Parare i colpi


Mala tempora currunt. E non accennano minimamente a migliorare. Bersagliati da notizie funeste da ogni parte, io e la mia bolla di amici ci barcameniamo tra la tentazione di imporci di fare gli struzzi e quella di rintanarci nel nostro piccolo privato (il che ovviamente vale per quei pochi che, per dirla con De André, “hanno una donna e qualcosa”: in caso contrario, il piccolo privato rischia di essere più angoscioso dello scenario globale).

L’ennesimo femminicidio nei giorni scorsi ha dato il via a una serie di commenti sui social e in parte anche fuori dai social che, se possibile, mi hanno ulteriormente intristito. Stamattina la mia amica Valentina ha espresso molto bene quella che era anche la mia perplessità: ma siamo davvero così sicuri di poter dare la responsabilità di un delitto commesso da un giovane di 22 anni ai suoi genitori? Io da parte mia non faccio che constatare che, per quanto mi adoperi, la maggior parte delle cose, incluse quelle che riguardano mia figlia, sfuggono fatalmente al mio controllo. E magari è meglio, perché onestamente non credo di essere proprio la persona più adatta a determinare le sorti dell’universo.

Mi sento di dire che da genitore mi pare ovvio mettercela tutta, investire tutto il mio cuore, tutta la mia anima e tutta la mia mente, e in adolescenza questo qualche volta può implicare perdere il proprio equilibrio e la propria sanità mentale, eppure essere disposti a ricominciare il giorno dopo. Eppure, pur facendolo, sono piú gli errori che le cose ben fatte e, soprattutto, questo non ci dà nessuna garanzia né tanto meno potere. Io ho esposto mia figlia almeno in un paio di occasioni, a meno di 15 anni, al rischio molto concreto di subire violenza. È andata bene, ma poteva andare male, malissimo. Certe volte la cosa mi tiene sveglia la notte ancora oggi, ma non so se in futuro valuterei diversamente.

Questo discorso però mi ha portato anche a farne un altro, leggermente diverso, con una collega. Notavamo, intorno a noi, un livello di crescente disagio e sofferenza dei nostri coetanei, che permea ormai quasi tutti i rapporti interpersonali e li rende faticosi, dolorosi e a tratti impossibili del tutto. La collega sosteneva che, mediamente, gli uomini sono messi peggio delle donne. Ci ho pensato un attimo e istintivamente mi veniva da concordare. Non perché noi donne soffriamo di meno, anzi: ma mediamente, stringendo molto i denti, andiamo avanti e teniamo i pezzi insieme. Stamattina, per dire, mi sarei volentieri rintanata sotto il letto come fa la mia gatta quando le cose non le vanno a genio. Però non l’ho fatto. Perché?

Direi che, statisticamente, una donna italiana difficilmente se lo potrebbe permettere, perché banalmente ha (o avverte) su di sé la responsabilità di qualcun altro: figlio/a, genitore anziano, altro parente, marito/compagno che (poverino) deve essere supporato, persona o animale a caso bisognosa/o di cura. E così lo stesso carico (irragionevole, inappropriato e a volte francamente ingiusto) di cui ci carichiamo istintivamente, finisce per essere quello che ci protegge dall’abisso. Paradossale, magari. Ma sospetto che ci sia del vero.

15 anni, quasi 16


Ho iniziato questa settimana del compleanno di Meryem in preda a sentimenti contrastanti. Venerdì sarà il giorno della fanciulla, ma questi giorni me li prendo io per rimuginare.

Finisce la serie di anni in cui ho vissuto una parte importante delle mie conoscenze dei panni della “mamma di”. Ora, ma già da un paio d’anni almeno, mi dico che dovrei rientrare nei miei panni di persona con un’identità propria. Non dico di non averla, una personalità mia, non fraintendetemi. Ma la mia “identità relazionale”, anche qui sul web, è stata per molti anni legata strettamente e persino, in qualche modo, legittimata dal mio status di genitore.

