Non sai niente


È appena entrata nella stanza, N., ha finito un momento fa di stringerci la mano e di presentarsi. Suo marito subito condivide con disinvoltura il motivo del loro arrivo in Italia: il nostro bambino di 6 mesi è rimasto ucciso in una sparatoria in Libia. Gli occhi di N. si riempiono di lacrime, lotta per controllarsi, mentre sente la voce del marito spiegare che in Libia la guerra c’era anche nel 2011 e poi di nuovo in seguito, ma non era pericolosa come l’ultima. Ora rapiscono le donne, i bambini. Non è solo la guerra a far paura.

Le passo un bicchiere d’acqua. Lei si aggiusta il velo rosa salmone e si ricompone subito. Prende la parola per spiegare che lei, che al suo paese non è mai andata a scuola, qui a Ottati si sente sicura e ha imparato un po’ di italiano [ha passato l’esame A2, ora punta alla terza media]. Che ancora quando sente rumori improvvisi sobbalza, come la sua bimba, gemellina di quello che ha perduto. Accenna della famiglia rimasta in Marocco, di suo fratello che se tornasse le taglierebbe la gola. Ma tanto in Marocco dalla Libia non ci si poteva tornare comunque: i confini sono chiusi e poi la bambina è cittadina libica e in Marocco resterebbe un fantasma.

N. sorride, parla di una donna di Ottati che è più che un’amica, è una sorella. Io ripenso a quello che diceva ieri a Napoli una signora burkinabé: “Noi in Africa abbiamo famiglie grandi e tendono a diventare ancora più grandi… Troviamo zii e fratelli ovunque, a prescindere dalla nazionalità”.

Ottati, un paesino in montagna ai confini del Cilento. Di tanta Europa disponibile è buffo trovarsi qui, in una manciata di case arrampicate sui gradini, con la strada su cui quattro anni fa è franato un masso e nessuno lo ha ancora spostato, dove i vecchi sono tanti di più dei bambini e una sezione di scuola dell’infanzia può essere aperta solo grazie ai figli di N., di B. e delle altre donne capitate qui da Paesi lontani, che qui a Ottati molti faticherebbero a individuare sulla carta geografica.

Ma N. qui si trova bene. Si sente fortunata di essere arrivata proprio in questo angolo di mondo. E quando D., un ragazzone nigeriano che fa il dj, butta lì che in Italia crescere i figli è difficile e il sistema sanitario è quel che è, N. dimentica la timidezza e la titubanza nell’uso della lingua italiana e, semplicemente, se lo sbrana.

“Tu non sai niente. In Libia se non hai soldi all’ospedale non ti fanno neanche entrare. Quando dovevano nascere i gemelli, mi hanno lasciato sanguinante sul marciapiede finché mio marito non è riuscito a farsi prestare i soldi per pagare. E lo sai come ci si sente a subire un cesareo mentre tutto intorno cadono le bombe? E il dottore mi diceva: non ti devi preoccupare, se ci colpiscono moriamo tutti, mica solo tu. La mia bambina aveva un’infezione ai reni. Aveva la febbre a 41. All’ospedale non ce l’hanno neanche fatta entrare, dicevano che non avevano medicine. Guarda, guarda come stava”. Allunga il cellulare e fa partire un video dove si vede una bimba esanime e magrissima, in cui si stenta a riconoscere il terremoto in gonna di tulle blu che corre fuori nel corridoio.

Big D. è ammutolito. Ma N. continua. “Qui nessuno ha esitato a curare me e i miei figli. Quando ho partorito il mio bambino hanno fatto di tutto per farmi sentire a mio agio. Nessuno mi ha trattato diversamente perché sono straniera o perché sono musulmana. Cammino per strada e sono sicura. Non c’è la guerra, nessuno vuole farci del male. Ma secondo voi ero pazza quando ho deciso di mettermi su in barcone con una bambina piccola e malata? Mi fa male quando le persone mi fanno certe domande. Quale madre sceglie una strada che può portare alla morte per sé e per i suoi figli? Lo fa solo se ogni altra possibilità è peggiore”.

“Queste donne sono fortissime”, commenta più tardi la coordinatrice. “Semmai l’anello debole sono gli uomini”. Io penso a questo sud mediterraneo e aspro nel cui paesaggio siamo immersi. Penso alle tante donne fortissime di queste terre, che hanno portato avanti famiglie in assenza dei mariti emigrati lontano. A testa bassa, contro corrente. Non è strano, forse, che le loro figlie e nipoti si intendano con queste ragazze che non hanno 30 anni, ma hanno già vissuto tanto.

Una storia di donne


Quando incontro P. la potrei scambiare per una delle studentesse del Master dell’Università di S. Francisco che sto aspettando in un pomeriggio piovoso davanti alla porta verde della mensa del Centro Astalli. Inglese fluente, coda di cavallo, sorriso sicuro. Chiacchieriamo con naturalezza, mentre aspettiamo gli altri. Solo che quello che mi racconta è – manco a dirlo – straordinario. “Sembra un romanzo!”, non mi trattengo dal commentare (anni e anni di esperienza non mi hanno tolto quel tipico stupore un po’ stupido di chi è nuovo a questi racconti e di cui mi pento fino a un certo punto). Lei mi sorride e risponde quello che risponderei io: “Chissà, magari un giorno lo scriverò”.

