Conversazioni in Calabria

Chissà perché i treni quando vanno verso sud mi paiono più lenti di quando vanno verso nord. Le 4 ore abbondanti di viaggio verso Vibo Valentia sembrano infinite e le ho passate per lo più immersa nella lettura del mio Kindle, cercando di ridurre al minimo i contatti fisici e verbali con gli altri passeggeri. Poi però, quando siamo avvicinandoci alla meta, la coppia che mi siede accanto inizia a chiacchierare con il ragazzo seduto di fronte a me e a quel punto non posso fare a meno di partecipare. E meno male.

Il giovane atletico che ho davanti, che a Roma aveva la normale espressione del viaggiatore standard, ora che abbiamo varcato il confine regionale pare trasfigurato di felicità. “Sono stato in servizio sette mesi a Verbania”, sta spiegando ai vicini di posto. “Finalmente ho ottenuto il trasferimento e glielo ho già detto, alla mia fidanzata: io da qui non mi sposto più. Ci ho provato, davvero, ma io lontano dalla Calabria non posso proprio stare. Per carità, ci sono dei servizi che noi ce li sogniamo. Si vive comodi. Ma a che serve avere servizi se non si è felici? Intanto il mare. Tre tatuaggi del mare mi sono fatto fare, in questo periodo che sono stato lontano. La luce, il sole, i colori. E il cibo. Spendevo un patrimonio per del cibo che non sapeva di niente. Io ora che ho arrivo a casa so già che mi aspetta: pomodori e cipolla di Tropea, gliel’ho detto a mia mamma. Meglio di così non esiste. E poi le persone: gentili, per carità, ma fredde, distanti. Niente, io sono nato per vivere qui. Sono stato fortunato, ora ne ho l’opportunità e non ho intenzione di sprecarla”.

La coppia accanto ha tre figli grandi, che in occasione della laurea della più piccola hanno regalato una crociera ai genitori per festeggiare “la fine dei figli a carico”. “A mio figlio avevano offerto un’opportunità di lavoro a Milano, molto ben retribuita. Ma lui preferisce restare dov’è. Per fortuna il lavoro non gli manca, al limite viaggia. È molto richiesto, come commercialista. Ma di trasferirsi non vuole sentirne parlare. Per fortuna hanno studiato tutti e tre, brillantemente. Mantenerli agli studi fuori è stato un sacrificio. Ma ora possono scegliere e finora hanno scelto di vivere in Calabria. E credo che se potranno continueranno così. La famiglia per noi conta qualcosa…”.

Il giorno dopo racconto questa conversazione al tassista, un uomo ormai alle soglie della pensione. “Non lo dica a me, capisco benissimo. Lo sa che lavoro facevo io? Il macchinista di treni. Negli anni ’80 mi assumono in ferrovia, una posizione molto ambita. Ma mi mandano a Trieste. A me, a Trieste. Ho resistito per due anni, ma quanto ho sofferto. Le persone erano più fredde e ostili del clima. Parlavano apposta non italiano, perché non capissi. E io rispondevo in calabrese. Quelli non si sentono neanche italiani, con uno come me non volevano averci niente a che spartire. Ho chiesto trasferimento, ovunque: a Napoli, a Messina, a Palermo, ma pure a Roma mi sarebbe andato bene. Niente, mi hanno detto che prima di dieci anni non mi avrebbero spostato da nessuna parte. Allora ho presentato le dimissioni. La prima lettera la hanno strappata, il mio dirigente non ci voleva credere. Pensava che fossi impazzito. Allora ho chiesto di nuovo trasferimento e di nuovo me lo hanno negato. A quel punto ho scritto un’altra lettera e mi sono assicurato che la protocollassero. Non me ne sono mai pentito. Io penso che un uomo deve morire dove è nato. Magari vivere lontano, certe volte si deve per forza. Penso a tutti quelli che se ne sono dovuti andare in America, in Australia, dall’altro capo del mondo. Ma almeno da vecchi tutti dovrebbero poter tornare a casa”.

Non mi trattengo e gli faccio notare quante persone sono oggi costrette a arrivare qui, dall’altro capo del mondo, e magari provano sentimenti e sofferenze simili. “Dice? Non so se per loro è uguale. Quelli sono musulmani…”. Poi ci pensa un attimo e aggiunge: “Però mi sa che ha ragione. Tutti uomini siamo”.

Già. Penso a questa terra che di umanità trabocca e che a volte si perde e affoga nella mancanza di servizi. A quanto si potrebbe fare (e qualche volta si riesce a fare) mettendo le cose in una prospettiva diversa e valorizzando le idee, l’entusiasmo, il calore che c’è. Oggi a una riunione in Prefettura ho sentito parlare dell’importanza del successo scolastico dei giovani di origine straniera e del contributo che potrebbero dare per il futuro di questa terra. Sono discorsi non ovvi di questi tempi, in questo momento politico, in un luogo in cui perdersi nell’ultima emergenza è fin troppo facile.

Come fare perché tutte queste potenzialità non vadano sprecate? Certe volte pare di svuotare il mare con un cucchiaino. Viene da pensare che tutto è inutile, che non valga neanche la pena di credere che un cambiamento sia possibile. E invece vale sempre la pena di credere nella bellezza delle persone e nel loro potere di trasformare la realtà. “Ormai è una parolaccia”, scriveva monsignor Bregantini, un trentino che a queste terre ha dedicato un impegno lungo e sincero. Quasi quasi stasera mi rileggo il suo libro.

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