In fondo in fondo essere fin qui riuscita a interpretare il ruolo di madre, che non faceva di per sé necessariamente parte delle mie aspirazioni da ragazza, lo considero di gran lunga il mio successo più significativo – a tratti, nei momenti di pessimismo, l’unico.

Ora ovviamente il compito è tutt’altro che concluso. Ma è decisamente arrivato il momento, non più rimandabile, di combinare anche qualcos’altro. Perché sinceramente per ripiegare nello stereotipo che pure pare tornato prepotentemente in voga di “moglie e madre esemplare”, mi manca almeno il 50% del ruolo (oltre al fatto di essere esemplare, naturalmente).

E allora? Bisogna che mi dia una mossa e che la smetta di cercare scuse e di nascondermi dietro mia figlia, che è certamente uno splendore, ma che proprio per questo non merita di farmi da paravento.

Cadute di stile


Stamattina mi è stato segnalato l’articolo che illustra il post e il primo impulso è stato ignorarlo. Parla della scuola di mia figlia e di una questione che ho cercato di approfondire, soprattutto (ma non solo) negli ultimi due giorni, anche perché la sanzione disciplinare di cui si parla interessa anche Meryem. Ma poi l’ho letto e credo non sia del tutto ozioso condividere con voi alcune considerazioni.

Prima vi chiarisco il mio punto di osservazione, per dir così. Sono madre di una quindicenne che ha partecipato all’occupazione della sua scuola. Ne abbiamo parlato, e ho ritenuto, per le motivazioni che mi portava e per il suo percorso complessivo, di non vietarle di partecipare. Aggiungo che Meryem quest’anno è rappresentante della sua classe e io sono rappresentante dei genitori. Non per una strategia di presenzialismo familiare, ma perché nonostante le plurime delusioni vissute continuo a credere che interessarsi e partecipare nella scuola sia importante e, soprattutto laddove tutti si tirano indietro, sia anche una responsabilità. Responsabilità direi che è la parola chiave di questo post e forse mi azzarderei anche a dire che è uno dei valori che ritengo particolarmente importante trasmettere a mia figlia.

I fatti 

Dopo l’occupazione gli studenti, non ritenendo giusto che le responsabilità dell’occupazione ricadessero solo sui pochi che risultavano formalmente organizzatori, hanno preparato un documento dove chi aveva partecipato all’occupazione poteva firmare per esplicitare la propria adesione. La raccolta delle firme, che erano circa 500, è stata portata alla Preside dai rappresentanti degli studenti l’ultimo giorno prima delle vacanze. 

A gennaio si è tenuto un Collegio dei Docenti in cui, preso atto della raccolta firme, si è concluso  che la Preside, a coloro che avevano dichiarato di aver partecipato all’occupazione, emettesse in questo Primo Quadrimestre un richiamo scritto ( cd richiamo scritto del Dirigente Scolastico), cioè  una nota disciplinare del DS sul registro elettronico, e si prevedesse l’esclusione dai viaggi di istruzione e la partecipazione per 3 giorni al Progetto Colori. Il Progetto  Colori è un progetto creato dopo l’occupazione dell’anno scorso che prevede la ripittura e la riqualifica dei muri della scuola sotto la supervisione di una docente di storia dell’arte.

Sono cominciate a arrivare le prime note e – qui la fonte è la rappresentante dei genitori al consiglio di istituto, che conosce la giornalista di Repubblica autrice dell’articolo – un genitore, che ha voluto rimanere anonimo, ha mandato alla redazione la nota ricevuta dal figlio/dalla figlia, denunciando l’assurdità del provvedimento.

E qui faccio io qualche considerazione.