P. è tibetana e a 15 anni è fuggita, da sola, in India. Di quella parte della sua vita, senza troppe remore ma anche senza indulgere in particolari macabri, mi traccia un quadro inequivocabile. Il padre ex parlamentare, la repressione cinese, le violenze arrivate inaspettate al villaggio, la madre incinta che per le percosse dei militari perde il suo bambino, il fratello minore oggi in carcere, la paura e la diffidenza che la trattiene ancora qui, a Roma, oggi, dal frequentare i suoi connazionali. Non si sa mai. Anche dopo anni la notizia che lei è qui potrebbe nuocere a chi è rimasto.

Il viaggio attraverso le montagne fino al Nepal e il primo arrivo in un campo profughi un po’ in disarmo P. lo liquida rapidamente (ed è la prima cosa che mi racconta), ma ci sarebbe certo molto da aggiungere. A un certo punto lascia il campo e trova riparo in un monastero buddhista. Lì incontra una signora indiana che, con generosità assoluta, la prende con sé e la porta a Calcutta.

Da oggi pomeriggio non riesco a smettere di pensare a questa donna speciale. “Ha fatto di me quella che sono oggi”, dice P. con semplicità. “Mi ha insegnato a leggere a scrivere, mi ha mandato alle scuole migliori, mi ha fatto studiare l’inglese. Mi ha insegnato ad apprezzare un’opera d’arte. Amava Frida Kahlo e mi ha trasmesso la sua passione. Leggevamo Shakespeare e proprio grazie ai versi del Giulio Cesare ho iniziato a sognare di venire in Italia”. La donna è anziana, sente la fine avvicinarsi. P. lavora in un call center, ma il suo futuro è appeso a un filo. “E’ stata lei a incoraggiarmi. Mi diceva: Se la vuoi davvero, la tua occasione, prendila! Puoi farcela”.

Sorride, P., quando mi dice che l’Italia dove è arrivata non aveva nulla a che fare con il suo sogno pieno di storia e di arte. “Non avevo idea che per gli stranieri qui fosse così difficile. I primi mesi sono stati davvero duri. Dopo pochi giorni mi hanno rapinato per strada e mi hanno preso i pochi soldi che avevo. Sono stata costretta a vendere l’anello che mi aveva dato mia madre, il ricordo più prezioso che conservavo di lei. Ma non c’era alternativa”. Il corso di italiano per lei è stata l’opportunità più grande. “Sono arrivata qui, al Centro Astalli, e sono davvero grata per questo. Ora ho un avvocato che mi segue e tutto va molto meglio”. P. abita presso una famiglia del Bangladesh e si mantiene con un lavoretto in pizzeria. “Certo, non ha nulla a che fare con quello che ho studiato. Ma sono al sicuro. Voi qui in Italia siete così fortunati: potete dire quello che volete, non conoscete la paura. Io oggi sono tranquilla e davvero non potrei chiedere di più”.

Io credo, e lo ho detto anche a lei, che P. dovrebbe assolutamente chiedere di più, invece. Dovrebbe tornare a coltivare le evidenti ricchezze della sua anima, quelle così ben nutrite dalla generosità di una signora incontrata per caso. Voglio credere che altre strade possano aprirsi per questa giovane donna coraggiosa e entusiasta, per il bene suo e di questo Paese sgangherato ma sicuro che oggi la accoglie.

Oggi P. ha avuto il suo piccolo regalo. Una delle studentesse americane che abbiamo incontrato insieme parlava nepali e le due si sono messe a chiacchierare fitto. Guardandole non ho potuto fare a meno di pensare che sarebbe così naturale se fossero compagne di università, coinquiline, colleghe. Al momento vivono due vite completamente diverse. Ma un giorno, chissà.

 

Cambiamenti


Mi piace pensare che questa estate ho fatto provare a mia figlia la bellezza di fare programmi e la bellezza di disfarli, per farne di nuovi. Che ci avrebbe aspettato un settembre di grandi cambiamenti un po’ lo sospettavo e in questa casa la flessibilità e la resilienza, proprio nel senso fisico del termine, sono indispensabili.

Affezionarsi a un’idea, a un sogno, a un proposito è un piacere profondo. Separarsene può fare male, ma a volte è necessario per affezionarsi ad altro, o semplicemente per restare noi stessi (o per restare vivi, il che alla fin fine è quasi la stessa cosa).

Una volta ho pensato che mi auguravo che la relativa facilità all’entusiasmo di Meryem la accompagnasse nei molti anni a venire. Entusiasmarsi e coltivare l’entusiasmo, senza limitarsi alla prima scintilla. Ma anche cambiare strada con lo sguardo ben fisso avanti, lasciando che la prontezza di cogliere cose nuove di cui entusiasmarsi porti via titubanze e sospiri.

