B. è un’altra delle donne forti che incontro a Ottati. In carcere in Libia c’è stata con il marito e con due gemelli nati da poco. Ha lottato come una leonessa per arrivare qui e anche oggi non è disposta a cedere di un millimetro. Se c’è da andare a prendere per un orecchio il marito che tarda al bar, lo fa. Se c’è da affrontare una scalinata spingendo sotto il sole il passeggino gemellare, lo fa. Viso largo, sguardo duro.
Ma poi le chiedo se sente la famiglia in Ghana e le trema la voce. “Sì, sento mia madre, vedova e invalida. Con lei sta mia figlia, la più grande. Ha 13 anni. Ci pensa lei”. Ci guardiamo. Silenzio. Si affretta ad aggiungere che 11 anni fa, quando lei e il marito sono andati in Libia a cercare lavoro, non aveva idea che non sarebbero più riusciti a tornare indietro. Lei aveva due anni, il viaggio molto pericoloso. Sembrava ragionevole lasciarla alla nonna. “Se solo avessi immaginato, non l’avrei mai lasciata. Mai”.
Per B. il dolore più grande è quella ragazza diventata adulta troppo presto, che non la aspetta più e che per strada non la riconoscerebbe. Più della Libia, più delle violenze, più delle incertezze del futuro, quella figlia incolume ma perduta le pesa sul cuore.
Terribile, straziante.