Non ho maturato, in questi due anni, una particolare stima per la dirigenza della scuola di mia figlia, che mi pare piuttosto rigida e improntata allo… scarico di responsabilità, più che alla promozione di scelte educative sensate. In questo caso particolare, penso che sarebbe stata auspicabile un po’ di comunicazione con le famiglie (la decisione del collegio dei docenti ad esempio poteva essere condivisa con i rappresentanti dei genitori) e magari dei toni un po’ diversi nel comminare la sanzione, onde evitare l’inevitabile effetto collaterale di trasmettere il messaggio che solo i fessi che si sono assunti la responsabilità saranno puniti e dunque i furbi che non l’hanno fatto risultano vincenti.

Tuttavia sono anche convinta che la sanzione ci dovesse essere: l’occupazione non è un’attività ricreativa ed è giusto che se si sceglie di violare le regole (fosse anche per una causa ritenuta importante) lo si faccia disposti ad assumersene le conseguenze. Peraltro, a parte i viaggi di istruzione che continuo a credere che non dovrebbero essere considerati un premio da meritarsi, ma parte integrante della didattica – e tuttavia su questo anche molti docenti la pensano di fatto come la dirigente e anche il modo in cui sono organizzati smentisce talora la mia convinzione – stavolta la “punizione” mi pare sensata, proporzionata e infatti gli studenti che hanno firmato non ne sono affatto turbati. Peraltro i loro rappresentanti li hanno informati regolarmente e tempestivamente di tutti i passaggi tramite chat e collettivi vari.

Temo che la figura peggiore in questa vicenda la facciamo noi genitori. Tra chi minaccia denunce perché il documento firmato da minorenni non ha valore legale, chi sostiene che suo figlio/a è stato costretto a firmare con la violenza e chi chiama conoscenti per fare pubblicare anonimamente notizie fantasiose, o quanto meno abbastanza distorte, il quadretto che se ne ricava è decisamente poco edificante.

Incidentalmente, mi fa specie che Raimo, di cui ho in generale una certa stima, si sia lanciato (ammesso che sia vero, poi, e che le parole siano davvero sue) a denunciare che l’attività proposta sarebbe addirittura in contraddizione con ogni principio pedagogico. Suvvia. A me pare molto più in contraddizione con i principi pedagogici insegnare ai nostri figli che in fondo nulla comporta alcuna responsabilità, che rivendicare la propria adesione a una protesta è da idioti, che si possono aggirare eventuali sanzioni facendo la voce grossa e chiamando gli amici giornalisti per ridicolizzare chi non li ha.

I ragazzi, sia pure nell’ingenuità della loro età, un po’ di politica provano a farla. Condividere le decisioni come gruppo, perdere tempo e fatica per informare il più possibile i partecipanti attraverso i rappresentanti di classe e assumersi le conseguenze delle proprie azioni (gli studenti hanno organizzato di loro iniziativa una colletta per contribuire a riparare i danni dell’occupazione) mi paiono tutti atti politici, in cui il concetto di bene comune pare avere un peso.

Noi genitori al contrario ci siamo ricordati di avere dei rappresentanti solo per “chiedere conto” della nota arrivata sul registro a nostro/a figlio/a e poi qualcuno, non ritenendo realistico ottenere riparazione al torto attraverso la strada della class action, ha ritenuto più efficace attivare le proprie conoscenze facendo uso personale di un quotidiano nazionale (che si presta a pubblicare una non notizia, senza praticamente nessun approfondimento). In ciascuna di queste azioni si riflette tutto lo squallore che io continuo a sperare che non sia una deriva inevitabile.

E forse non lo sarà, se non calpestiamo il positivo che viene dai nostri giovani, ma magari lo aiutiamo a venir fuori e a crescere, strappando qualche erbaccia che lo soffoca. Io credo che questo sarebbe il nostro preciso dovere di genitori, di insegnanti e di cittadini in generale. Certo, è un lavoro molto più faticoso di fare i tifosi, i sindacalisti o gli addestratori dei nostri figli. Ma questo ci è richiesto.

Red


Questa era una buona sera per vedere Red con Meryem e sono stata contenta che me lo abbia proposto. Perché in almeno tre momenti nel corso della giornata, anche se non lo sapevo ancora, mi sono trovata a controllare il respiro per evitare che mi spuntasse la coda pelosa del panda rosso.