Non mi piace ripercorrere nostalgicamente strade del passato. Ho indugiato un po’, a Torino, nella nostalgia. Me lo sarei preso volentieri un cappuccino in quel bar, sulla strada di Palazzo Nuovo. Ma volete mettere la soddisfazione di entrare per la prima volta con Meryem all’Arena di Verona e essere accompagnati ai nostri #tweetseats? 

Avanti dunque. Avremo una nuova maestra, dei nuovi vicini e tante altre cose, grandi e piccole, che non saranno più come prima. Ma se guardo Meryem, anche lei non è più come prima: gambe lunghe, risata pronta, lingua irrefrenabile. E anche io non sono come prima. Un po’ ammaccata, forse, ma comunque ancora capace di mettermi in spalla uno zaino e mettere un freno ai miei piagnistei. 

Raramente


Raramente scrivo su questo blog di cose su cui sono del tutto ignorante. Raramente vi ho chiesto di mettere mano al portafoglio, me ne darete atto. Il 28 febbraio però è una giornata dedicata alle malattie che colpiscono raramente e che per questo, spesso, non hanno ancora una cura.

Oggi voglio presentarvi Iñaki, il figlio della mia amica Janette. A giugno prossimo compie 4 anni. Abitano a Barcellona. Iñaki è uno dei rari bambini che soffre della sindrome di Sanfilippo. Entrambi, trovo, sono di una bellezza rara. Ma questo c’entra poco con quello che voglio raccontarvi oggi.

imageLa ricerca sta procedendo e c’è una terapia, la terapia genica, che sta dando risultati incoraggianti negli USA. I ricercatori sperano di poter iniziare a somministrare la terapia a bambini sotto i 5 anni alla fine di quest’anno. Pare che funzioni e che sia possibile, per bambini piccoli, far regredire i danni che la malattia ha già fatto. Se la sperimentazione fosse attiva in Spagna, Iñaki avrebbe ottime possibilità di essere incluso e forse curato. Avrebbe, in pratica, una possibilità concreta di sopravvivere.

Però in Spagna la sperimentazione è stata sospesa per mancanza di fondi. Io posso solo lontanamente immaginare cosa provino questi genitori, che hanno deciso di provare ogni via possibile. Hanno fatto molto, moltissimo. Hanno ottenuto la disponibilità dei ricercatori americani a collaborare con un ospedale a Bilbao per portare avanti parallelamente il protocollo. L’ospedale ha accettato e ora è solo una questione di soldi.

Tanti soldi, un’enormità. Tre milioni di euro. Incredibilmente, sono già riusciti a raccoglierne uno. Ne mancano due.
Janette mi chiede di aiutarla a lanciare un immenso brainstorming per aiutarli a realizzare questo sogno di vita per i loro bambini e per tutti gli altri, rari, che soffriranno in futuro di questa sindrome.
Si sono organizzati in fondazione, organizzano eventi, hanno gadget e prodotti solidali. Visitate i siti http://www.redsanfilippo.org e http://www.stopsanfilippo.org. Troverete video, testimonianze e materiale informativo in spagnolo. Se scriverete a Janette, che parla anche italiano e inglese, potrà girarvi anche traduzioni.

Cosa vi chiedo, oggi? Se potete fate una donazione, intanto. Anche un piccolo contributo è un passo verso la meta. Ma, più ancora, pensate un momento se potete incidere di più. Potete magari parlarne con uno sponsor? Conoscete un potenziale testimonial? Magari avete modo di parlarne sui media? Potete organizzare un evento di beneficienza? In caso, vi metto in contatto direttamente con Janette.

Un’ultima cosa. Per domani vi va di mettere l’immagine di questo post come vostra foto nel profilo Facebook? Contribuirà a spargere la voce. Non saremmo genitori se ci arrendessimo davanti all’impossibile. Non saremmo genitori se non credessimo, almeno un po’, ai miracoli che la solidarietà può compiere.
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Rispetto


Ieri sera è stata una di quelle occasioni in cui ho saputo artisticamente rivoltare la frittata e trasformare un mio poco edificante sbrocco di mamma in un’occasione educativa. Lo registro quindi, a futura memoria. Avevo perso le staffe, come sempre avviene, per un’infausta combinazione di motivi: un certo malessere generale, l’ennesimo spidocchiamento (stavolta, per fortuna, meramente preventivo) e la tendenza della Guerrigliera a urlarmi in faccia quando le chiedo di fare qualcosa di diverso da ciò che di suo gradirebbe fare. Uniamoci un episodio sgradevole alla fine del picnic con gli amichetti: quando l’ho rimproverata perché si rifiutava di collaborare, mi ha ridacchiato in faccia. Poi mi ha detto che era “per non fare brutta figura con l’amichetta”, il che non ha fatto che aggravare la situazione ai miei occhi. E quindi il fastidio covava lì, non sufficientemente sfogato. Di lì a poco, quindi, la rispostaccia di Meryem mi ha trasformato in un orso Grizzly.

