È appena entrata nella stanza, N., ha finito un momento fa di stringerci la mano e di presentarsi. Suo marito subito condivide con disinvoltura il motivo del loro arrivo in Italia: il nostro bambino di 6 mesi è rimasto ucciso in una sparatoria in Libia. Gli occhi di N. si riempiono di lacrime, lotta per controllarsi, mentre sente la voce del marito spiegare che in Libia la guerra c’era anche nel 2011 e poi di nuovo in seguito, ma non era pericolosa come l’ultima. Ora rapiscono le donne, i bambini. Non è solo la guerra a far paura.
Le passo un bicchiere d’acqua. Lei si aggiusta il velo rosa salmone e si ricompone subito. Prende la parola per spiegare che lei, che al suo paese non è mai andata a scuola, qui a Ottati si sente sicura e ha imparato un po’ di italiano [ha passato l’esame A2, ora punta alla terza media]. Che ancora quando sente rumori improvvisi sobbalza, come la sua bimba, gemellina di quello che ha perduto. Accenna della famiglia rimasta in Marocco, di suo fratello che se tornasse le taglierebbe la gola. Ma tanto in Marocco dalla Libia non ci si poteva tornare comunque: i confini sono chiusi e poi la bambina è cittadina libica e in Marocco resterebbe un fantasma.
N. sorride, parla di una donna di Ottati che è più che un’amica, è una sorella. Io ripenso a quello che diceva ieri a Napoli una signora burkinabé: “Noi in Africa abbiamo famiglie grandi e tendono a diventare ancora più grandi… Troviamo zii e fratelli ovunque, a prescindere dalla nazionalità”.
Ottati, un paesino in montagna ai confini del Cilento. Di tanta Europa disponibile è buffo trovarsi qui, in una manciata di case arrampicate sui gradini, con la strada su cui quattro anni fa è franato un masso e nessuno lo ha ancora spostato, dove i vecchi sono tanti di più dei bambini e una sezione di scuola dell’infanzia può essere aperta solo grazie ai figli di N., di B. e delle altre donne capitate qui da Paesi lontani, che qui a Ottati molti faticherebbero a individuare sulla carta geografica.
Ma N. qui si trova bene. Si sente fortunata di essere arrivata proprio in questo angolo di mondo. E quando D., un ragazzone nigeriano che fa il dj, butta lì che in Italia crescere i figli è difficile e il sistema sanitario è quel che è, N. dimentica la timidezza e la titubanza nell’uso della lingua italiana e, semplicemente, se lo sbrana.
“Tu non sai niente. In Libia se non hai soldi all’ospedale non ti fanno neanche entrare. Quando dovevano nascere i gemelli, mi hanno lasciato sanguinante sul marciapiede finché mio marito non è riuscito a farsi prestare i soldi per pagare. E lo sai come ci si sente a subire un cesareo mentre tutto intorno cadono le bombe? E il dottore mi diceva: non ti devi preoccupare, se ci colpiscono moriamo tutti, mica solo tu. La mia bambina aveva un’infezione ai reni. Aveva la febbre a 41. All’ospedale non ce l’hanno neanche fatta entrare, dicevano che non avevano medicine. Guarda, guarda come stava”. Allunga il cellulare e fa partire un video dove si vede una bimba esanime e magrissima, in cui si stenta a riconoscere il terremoto in gonna di tulle blu che corre fuori nel corridoio.
Big D. è ammutolito. Ma N. continua. “Qui nessuno ha esitato a curare me e i miei figli. Quando ho partorito il mio bambino hanno fatto di tutto per farmi sentire a mio agio. Nessuno mi ha trattato diversamente perché sono straniera o perché sono musulmana. Cammino per strada e sono sicura. Non c’è la guerra, nessuno vuole farci del male. Ma secondo voi ero pazza quando ho deciso di mettermi su in barcone con una bambina piccola e malata? Mi fa male quando le persone mi fanno certe domande. Quale madre sceglie una strada che può portare alla morte per sé e per i suoi figli? Lo fa solo se ogni altra possibilità è peggiore”.
“Queste donne sono fortissime”, commenta più tardi la coordinatrice. “Semmai l’anello debole sono gli uomini”. Io penso a questo sud mediterraneo e aspro nel cui paesaggio siamo immersi. Penso alle tante donne fortissime di queste terre, che hanno portato avanti famiglie in assenza dei mariti emigrati lontano. A testa bassa, contro corrente. Non è strano, forse, che le loro figlie e nipoti si intendano con queste ragazze che non hanno 30 anni, ma hanno già vissuto tanto.
Molto bello e necessario. Grazie
Grazie per la tua testimonianza e un saluto a N. e al suo terremoto in blu.
Ringraziamo il cielo per quello che abbiamo. Nonostante tutti i mali del nostro Paese, non c’è la guerra. Se penso alla bella vita che faccio e a quanto mi lamento…