In uno di questi tre momenti, ad essere onesti, un artigliata verbale mi è sfuggita. Ma mi consola pensare che in fondo tanti lo sanno e questo film lo racconta proprio bene: essere donna e dunque figlia femmina e madre di figlia femmina non è uno scherzo.

Aspettative, docilità, obbedienza. La mia adolescenza è stata molto caratterizzata dal compiacere i miei genitori, abbastanza pedissequamente. Non so se ho davvero mai disobbedito, visto che quelle che ricordo come trasgressioni oggi fanno solo sorridere e difficilmente potrebbero essere considerate tali.

E quindi, almeno in alcuni aspetti rilevanti, a Meryem ho voluto dare la libertà e la leggerezza che io non ho mai conosciuto. Non me ne pento, ma non è una passeggiata. Non lo è stato in questo weekend che si è appena concluso, ma non lo è quasi mai, dalla scorsa estate. Perché, come dicono le serie americane, “it comes with a price”.

Proprio oggi leggevo del fatto che la corteccia cerebrale degli adolescenti non si sviluppa del tutto fino a 25 anni e dunque per quanto svegli siano, non ci si può aspettare che non siano avventati e a volte completamente fuori spazio tempo. Chissà se ho capito bene. Tuttavia una cosa è certa: a questa età la libertà non sono capaci di gestirla. Ma ciò non toglie che, guardando coraggiosamente avanti, questa libertà bisogna secondo me dargliela comunque, tenendosi pronti a raccogliere i cocci.

Ne ho raccolto un pochino di cocci negli ultimi mesi, ma questo ovviamente non mi dà il diritto di intromettermi. E allora guardo, consapevole di non capire, incapace di tenermi sul serio ad distanza, ma allo stesso tempo oggi accusata di essere stata poco accogliente se non addirittura scostante.

E poi si ricomincia, di errore in errore, soffiando via le nuvole rosa di polvere e di pelo che a volte ci offuscano la vista, sperando di essere capace di essere fiera di lei perché si allontana, essere capace di frenare il mio istinto di trattenerla e così di intrappolarla.

Mi guarderà mai con quella empatia e comprensione che il film lascia intravvedere? La cosa più dura è leggere il giudizio negli occhi degli adolescenti, il disprezzo noncurante di chi ti vede solo patetico. In quei momenti la zampata è sempre in agguato

Immagino


Una serata tranquilla sul divano a immaginare altrui felicità. Quella di Meryem, che sta facendo il primo weekend fuori con gli amici della nuova classe e oggi, alle cinque, ha fatto il primo bagno al mare dell’anno e sembrava estate. E io penso che probabilmente è la prima volta che succede, che io non sia a fare quel primo bagno con lei, e sarà certamente l’inizio di una nuova normalità.

Staccarsi da lei. Mi ci preparo da anni, con la testa, ma continua ad essere durissima. Eppure mi è stato così facile sentire chiaramente che lei non era me, fin da quando non era ancora nata e dormiva nella mia pancia a orari diversi dai miei. Poi però ci sono stati 14 anni di giorni che si susseguivano, prima con lei in braccio, poi con lei per mano, infine con lei che allungava il passo davanti a me.

Oggi è ancora un po’ più difficile. Perché oggi oltre al bagno in mare senza di me ormai ci sono ampi spazi nel suo cuore a cui io non posso avere accesso. La guardo, e immagino. Immagino anche troppo, dietro una porta a volte chiusa e a volte no. Immagino cosa può aver suscitato una risposta brusca o un sorriso. Ma poi se immagino troppo finisce che faccio invasione di campo, che mi distraggo dall’unica cosa che davvero conta per me: lei.

E allora stasera mi concedo, da lontano, solo un’ultima immaginazione: quella di una felicità che non conosco e non conoscerò e che spero accompagni i prossimi mesi se, come temo, saranno in salita.