Ho esagerato e sono passata dalla parte del torto. Non ne sono affatto fiera. Sia come sia, una volta tornata in me, me la sono presa sulle ginocchia (era ancora in lacrime) e le ho fatto un discorsetto breve ma convinto. Cara Meryem, le ho detto in pratica, lo sai cosa è il rispetto? Lei, tirando su col naso, mi ha parlato del rispetto per il materiale scolastico e per le cose degli altri. Bene. Ma anche le persone vanno rispettate, perché sono importanti. Tu mi dirai che a me, a papà, ai tuoi amichetti vuoi bene. E’ una bella cosa. Ma ricordati sempre che non è possibile voler bene a una persona se non la si rispetta. Cercheranno, forse, di farti credere il contrario. Ma ti assicuro che è così. Senza il rispetto non può esistere nessun amore.

Ha pensato, ha registrato, magari a un certo punto il discorso ci capiterà di nuovo (sperabilmente omettendo gli urlacci di introduzione). Credo però di aver detto ieri a mia figlia una delle poche cose di cui sono assolutamente certa, per averlo imparato a mie spese. Io, che quando mi chiede “Ma la guerra da noi non può succedere, vero?”, non riesco mai a rispondere “Sì” e basta. Io che ho sempre il “Dipende” in tasca, anche quando la risposta potrebbe essere facilissima. Io, proprio io, sono pronta a dire: di questo sono sicura sicura e vorrei tanto che lo fossi anche tu.

Ricordi difficili


Ricevo abbastanza raramente mail da parte di lettori di questo blog (non sono poi così tanti), ma il messaggio di Antonella conteneva un invito e una amichevole “sfida”, che raccolgo volentieri. Non avevo consapevolezza che oggi è la Giornata del Ricordo dell’esodo istriano e dalmata. Antonella lo sa, perché quella storia è la storia della sua mamma e, per riflesso, della sua famiglia. Lo sarebbe un pochino anche della mia, almeno trasversalmente. Il cognome sloveno di mio nonno è uno di quelli modificati per legge durante la politica fascista di italianizzazione. Mio padre non ha mai potuto imparare la lingua madre di suo nonno: parlarla a Gorizia sarebbe stato, a quel tempo, pericoloso. Non ho mai parlato con mio padre di tutte queste storie complesse, che hanno i loro strascichi ancora oggi, con un’unica eccezione: un viaggio in treno tra Roma e Gorizia che facemmo insieme e durante il quale lui, inaspettatamente, tirò fuori un racconto ininterrotto, di cui purtroppo non mi sono appuntata nulla e che istantaneamente mi si è confuso in testa in un guazzabuglio di particolari inestricabili l’uno dall’altro. Peccato.

Ma torniamo a Antonella. Sua madre ha passato la sua infanzia in un campo profughi, in Italia. Spesso dico che in Italia non esistono campi profughi. Ho sempre omesso di dire, perché non ci ho mai davvero pensato a fondo, che però sono esistiti. Ed erano come tutti i campi profughi del mondo: inadeguati, sprovvisti dell’essenziale, durissimi, in luoghi inospitali e inadatti alla vita umana. Lì, nel Carso, ad esempio, è successo che dei bambini morissero di freddo.

Questa pagina di storia è una di quelle che non siamo stati in grado né di scrivere né di raccontare. Forse perché, come emerge chiaramente dalle polemiche in un senso o nell’altro, che puntualmente si scatenano sui numeri, sulle responsabilità delle eventuali vittime, sul significato da attribuire a un episodio o all’altro, quella guerra è in un certo senso ancora in corso, sotto traccia. E’ esattamente così che, anche dopo decenni, si riaccendono le guerre civili. Ancora una volta dal mio lavoro imparo che i processi di pace da soli non bastano: serve un lungo, paziente e certosino lavoro di riconciliazione, che va ben oltre il livello politico e affonda nella cura dello spirito delle persone coinvolte.

Lasciatemi parlare da ignorante (nel senso che davvero ignoro molto di quel periodo storico). Io credo che le persone debbano essere messe al centro, sempre. Se delle persone hanno subito trattamenti degradanti e delle violenze gravi (come è il caso, ovviamente, in tutte le guerre), io non accetto di fare classifiche o di dare giustificazioni. Il che significa, ovviamente, che ci provo. Non è una cosa facile. Mi viene in mente un esempio che non farò, perché aumenterebbe di molto il tasso di potenziale polemica di questo post, che davvero vorrei evitare. Ma penso adesso al mio lavoro. Le storie dei rifugiati sono considerate, sempre,  su base individuale, caso per caso (o almeno, così dovrebbe essere). Questo aiuta a prendere le distanze dalla tentazione di far scontare al singolo,  i cui diritti umani sono stati violati, la responsabilità vera o presunta della collettività a cui appartiene.

Se penso ai conflitti attualmente in corso, la Siria in primis, nei report ONU è frequente leggere la frase: “gravi violazioni dei diritti umani sono state perpetrate da tutte le parti in conflitto”. Questo vuol dire, in pratica, che in tutti e due gli “schieramenti” ci sono vittime da difendere e tutelare, ma che soprattutto (come è il caso in Siria) certamente ci sarà una maggioranza silenziosa e politicamente ininfluente che subisce due volte: per quello che soffre e per il fatto che la narrazione contemporanea ignora le persone che non può etichettare come “buoni” o “cattivi”. Credo davvero che l’esperienza della Siria contemporanea possa aiutarci a guardare con maggiore giustizia anche all’esodo istriano e alle foibe.

