mio punto di osservazione, per dir così. Sono madre di una quindicenne che ha partecipato all’occupazione della sua scuola. Ne abbiamo parlato, e ho ritenuto, per le motivazioni che mi portava e per il suo percorso complessivo, di non vietarle di partecipare. Aggiungo che Meryem quest’anno è rappresentante della sua classe e io sono rappresentante dei genitori. Non per una strategia di presenzialismo familiare, ma perché nonostante le plurime delusioni vissute continuo a credere che interessarsi e partecipare nella scuola sia importante e, soprattutto laddove tutti si tirano indietro, sia anche una responsabilità. Responsabilità direi che è la parola chiave di questo post e forse mi azzarderei anche a dire che è uno dei valori che ritengo particolarmente importante trasmettere a mia figlia.

I fatti 

Dopo l’occupazione gli studenti, non ritenendo giusto che le responsabilità dell’occupazione ricadessero solo sui pochi che risultavano formalmente organizzatori, hanno preparato un documento dove chi aveva partecipato all’occupazione poteva firmare per esplicitare la propria adesione. La raccolta delle firme, che erano circa 500, è stata portata alla Preside dai rappresentanti degli studenti l’ultimo giorno prima delle vacanze. 

A gennaio si è tenuto un Collegio dei Docenti in cui, preso atto della raccolta firme, si è concluso  che la Preside, a coloro che avevano dichiarato di aver partecipato all’occupazione, emettesse in questo Primo Quadrimestre un richiamo scritto ( cd richiamo scritto del Dirigente Scolastico), cioè  una nota disciplinare del DS sul registro elettronico, e si prevedesse l’esclusione dai viaggi di istruzione e la partecipazione per 3 giorni al Progetto Colori. Il Progetto  Colori è un progetto creato dopo l’occupazione dell’anno scorso che prevede la ripittura e la riqualifica dei muri della scuola sotto la supervisione di una docente di storia dell’arte.

Sono cominciate a arrivare le prime note e – qui la fonte è la rappresentante dei genitori al consiglio di istituto, che conosce la giornalista di Repubblica autrice dell’articolo – un genitore, che ha voluto rimanere anonimo, ha mandato alla redazione la nota ricevuta dal figlio/dalla figlia, denunciando l’assurdità del provvedimento.

E qui faccio io qualche considerazione.

Non ho maturato, in questi due anni, una particolare stima per la dirigenza della scuola di mia figlia, che mi pare piuttosto rigida e improntata allo… scarico di responsabilità, più che alla promozione di scelte educative sensate. In questo caso particolare, penso che sarebbe stata auspicabile un po’ di comunicazione con le famiglie (la decisione del collegio dei docenti ad esempio poteva essere condivisa con i rappresentanti dei genitori) e magari dei toni un po’ diversi nel comminare la sanzione, onde evitare l’inevitabile effetto collaterale di trasmettere il messaggio che solo i fessi che si sono assunti la responsabilità saranno puniti e dunque i furbi che non l’hanno fatto risultano vincenti.

Tuttavia sono anche convinta che la sanzione ci dovesse essere: l’occupazione non è un’attività ricreativa ed è giusto che se si sceglie di violare le regole (fosse anche per una causa ritenuta importante) lo si faccia disposti ad assumersene le conseguenze. Peraltro, a parte i viaggi di istruzione che continuo a credere che non dovrebbero essere considerati un premio da meritarsi, ma parte integrante della didattica – e tuttavia su questo anche molti docenti la pensano di fatto come la dirigente e anche il modo in cui sono organizzati smentisce talora la mia convinzione – stavolta la “punizione” mi pare sensata, proporzionata e infatti gli studenti che hanno firmato non ne sono affatto turbati. Peraltro i loro rappresentanti li hanno informati regolarmente e tempestivamente di tutti i passaggi tramite chat e collettivi vari.

Temo che la figura peggiore in questa vicenda la facciamo noi genitori. Tra chi minaccia denunce perché il documento firmato da minorenni non ha valore legale, chi sostiene che suo figlio/a è stato costretto a firmare con la violenza e chi chiama conoscenti per fare pubblicare anonimamente notizie fantasiose, o quanto meno abbastanza distorte, il quadretto che se ne ricava è decisamente poco edificante.

Incidentalmente, mi fa specie che Raimo, di cui ho in generale una certa stima, si sia lanciato (ammesso che sia vero, poi, e che le parole siano davvero sue) a denunciare che l’attività proposta sarebbe addirittura in contraddizione con ogni principio pedagogico. Suvvia. A me pare molto più in contraddizione con i principi pedagogici insegnare ai nostri figli che in fondo nulla comporta alcuna responsabilità, che rivendicare la propria adesione a una protesta è da idioti, che si possono aggirare eventuali sanzioni facendo la voce grossa e chiamando gli amici giornalisti per ridicolizzare chi non li ha.

I ragazzi, sia pure nell’ingenuità della loro età, un po’ di politica provano a farla. Condividere le decisioni come gruppo, perdere tempo e fatica per informare il più possibile i partecipanti attraverso i rappresentanti di classe e assumersi le conseguenze delle proprie azioni (gli studenti hanno organizzato di loro iniziativa una colletta per contribuire a riparare i danni dell’occupazione) mi paiono tutti atti politici, in cui il concetto di bene comune pare avere un peso.

Noi genitori al contrario ci siamo ricordati di avere dei rappresentanti solo per “chiedere conto” della nota arrivata sul registro a nostro/a figlio/a e poi qualcuno, non ritenendo realistico ottenere riparazione al torto attraverso la strada della class action, ha ritenuto più efficace attivare le proprie conoscenze facendo uso personale di un quotidiano nazionale (che si presta a pubblicare una non notizia, senza praticamente nessun approfondimento). In ciascuna di queste azioni si riflette tutto lo squallore che io continuo a sperare che non sia una deriva inevitabile.

E forse non lo sarà, se non calpestiamo il positivo che viene dai nostri giovani, ma magari lo aiutiamo a venir fuori e a crescere, strappando qualche erbaccia che lo soffoca. Io credo che questo sarebbe il nostro preciso dovere di genitori, di insegnanti e di cittadini in generale. Certo, è un lavoro molto più faticoso di fare i tifosi, i sindacalisti o gli addestratori dei nostri figli. Ma questo ci è richiesto.

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