Festa della mamma


Più del mazzo di garofanini inaspettatamente ricevuto ieri, il regalo più importate per la festa della mamma Meryem me lo ha fatto sabato sera, in una chiacchierata mentre tornavamo a casa. “Se penso a quando ero piccola, io ricordo che tu c’eri. Ora so che ovviamente tu lavoravi molte ore fuori casa, che ogni tanto anche partivi, ma comunque non ho mai avuto la sensazione che fossi distante o non ti importasse”.

E quindi quel tratto di strada sono riuscita a farlo. Mi pareva difficilissimo, a tratti impossibile. Ricordo le corse, l’ansia, il senso perenne di inadeguatezza, il tetris dei saggi di fine d’anno, il compleanno che coincideva sempre con la giornata del rifugiato. Per non parlare delle decisioni più gravi, delle vacanze da sole, dell’infinita lista di cose che non potevo darle (e che ancora oggi, in parte, mi tormenta). Guardo indietro e mi dico che è andata e forse è andata meglio di quanto avrei valutato io.

Ora si naviga in acque nuove ed è ancora più difficile di prima. Trovare la giusta distanza, da madre di adolescente, è un impresa fatta di equilibri millimetrici, sbandate, schiarite, consapevolezza di una serie infinita di errori di valutazione. Non capisco, maledizione, non capisco. E non sono più questioni meramente logistiche.

La guardavo ieri correre per il vialetto condominiale, con le gambe lunghe e i capelli al vento, scintillante di fragile felicità. La devo proteggere? La posso proteggere? O devo solo aspettare con fede che si faccia largo, come tutti noi, nel groviglio che la vita le metterà davanti, senza l’illusione di scostare io i rovi che la graffieranno? In cuor mio so la risposta, ma non è facile lo stesso.

Luoghi comuni


Non me la sono mai cavata troppo bene con le vicende sentimentali. Non con le mie e neppure con quelle altrui. Non ricordo, infatti, grandi confidenze in merito da parte delle mie amiche. Pescando proprio nella memoria, ricordo una notte di capodanno passata a girare un po’ a casaccio con una compagna di studi che aveva preso la decisione di mollare il suo fidanzato storico per concedersi di più e di meglio. Oggi sono sposati con un figlio quasi adolescente e di quella notte di ribellione ricordo poco (ma temo che non sia per la lieve sbronza, quanto per il fatto che ci fosse ben poco di memorabile).

Ho coltivato con fedeltà commovente fino al masochismo storici amori non corrisposti. Uno, in particolare, mi ha accompagnato per una parte significativa della mia giovinezza e si è distinto perché, almeno per un po’, qualcuno ha creduto che potesse anche avere una qualche forma di concretizzazione. “Vedrai, non dura”, mi disse un’amica quando lui si fidanzò con una bionda apparentemente distante mille miglia dalle profondità intellettuali che ero convinta che condividessimo. Decine di anni dopo sono ancora sposati e hanno due figli.

Forse capirete che i tormenti sentimentali degli adolescenti mi fanno agitare sulla sedia e che vorrei tanto non vederli e non sentirli. Ma questo al moderno genitore empatico pare non riesca proprio. E quindi mi barcameno a tentativi, come riesco, difendendomi come posso e selezionando i messaggi. Perché tirare fuori i luoghi comuni sui maschi per una zitella come me è fin troppo facile. A piccole dosi serve persino.

Ma una cosa mi preme riuscire a ripeterla comunque: di innamorarsi vale sempre la pena, che poi è un po’ come dire che di vivere vale sempre la pena. È facile dirlo quando gli uccellini cinguettano e tutto va per il meglio. In quel caso, anzi, a nessuno verrebbe in mente nemmeno di pensarlo, per quanto è autoevidente. È quando ti viene il dubbio di aver sempre frainteso, quando anche nei ricordi più dolci si insinua il dubbio, che è importante ricordarlo a se stessi.