Certo è che ci sono persone che dopo un’esperienza dolorosa e grave non ha avuto nessun riconoscimento e anzi hanno vissuto con vergogna la propria condizione di esule, perseguitato e vittima. Antonella mi scrive che il campo profughi sorto a Trieste, sul Carso, è ora un museo. Quando ha raccontato alla sorella di sua nonna, che ora vive in Canada, di averlo visitato, Antonella intendeva esprimere la sua emozione, la sua solidarietà e la sua vicinanza per qualcosa che lei aveva vissuto e di cui lei invece non aveva mai ben capito la portata. Invece si è sentita raccomandare che “non era necessario che raccontassi in giro che anche noi eravamo stati là”.

“È molto difficile parlare di ricordi che in realtà non ci appartengono perché nessuno ce li ha fatti vivere”, racconta la signora Luciana, madre di Antonella; “la mia famiglia come la maggior parte degli Istriani ha tenuta nascosta la propria vicenda perché l’esodo è stata vissuto dai più come una sconfitta, un’umiliazione, l’istriano come asociale e reietto; l’esilio nell’accezione più dura del termine, quello dell’anima. Per cinquant’anni ho sentito sussurrare la parola ‘foibe’, ‘portato via di notte’, ‘sshh, a Pisino… mai più tornato’, ‘i fioi no devi saver se li cariga e poi lassa star più tardi la sa meio è’. Il capofamiglia, mio bisnonno ha lasciato assieme alle sue terre ed alla sua casa di contadino anche due figlie e ben sette nipoti; a nessun battesimo né cresima né matrimonio c’è stata la sua presenza; e come lui tutta la famiglia ha tagliato il cordone che ci legava a quelle terre ed ai nuovi padroni. Quello che mi ricordo della mia famiglia è la dignità con la quale hanno accettato la povertà, i sussidi, la promiscuità. Non ho mai sentito dal bisnonno o dalla nonna una lamentela o una parola di rimpianto, corrispondente all’educazione che mi è stata data: pensa e pondera bene ma quando prendi una decisione quella è la strada giusta, prosegui senza ripensamenti. Di noi profughi posso dire che ho scoperto molto da sola, da adulta, proprio come loro desideravano: gli occhi della maturità vedono con maggior calma e saggezza non lasciando spazio ad estremismi. Il discorso potrà continuare ma quello che vorrei raffigurare è la dignità del popolo istriano e lo illustrerò meglio con un episodio di vita vissuta (da me); quando nel ’69 al maresciallo Tito fu insignita la croce di cavaliere della Repubblica Italiana, io lo dissi a mio bisnonno non per sfida ma soltanto per curiosità: lui mi fissò con gli occhi slavati di vecchio miope cercando il mio sguardo e mentre il mento cominciava a tremargli disse: ‘Vol dir che anca Dio ne gà ‘bandonà’. L’Associazione che frequento ha presentato una richiesta di revoca di tale onorificenza (ed è per questo che quell’episodio si è rifatto vivo nella mia mente) ma da parte mia non c’è e non ci potrà mai essere quella veemenza e rabbia che vedo in altre realtà; noi Istriani siamo stati vilipesi dalla madre patria, costretti a rinunce ed umiliazioni e troppo stanchi nello spirito per gridare il nostro inutile dolore. Ogni nome che sento, vedi Vergarolla, mi fa sentire in mente la mia famiglia, quando parlavano sottovoce ed io li sentivo ma non capivo: stare in questa Associazione è come continuare a vivere con loro ma non da protagonista, bensì da spettatrice”.

Vi lascio con un contributo scritto dalla signora Luciana. E’ apparso in forma rimaneggiata, su “Umago Viva”, periodico dell’associazione di esuli con sede a Trieste con cui collabora. Parla di un film, “La città dolente”, che trovate anche su Youtube.

La città dolente.
Te parti? No, mi resto. Mi no so.
Tempo fa, è stato trasmesso su una rete privata un film in bianco e nero che attirava l’attenzione per le riprese essenziali e buie degli interni, molti i primi piani ed espressivi i volti dei protagonisti, tipico del neo-realismo italiano di quegli anni. Un film che annunciava la sua drammaticità già dall’incipit con la prua di una nave che solca un mare scuro, minaccioso e la scena finale sullo stesso mare ma quieto, statico come gli animi dei protagonisti placatisi soltanto alla fine di quei drammatici eventi storici che noi Istriani conosciamo bene: tesi ed indecisi all’inizio della vicenda fino al tragico finale con quattro scelte diverse ma tutte travagliate ed infelici. Il film è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare, restaurato dall’Istituto Luce e proiettato in varie sale in occasione della giornata del Ricordo.

