Dodici anni

Dodici anni fa è nata mia figlia. Dodici anni fa, nel 2007, forse d’estate ma non ne sono sicura, F. è arrivato a Lampedusa. Uno studente universitario gambiano che cercava in Europa, come tanti suoi coetanei, democrazia e libertà. E, come molti suoi coetanei, vedeva questo perfettamente compatibile con una gran voglia di darsi da fare, di combinare qualcosa nella vita e anche di dare una mano alla sua mamma, vedova, rimasta in patria.

In questi dodici anni mia figlia è diventata la bella ragazza che qualcuno di voi conosce, grazie alle molte possibilità che ha avuto e avrà (che sono molte, anche se costantemente ho il timore che non siano abbastanza, perché per i nostri figli, come forse è naturale, quasi niente ci pare abbastanza). F. ha passato quasi 4 anni tra vari centri di accoglienza a Milano e dintorni. Ha seguito corsi, di lingua e poi professionali. Ha iniziato a giocare a calcio in una squadra.

“Ho seguito tutte le regole, sempre. Sono una brava persona”, mi ripete più volte mentre parliamo. Oggi è stanco, deluso, confuso. Più di ogni altra cosa si sente tradito. Quel diniego alla domanda d’asilo, confermato dopo il ricorso, F. ancora oggi non se lo spiega. “Mi sono detto tante volte che probabilmente non hanno capito. Magari l’interprete non traduceva bene. In Africa ci sono tante lingue”. Mi sono chiesta tante volte, nei giorni che sono seguiti a questa conversazione, se F. non sia arrivato troppo presto, prima che le commissioni prendessero consapevolezza della situazione in Gambia. Ma purtroppo la cosa non ha più importanza.

Ricevuto il diniego, F. va a Roma. Gli consigliano di riprovare a chiedere asilo. “36 volte sono andato in Questura”. La Questura di Roma per F. è un incubo, ancora oggi. Ricordi di allora si mischiano con ricordi più attuali. “Se torno lì mi arrestano. Vedi? C’è scritto qui”. Sul tagliandino strappato che mi porge in realtà non c’è scritto nulla del genere. Magari era un altro cedolino. Anche questo non cambia granché le cose.

A Roma non verrà mai riconvocato in commissione. F. allora ci rinuncia e si rimbocca le maniche. Va a sud, a lavorare nei campi. Rosarno, Castel Volturno, Foggia. Gli anni passano. Pochi euro al giorno, condizioni di vita durissime. “Foggia è il posto peggiore. Ogni tanto c’era un incendio e tutto bruciava”. Ma ci resta, F., a Foggia. Si spacca la schiena, manda qualche soldo a casa. “Non rompevo i coglioni a nessuno. Nessuno sapeva che esistevo”.

Solo che a un certo punto il fisico non regge più. Inizia a tossire sangue, non sta più in piedi. Gli amici gli consigliano di tornare a Roma a curarsi. Da dicembre F. dorme alla stazione Tiburtina. Lo curano, mi mostra pacchi di referti e uno zainetto che trabocca di medicine. Ma dorme per strada e non ha più un soldo. Con sua mamma, negli ultimi tempi prima che morisse, non è riuscito neanche a parlare al telefono. Non aveva più credito telefonico. Lo zainetto, come tutto il resto, glielo hanno comprato i volontari che lo aiutano.

Più di tutto, a F. brucia di non vedere futuro. “Dicono che devo fare un’operazione, ma ho detto di no. Che senso ha restare qui? Magari me ne vado in Spagna. O in Germania. Vediamo”. Guarda nel vuoto. Ci salutiamo. Non posso smettere di pensare a che spreco immenso si sia consumato in questi dodici anni. Questo e tanti altri. Tantissimi. Ma il numero non rende la cosa meno grave. E io non riesco a smettere di pensarci.

2 pensieri riguardo “Dodici anni”

  1. Sei partita dal tuo piccolo per arrivare ad un altro piccolo che in realtà è gigante. Quello che leggo qui non sempore mi da speranza, ma me ne da il fatto che qualcuno ne scriva e qualcuno ne legga e che quindi ci pensi. Le cose cambieranno. Non so se in peggio o in meglio, ma cambieranno.

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