Non rimpiango neanche un giorno speso ad amare, chi se lo meritava, ma anche chi ha abbondantemente dimostrato di non meritarselo. E, per giunta, sono fiera di non essermi fatta furba nel frattempo. Oddio, magari un pochino non guasterebbe. Diciamo che sono fiera di essere ancora capace di entusiasmarmi e di affezionarmi, a costo di sembrare ingenua, perché in fondo quello che mi fa sorridere da sola per strada, il più delle volte, val bene qualche doccia fredda di tanto in tanto.

Il tempo perduto per la tua rosa


C’è stata una fase della mia giovinezza in cui amavo – forse come tutti – Il Piccolo Principe. Ricordo di averne regalate copie in lingue diverse, di averlo posseduto anche in quelle esotiche del mio cuore, il turco e l’ebraico. Per questo, ad esempio, sapevo anche una piccola curiosità rispetto alla traduzione turca, ma non è rilevante per i pensieri di oggi.

Poi l’ho odiato. Mi è apparso improvvisamente banale, dozzinale. Mi irritava che venisse tanto utilizzato come libro per i bambini, quando mi pareva evidente che non fosse poi tanto efficace né adeguato.

Oggi improvvisamente ripenso a una frase della volpe al Piccolo Principe, che lui ripete per non dimenticarla: “È il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha reso la tua rosa così importante”. Il Piccolo Principe era rimasto deluso e amareggiato vedendo sulla terra che le rose sono comunissime e la sua non era unica come diceva di essere.

Capita, certamente, che di colpo di cada il velo dagli occhi e che capiamo che in fondo la persona che era così unica ai nostri occhi, in realtà non lo è affatto. Che quei momenti che credevamo così speciali e non etichettabili, forse visti con il senno del poi non erano poi così fuori dall’ordinario. E, come le cose ordinarie, hanno una loro parabola di vita. Si trasformano, crescono o si ridimensionano, fioriscono o appassiscono. A seconda dei casi, ma senza quell’alone di entusiasmante mistero che le avvolgeva all’inizio.

È davvero il tempo che abbiamo buttato appresso a una rosa che la rende importate? Ancora oggi non lo so. Mi viene da pensare che un po’ dipende anche dalla rosa, perché, nonostante le apparenze, le rose non sono tutte uguali. Certe volte credo si debba accettare che il tempo buttato non ha reso nessuno più importante. Forse ha reso noi un po’ più poveri e amareggiati. Capita, e si può solo farci pace, prima o poi.

Altre volte forse accudire quella rosa è stata comunque un’esperienza bella, che non ci dispiacerà di aver fatto. Non che il tempo dia valore di per sé a qualcosa che magari ne ha poco, ma piuttosto quel tempo ha avuto un valore. E allora, guardandosi indietro, qualcosa resta. Difficilmente è sufficiente per non avere rimpianti, ma qualcosa resta.

Tempesta


Quest’anno la primavera pareva arrivata e poi, improvvisamente, le temperature sono calate. Ha nevicato, persino. Non ha solo piovuto: ha grandinato, con chicchi enormi e violenti. Ottime metafore atmosferiche, mi sono sorpresa a pensare, del mio ultimo weekend con la mia adolescente preferita.

Va così, dunque. Di colpo mi sono trovata per l’ennesima volta spiazzata. Perché il punto è che non capisco proprio mia figlia, non capisco le sue comunicazioni, le sue reazioni e dunque mi pare di essere sempre fuori tempo e fuori luogo.

Ricordo quando era piccola che avevo registrato che in alcune circostanze i bambini bisogna contenerli. Ma come si contiene la tempesta emotiva di una quattordicenne? Mi sono sentita come se stessi tentando di arginare con un dito una diga che crolla. E quindi l’ondata della piena ha investito e travolto anche me.