Due sono le particolarità di questa pellicola: non presenta alcuna retorica, il realismo è accentuato se possibile da documentari che riguardano proprio l’esodo dalla città istriana (Pola) e che vengono inframmezzati a supporto della scenografia del film. Troviamo così le immagini dei documentari di Vitrotti e Moretti alternate alle scene del film, didascalie efficaci di spiegazione dei fatti (non da ultimo il coprifuoco della città in seguito all’attentato di cui fu protagonista la Pasquinelli). Questo è in assoluto l’unico film sugli esuli istriani che sia mai stato fatto, iniziato quasi in tempo reale su canovaccio di una storia vera. ‘La città dolente’ venne girato tra il 1947 ed il 1948 mentre la città di Pola si stava svuotando via via dei suoi cittadini, che vediamo appunto nei documentari mostrare il loro sguardo vuoto ed angosciato e la disperazione dei profughi che partono. Si intrecciano ai documentari ormai famosi sull’esodo della città, le vite dei protagonisti a stigmatizzare i diversi comportamenti dei nostri connazionali in quel momento: Berto indeciso se partire o meno, diviso tra la moglie impaurita e condizionata dall’esodo di quasi tutta la popolazione e l’amico che lo lusinga a rimanere paventando un futuro di libertà e di prosperità; Silvana la moglie preoccupata per il loro bambino ed intimorita dalla spavalderia degli slavi arrivati in città; Sergio che grazie al comunismo spera di riscattarsi e di diventare il padrone ed infine Lubiza, funzionaria comunista, che sarà l’unica tutto sommato a perseverare convinta sulla propria strada ideologica fino alla fine del film.

Tutti subiranno la tragedia della storia ma ciò che conta è che il regista, Mario Bonnard volle ammonire il popolo italiano a vigilare sulla nuova dittatura incombente ai confini orientali, sull’utopia comunista, sui lager conosciuti anche da connazionali non istriani, sulla differenza tra il popolo slavo che balla e si diverte, e gli Italiani costretti ad andarsene; ma….. inutilmente. Anche se ultimato in breve tempo, la distribuzione del film rimase bloccata per un anno e la pellicola uscì nel circuito parrocchiale soltanto il 4 marzo 1949; fu subito ritirato, e ne intuiamo a pieno il motivo, e poi cadde nell’oblio come lo siamo stati d’altra parte anche noi Istriani. Non meritano alcun commento, né tanto meno citazioni, le critiche fatte nel 1949 al film in se stesso soprattutto dai giornali di certa parte: i nostri vecchi dicevano che ‘Il tempo è galantuomo’ ed i fatti hanno dimostrato da soli la validità ad esempio degli sceneggiatori, uno dei quali fu Federico Fellini per il quale non occorrono commenti o delucidazioni; un altro fu Anton Giulio Majano di cui ricordiamo tra gli innumerevoli sceneggiati di mamma Rai, ‘La freccia nera’ con una giovanissima Loretta Goggi ed Aldo Reggiani oppure ‘David Copperfield’ con Ubaldo Lay e Giancarlo Giannini e tanti altri tutti firmati da lui; infine la protagonista femminile Constance Dowling (attrice statunitense) che fu amata da Cesare Pavese che le dedicò alcune sue poesie (Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi) e che godette di una certa fama nel suo paese.

Oggi basta molto meno per ottenere maggior successo di questi validi professionisti che fecero l’errore di girare un film non consono ai diktat politici del tempo, un film inopportuno che non fece epoca (oggi verrebbe osannato e catalogato nel cosiddetto cinema contro); spiace constatare che oggi come allora la politica continua ad influenzare la cultura e soprattutto la verità, quella che viene ricordata dai fatti e non dalle parole (o bugie) espresse al momento o sessant’anni dopo. Abbiamo anche noi occhi, cervello e ….memoria. Potrà sembrare un paradosso, ma il popolo italiano (notoriamente indisciplinato per quanto riguarda l’osservanza alle leggi) ha avuto bisogno di una legge per riconoscerci; soltanto con l’istituzione del Giorno del Ricordo, (legge n. 92, 30 marzo 2004), è stato tolto il paravento dietro al quale ci avevano relegati per oltre sessant’anni ed il film ‘La città dolente’ da opera scomoda è diventato un’opera addirittura da salvare. Ben venga questo riconoscimento ma a noi non serviva una legge né per ricordare né per conoscere la verità.

 

Ispirazione


La passeggiata per il Gianicolo mi ha messo di buon umore. Mi dispongo dunque alla mia “presentation” con una certa rilassatezza. Mi hanno chiesto di presentare l’attività del Centro Astalli a un gruppo di religiose anglofone, normale amministrazione. Ho le mie slide e una breve scaletta. Poi mi scatta qualcosa. La Sister che mi accoglie mi è simpatica, la sua voce suona piacevole e gentile. Il gruppo che mi trovo davanti è eterogeneo, per età e nazionalità. Non piccolo, non enorme. Mi siedo alla scrivania, aziono il Power Point, ma prendo un’altra via.

