Parla a voce bassa, chiede di fare l’intervista in italiano perché esercitarsi nella lingua è importante, ma poi qualche parola in francese scappa. Ma pare un vezzo più che un’insufficienza.
La fuga di A. è cominciata molti anni fa, in Libia. Non ha varcato nessun confine, allora. Ha preso i due bambini ed è fuggita da un marito violento. Straniera anche lei, non poteva tornare in patria perché non avrebbe mai potuto viaggiare con i bambini senza il consenso del padre. E comunque quei figli nati in Libia sarebbero rimasti dei fantasmi in Algeria.
Certe volte le alternative non esistono. Per quanto possa sembrare difficile e impercorribile, la strada è una. Quella di A. consisteva nel mimetizzarsi in una grande città (“È stato allora che ho iniziato a mettere il velo: lo facevano le altre e io non volevo creare problemi. Tanto meno distinguermi o attirare l’attenzione”). Trova un buon lavoro e riesce nell’intento: farcela da sola e mandare i figli a scuola. A. vive in apnea. Fino a quando la guerra diventa pericolosa e sempre più vicina. Ragazzini dell’età dei suoi figli sono rapiti. È ora di saltare di nuovo verso l’ignoto.
A. del mare parla il minimo indispensabile. “Io sapevo nuotare, ma i bambini no”. Basta questa frase per immaginare l’angoscia di quelle ore.
La prima accoglienza è abbastanza deludente. A. si ritrova in un centro affollato e promiscuo, dove episodi di violenza e risse sono all’ordine del giorno. “Ho pensato che era stato tutto inutile. Ho tentato questa strada perché volevo preservare i ragazzi dalla violenza, anche quella solo vista. Se fin da piccoli ci si abitua, poi non si torna indietro”.
Poi però con il trasferimento in un centro SPRAR cambia tutto . I ragazzi vanno a scuola e in pochi mesi diventano parte della comunità. A. mostra con orgoglio foto di gruppo, squadre di calcio, foto di classe. ” Se qualcuno in paese fa qualcosa, i miei ragazzi sono lì”. Dai video anche la parlata è indistinguibile da quella dei coetanei.
Così A. ha abbandonato l’ultimo progetto: proseguire il viaggio verso la Francia. “I miei figli sono italiani ora. Per me sarebbe più facile: per la lingua, per il fatto che a Tripoli lavoravo all’École française ed era un ottimo lavoro… Ma quando si diventa madri il primo posto tocca ai figli. E la loro casa è qui”.
Si aggiusta il velo, grigio scuro a righe chiare sottili. Sorride. Non ha perso l’abitudine a coprirsi i capelli. Lo trova conveniente: “Almeno è subito chiaro a tutti quali sono le mie priorità. Non riesco neanche più a curarmeli, tra l’altro”.
Non posso fare a meno di vedere in A. un pezzetto della mia esperienza, gli anni in cui per me non c’era tempo né spazio, neanche nella mia testa. Domani parto per le vacanze da sola. A. forse, nel paesino della Campania dove abita, potrebbe aver trovato un lavoro Aveva un colloquio in questi giorni. Intanto insegna ai suoi figli a fare le torte e a decorarle. Li aiuterà certamente a far colpo alla prossima sagra. Come tutti gli anni, infatti, daranno una mano per le bancarelle. Guardo un altro selfie scattato da due ragazzoni a torso nudo abbracciati ai compagni di squadra. Sorriso aperto, occhi fieri. La bella gioventù di Fisciano.
solo tu sai scrivere in punta di piedi di queste cose