I progetti sono croce e delizia di chi lavora nel sociale in genere, e mia in particolare. Sono a volte opportunità uniche di fare le cose in modo diverso, di incontrare persone interessanti, di essere più o meno costretti a pensare al di là dell’attività quotidiana. Sono anche, spesso, lavoro inutile, burocratico, a tratti troppo teorico, che non cambia davvero le cose, che non riesce a toccare la sostanza. Per non parlare della frustrazione del fatto che i progetti tipicamente finiscono esattamente quando servirebbe che funzionassero, magari proprio nel momento in cui finalmente iniziano a ingranare.
Da molti anni ormai i progetti sono una parte molto rilevante del mio lavoro: pensarli, scriverli, negoziarli, farli funzionare, raccontarli. Ci sono momenti in cui non li amo, ma in generale ne subisco il fascino. Due o tre poi sono rimasti davvero nel mio cuore, fino ad oggi, insieme alle persone che li hanno condivisi con me.
La prossima settimana ci sarà la conferenza finale di un progetto che ho seguito fin da quando ho iniziato a lavorare all’IPRS, un anno e mezzo fa. Un progetto dedicato alla salute mentale dei migranti forzati e a come tutelarla e promuoverla nei sistemi di accoglienza. Posso dire che è stato un successo almeno per quanto riguarda il contributo che ha dato alla mia salute mentale. Non ho più molte occasioni, negli ultimi anni, di fare conversazioni significative con delle persone rifugiate. E’ un peccato e un grande impoverimento. Per Psychcare posso dire davvero di aver preso la palla al balzo per parlare con più persone possibili (qualcosa vi ho già raccontato: qui, qui, qui, qui e qui) e per ricordare, in primis a me stessa, a cosa dovrebbero servire i nostri report. A cambiare le cose.
Oggi voglio condividere con voi una storia che mi ha raccontato un uomo gambiano, nella sede di un’associazione di volontariato davanti alla Stazione di Roma Termini. Avrei voluto inserirla nella pubblicazione finale, ma non avendo potuto farlo la scrivo qui. Per non dimenticarla, in tutta la sua durezza. (I lettori più attenti ricorderanno che ne avevo già parlato, per accenni: ma oggi ve la voglio far leggere tutta).
Sono arrivato a Lampedusa nel 2007. Mi hanno trasferito a Milano e lì sono stato ospite di almeno 4 diversi centri di accoglienza, per un periodo complessivo di quasi 4 anni. Il diniego della Commissione Territoriale mi è arrivato nel 2010. Secondo me la Commissione non mi ha capito, l’interprete non parlava esattamente la mia lingua. In ogni caso, non mi hanno creduto. Quando è arrivato il diniego, mi sono sentito tradito. Tradito da questo Paese. Al centro mi avevano detto che dovevo andare a scuola, seguire corsi, rispettare le regole. Io l’ho sempre fatto, sono una brava persona. Volevo fare le cose per bene. Sono andato a fare corsi persino a Bologna, avevo tutte le carte in regola. Giocavo a calcio. Poi però non mi hanno lasciato nessuna possibilità, tutte le strade per me erano chiuse perché non mi hanno creduto.
Mi sono spostato a Roma e ho provato a presentare un’altra domanda d’asilo. Ma in Questura ho trovato soltanto problemi. Credo di esserci andato almeno 32 volte. Mi hanno dato un permesso di soggiorno provvisorio di sei mesi, ma alla fine non mi hanno mai convocato in commissione. Un’altra possibilità non hanno voluto darmela. Allora tra il 2015 e il 2018 me ne sono andato a Foggia. Non solo a Foggia: anche a Rosarno, a Castel Volturno. Lavoravo nei campi, senza dare fastidio a nessuno. Mi pagavano pochissimo, ma almeno avevo qualche soldo sul cellulare per chiamare mia madre. Mio padre è morto quando ero piccolo, mia sorella è sposata e mia madre è rimasta sola. La vita a Foggia in particolare era molto dura. Tutti i pochi documenti che avevo li ho persi in uno dei tanti incendi. Mi sono rovinato la salute. A un certo punto tossivo sangue. Mi sono ferito in più punti [nota dell’intervistatore: mostra varie cicatrici, sulle mani e sulle gambe]. Non ero più in grado di lavorare e allora un amico mi ha consigliato di tornare a Roma per curarmi.
Sono tornato in città lo scorso dicembre. Da allora le cose vanno peggio che mai. Dormo alla stazione Tiburtina. I medici del San Gallicano mi seguono, mi hanno mandato in diversi ospedali per fare analisi, radiografie… [nota dell’intervistatore: mostra pacchi di radiografie, ecografie, analisi, ricette mediche…]. Ora dicono che mi devo operare, ma io non voglio. Non ho un posto dove dormire, non ho documenti… Come dovrei fare? Qui alla Casa dei diritti Sociali mi hanno comprato questo zainetto, così mi posso portare sempre dietro le medicine e i documenti. L’avvocato dice che per me l’unica possibilità è avere un permesso di soggiorno per cure mediche, ma mi hanno spiegato che anche se me lo dessero con quello non potrei lavorare. Quindi la mia situazione non si risolverebbe.
Sono qui da 12 anni e non ho fatto niente. Gli amici mi dicono di andare in Spagna, o in Germania. Conosco alcuni che lavorano lì in agricoltura anche per 7, 8 o persino 10 euro all’ora. Ma come faccio senza documenti? Per giunta il problema in Questura ormai non si può più risolvere. L’ultima volta mi hanno detto che se torno lì ancora una volta mi arrestano. Vedi? C’è scritto qui [nota dell’intervistatore: mostra un tagliandino tagliato a metà, in cui in effetti non c’è scritto nulla del genere]. Perché? Perché mi hanno fermato due, anzi tre volte a Piazza Vittorio. I poliziotti sono così, vedono un gruppo di africani, magari uno fuma, ha qualche grammo di hashish, e loro arrestano tutti. Io non fumo, non bevo. Ma importa qualcosa a qualcuno? Che conta? A loro basta che non mi faccia vedere. A Foggia, in campagna, non davo fastidio a nessuno. Se non mi ammalavo restavo lì.
Tra l’altro da quando sono tornato a Roma non ho soldi. Non ho più potuto parlare con mia madre e lei qualche giorno fa è morta. Dopo la fine del Ramadan [inizio di giugno] non l’ho più sentita e lei adesso è morta. Che ci vuoi fare, Dio ha voluto così.
Come sono andato avanti in Italia tutto questo tempo? Posso dire che qui in Italia non mi ha aiutato nessuno. Ci sono solo io, vado avanti solo con le mie forze. Molte persone italiane sono brave, c’è chi mi aiuta senza volere niente in cambio. Ma il governo è contro di me, contro di noi. Si parla di diritti, ma quali diritti? I diritti umani non li vedo. Non è colpa mia se non hanno voluto credermi. Non è colpa mia se non mi danno nessuna possibilità.
Grazie, Chiara