Racconto di cosa significa questo lavoro per me. Delle mie aspettative giovanili, della casualità (della serie di casualità) che mi ha messo dove sono ora. Parlo di alcune persone che ho incontrato. Cerco di spiegare quali, secondo me, sono i drammi meno ovvi. Illustro in cosa andiamo bene e in cosa ancora noi tutti zoppichiamo. Vado a braccio, racconto la storia del JRS come io la percepisco. Mi sento parlare dell’esperienza rimossa della guerra in una società che dà per scontata la pace. Finisco raccontando del Papa ad Astalli e, inaspettatamente, mi commuovo anche (ancora????).

Funziono. Non so come mi sia venuto in mente di fare così, ma ho la sensazione precisa di aver colto nel segno. A questo gruppo servivano a poco i dati statistici e i chiarimenti legislativi. Vado a farmi un caffè, nella pausa. Una suora del gruppo si avvicina e mi racconta di sé.

Ruandese, è cresciuta in un campo profughi in Uganda. Mi descrive sua madre, abituata ad avere la servitù e a mangiare piatti ricercati, che si è trovata costretta, da un giorno all’altro, a cucinare per i suoi figli con materie prime scarse e povere. “Non era capace. Non l’aveva mai fatto. Noi bambini, spesso, avevamo la diarrea, perché lei sbagliava a cucinare gli alimenti. Poi, poco a poco, ha capito come fare. Ma per lei era come vivere in un pianeta sconosciuto”. Mi è grata perché ho sottolineato alcuni aspetti meno scontati. “Se guardo indietro, ripenso ai miei genitori. Allo sforzo immane che hanno fatto per proteggerci, per sollevarci da quella situazione. Ho visto mio padre piangere. Non tanto per la povertà, quanto per la preoccupazione di non avere la possibilità di farci studiare. Comunque andavamo a scuola. Il maestro insegnava all’aperto, sotto un albero. I nostri quaderni erano la sabbia su cui disegnavamo con un bastoncino”.

Lei alla fine ci è riuscita, a studiare. Le suore che lavoravano nel campo le hanno dato questa possibilità e lei è entrata, giovanissima, nel loro ordine. Presto è stata mandata a Roma. “Ho fatto la mia tesi sull’apostolato sociale. Oggi mi chiedo perché non ho scelto come argomento, specificamente, i rifugiati. Quell’esperienza è una parte di me che non mi abbandona mai”. Si vede che per te non è solo un lavoro, mi hanno detto molte. Già, forse si vede. Non saprei se sia un bene o un male, in generale. Oggi però, per loro, sono stata utile. Almeno credo.

In corner (e pure moralista)


Condivido con qualcun altro il disagio di scrivere qualcosa in occasione della giornata contro la violenza sulle donne. Quando si tratta di violenza le parole di circostanza sono particolarmente inappropriate. Mi associo a Claudia e Silvia: forse l’unica cosa che mi sento di sottolineare è l’importanza dell’educazione, al di sopra di simboli, flashmob e loghi vari.

Educazione è esempio, competenza, risposte coerenti. Ma anche modelli. Già, modelli. Sempre su Genitori Crescono oggi si rifletteva sui modelli di bellezza imposti e autoimposti alle donne. Io stamattina, leggendo qua e là, facevo ancora i conti con la rabbia accumulata grazie alla visione di Non ti muovere, ieri sera. Qui ci va un…

Disclaimer: questa non è una recensione lucida, colta e oggettiva del film diretto e interpretato da Castellitto. Tanto meno è una recensione del romanzo di Margaret Mazzantini, che non ho letto e probabilmente non leggerò mai. Devo riconoscere che una visione che ha avuto il potere di risultarmi tanto sgradevole ha in qualche modo raggiunto un suo obiettivo artistico. Un’opera d’arte deve essere educativa? Forse no, ed è ingiusto misurarla con il metro dei valori. Ieri mi sono sentita moralista nel più letterale senso del termine. Mi sono giustificata ai miei stessi occhi argomentando che l’argomento del film mi tocca sul vivo. Ma poi ho fatto pace con me stessa e solo questo mi riprometto: spiegarvi perché questo film mi è risultato odioso e a tratti insopportabile.

Vado dritta al punto. Io, con il protagonista, non riesco proprio a empatizzare. Ho idea che la vicenda lo richiederebbe, dato che me lo presenta nel momento di massimo strazio per un genitore, quello che lo vede a fianco di un figlio in bilico tra la vita e la morte. Ma per ogni tratto della vicenda narrata, che non starò qui a ripercorrere, io di un uomo così nutro una forte disistima, per usare un eufemismo. Ancora più odioso mi è risultato il tentativo di giustificarlo con un breve flashback in cui si dipinge un’infanzia segnata dall’abbandono paterno. Troppo facile. E, per venire più precisamente all’argomento di oggi, non ho capito bene in che senso episodi di violenza anche sessuale pura e semplice possano essere presentati come elementi di un rapporto in qualche modo “romantico”. Di più. La violenza nei rapporti con le donne, accoppiata a una insopportabile mancanza di coraggio, lealtà e responsabilità, sembra essere la caratteristica precipua del personaggio in questione.