Però io in questa circostanza non devo essere Chiara, o almeno non prioritariamente. Serve che sia sua madre, prima di tutto. E allora mentre aspettavo che quella specie di tromba d’aria passasse da sola (e non certo per merito mio), ho fatto una fatica bestiale per non lasciare spazio ai sentimenti che comunque sentivo. Il senso di perdita, in primo luogo. L’impotenza. I dubbi, che non mi lasciano mai.

Ma onestamente capisco che la cosa più dura non è stato tanto vederla soffrire, o immaginare che potrebbe soffrire di nuovo: piuttosto è stato il dover rinunciare a un’immagine che mi piaceva, a un racconto che mi ero costruita e in cui in cuor mio avevo persino un piccolo ruolo. E invece no, trovandomi sbattuta fuori all’improvviso, ho realizzato che quel ruolo era solo nella mia testa.

Adesso sono di nuovo qui sul solito divano dilaniato dal gatto, dove quando riesco trattengo il fiato e cerco di non sbagliare troppo. Ma un po’ di fantasticherie, anche adesso, non me le nego. Dico a me stessa quello che provo a dire anche a lei: cerca di non farti troppo male.

Erba gatta


Ieri sera, tornando a casa, ho visto che l’erba gatta che avevo comprato settimane fa per Zoe detta Zozo, il nostro felino di casa, si era afflosciata sul pavimento. Evidentemente il sistema di irrigazione dal basso che credevo di aver messo in atto non è risultato efficace. Allora ho provveduto a mettere il vasetto a mollo nel lavello e con questa manovra di emergenza l’erba si è rianimata.

L’operazione mi ha fatto venire in mente che come da qualche parte e in qualche modo devo aver imparato che quello che ho fatto è la cosa giusta da fare in caso di erba afflosciata, così in questo ultimo anno mi pare di aver imparato a fare con la mia anima. Ogni tanto stramazzo. Spesso. Stanchezza, scoraggiamento, solitudine. Non ultimi, i colpi ben assestati della mia adolescente domestica, che non lo fa per cattiveria, ma farmi a pezzi è un po’ il suo lavoro e lo fa con un certo zelo.

Sono però fiera di riconoscermi un ormai consolidato repertorio di manovre di emergenza per reidratare l’anima rinsecchita. Lo scorso weekend ad esempio un paio di film inglesi ben assestati hanno fatto miracoli (Assassinio sul Nilo e, soprattutto, Il ritratto del duca). Il Baingan bharta, la versione indiana del mutabbal (crema di melanzane affumicate al forno con aromi vari), ben accompagnato da pane morbido, sbracata sul divano, è un altro rimedio che funziona.

Ma più di ogni altra cosa giova ricevere una telefonata inaspettata. L’ho già detto in un’altra occasione: io non ho gli amici con cui vado a mangiare la pizza tutti i sabati, inseriti in cornici regolari di frequentazioni e consuetudini. Ma questo non vuol dire che non ne ho. Anzi, ho amici che mi vogliono molto bene e che spesso mi stupiscono per l’intensità del loro affetto e della stima che mi dimostrano. Sono anche loro un po’ resistenti agli schemi, sparsi in luoghi diversi, “non conformi” e a volte silenti, come me, per mesi o per anni.

Poi mi arriva una telefonata, un messaggio. O, come l’altro ieri, uno di loro va in classe di mia figlia e lei da quel breve scambio coglie un lampo di qualcosa che non conosce se non in teoria, la mia vita prima di lei e oltre lei.

A volte mi arrivano velate critiche perché condivido molto della mia quotidianità sui social. Ma più o meno consapevolmente lo faccio anche perché so che c’è un drappello di amici lontani che guarda, registra, segue con affetto. E io ogni mattina, attraverso il vituperato Facebook, menziono a un amico gesuita le persone che voglio che ricordi quando celebra la Messa. Molti di loro riderebbero se lo sapessero. Ma anche questa che ormai è un’abitudine quotidiana per me è un filo, un legame, tra le varie parti di me e tra il mio passato e il mio presente, che considero prezioso.