Ogni tanto, nelle ultime settimane, mi trovo a chiedermi, con un’amica con cui condividiamo sospiri e lamentazioni: “Ma tu faresti a cambio?”. Che tradotto vuol dire: “La vorresti la vita di x o di y, che apparentemente non è manchevole delle carenze di cui noi ci lamentiamo (e non sto neanche a esplicitare, tanto ve le immaginate facilmente)?”.
E, inspiegabilmente – ma neanche tanto – la risposta è puntualmente: “No, mille volte no”. Perché alla fine noi ci lamentiamo, ma in fin dei conti non è mica un caso che ci troviamo in questa collocazione un po’, per dir così, sbilenca rispetto al corso medio delle esistenze altrui. Stare scomode alla fine non è che proprio ci piaccia, ma certamente ci sono cose che ci farebbero stare ben peggio. Allora il dubbio sorge spontaneo: non sarà che sono proprio quelle cose il ragionevole prezzo di quello che pure ci diciamo di desiderare?
Qualche giorno fa mi sono sentita dire, tra il serio e il faceto, che sono condannata alla solitudine. La solitudine non la amo (e questo è un eufemismo). Ma anche se mia figlia adolescente mi accusa di essere una “sottona” (direi che potrebbe tradursi come “eccessivamente accomodante ai limiti del succube nei confronti della persona a cui sono affettivamente legata”), mi pare evidente che in tutti questi anni non ho mai smesso di essere me.
Non è che essere me mi renda necessariamente fiera. Ho molti difetti che mi fanno rabbia e che vorrei essere capace almeno di attenuare. Ma più passa il tempo più me ne convinco: nel complesso mi apprezzo. Mi riconosco alcune qualità (molto diverse da quelle che credevo importanti quando ero giovane) e non esiterei a definirmi una persona più che decente. Confesso che addirittura alcuni tratti del mio carattere mi piacciono molto. Io mi vorrei come amica, pur riconoscendo che sono impegnativa.
Il tutto per dire che se continuare a essere me (possibilmente la miglior versione di me a cui riesco ad arrivare, si intende) mi condanna alla solitudine, me ne farò una ragione. E in fondo in fondo non perdo le speranze che la condanna non sia definitiva. Perché la capacità innata di sognare con infantile spudoratezza, a dispetto di ogni dato di realtà, è probabilmente uno dei tratti di me che amo di più.