Odio vedere questo modello di maschio tormentato e sospirante affacciarsi in tanta letteratura e cinematografia del nostro Paese. Perché lui, “poverino”, ha la moglie fredda e distaccata. Perché lui, “poverino”, ha avuto un’infanzia difficile. Perché lui, “poverino”, è stato penalizzato dalle circostanze. Mi pare che costruire un personaggio così significhi costruirne uno speculare e complementare, quello della donna vittima, autoflagellante, intenta a punirsi da sola nelle forme più efferate e, a tratti, crocerossina. E’ questo, il grande amore? Quello che vede lui sospirare sul cadavere della donna che ha torturato con sistematica vigliaccheria, salvo poi fare un paio di gesti eclatanti (e lesivi di altre persone) volti a tentare di salvarle la vita invano?

Mi dico, anche da sola, che l’arte dipinge la vita. Che magari raffigurare con spietato realismo la piccineria equivale a una denuncia. Non so. Io non sono convinta. La scena del medico che si porta l’amante al congresso di colleghi con cui lavora ogni giorno, in spregio di tutto, amante compresa, non smette di irritarmi. Ed è una fra tante.

Quanto alle donne crocerossine, modello insuperato della nostra educazione sentimentale, hanno fatto più danni loro di generazioni di padri padroni. Grazie anche a Candy Candy, probabilmente.

L’arte del compromesso


Un inedito pomeriggio tra diplomatici, al Ministero degli Esteri, mi aveva almeno in parte preparato alla trattativa principale di oggi: l’acquisto delle scarpe per la Guerrigliera. Servono nervi saldi, creatività, prontezza di riflessi e, soprattutto, flessibilità. Le ultime due volte sono state due tragedie apocalittiche. Mi ero in effetti ripromessa di fare acquisti per lei solo in sua assenza.  Ma oggi era un giorno speciale. Il lavoro era stato insolitamente appagante. Il Gianicolo, sbirciato mentre tornavo a casa, era spettacolare, anche più del solito. Inaspettatamente, per un colpo di fortuna, ero riuscita a procurarmi in un tempo straordinariamente breve un certificato medico dalla pediatra sostituta, carina e gentile. Insomma, la fortuna mi sorrideva al punto che mi sono detta: ma sì, facciamolo. Osiamo l’acquisto di un paio di scarpe da ginnastica da usare solo in palestra per il mini volley.

Arrivate sul luogo, ho avuto per un attimo l’illusione di cavarmela con poco. Meryem punta il dito verso un paio di sobrie scarpe blu, con particolari fucsia, dall’aria confortevole, chiusura a strappo e prezzo relativamente accessibile. Sto per svenire. Mi affretto a farle portare il numero, ma nel tempo in cui la signora ravanava in magazzino alla ricerca del colore giusto, il momento di grazia era finito. Era infatti sorta una complicazione. Già dalla prima prova preliminare era stato infatti evidente che – come in effetti temevo – il piede della Guerrigliera è cresciuto ulteriormente. Razionalità imponeva, a quel punto, di acquistare due paia di scarpe: una per la palestra e una da utilizzare nella vita di tutti giorni. Per un attimo ho pensato ingenuamente di prendere lo stesso modello in altro colore. Sì, non dite niente. Un’ingenuità assoluta. Una nuvola nera è calata istantaneamente sullo sguardo della Guerrigliera.

Tento di intavolare una trattativa, contrastando i molti fattori distraenti zelantemente proposti dalla titolare del negozio (“Vuoi queste, che sono tanto pubblicizzate? Ma li hai visti i trucchi in regalo? Queste piacciono a tutte le bambine…”). Ci vengono proposte scarpe che avrebbero fatto impallidire Paris Hilton. Ma che dico? Lady Gaga. Forte delle esperienze precedenti, non ho mosso un muscolo. Non sono svenuta. Mi sono dimostrata possibilista davanti agli stivaletti tutti tempestati di swarovsky.  Alla fine ho ottenuto un identikit della scarpa desiderata.

“Blu, con i lacci che si possano slacciare e allacciare”. Qui si inserisce la signora del negozio: “Ma è difficile, sai, tesoro. Ormai i lacci non li vuole più nessuno”. “Io voglio i lacci”. Il tono è tale da non ammettere repliche di sorta. La signora aggiunge: “Ma anche blu è difficile. Trovare delle scarpe blu da femmina non è facile…”. Ecco, questo “da femmina” non te l’aveva chiesto nessuno. Impreco tra me, mentre la signora cala in magazzino alla ricerca della scarpa perfetta.

Mentre lei si assenta, mi tolgo una curiosità. “Meryem, ma perché con i lacci?” “Te lo devo proprio dire?”. Oddio, non è che tu sia obbligata. Ma sarei curiosa di saperlo. “Io e l’amichetta A. in cortile ci esercitiamo a correre con i lacci slacciati. Se io non li posso slacciare non mi posso esercitare”. Ah. Glom. Ma poi ti sai allacciare le scarpe da sola? “Ci eserciteremo. Per ora ce le allaccia il maestro”. Ah. Mi riprometto di approfondire in seguito. Sul blu non indago.

Siamo tornate a casa con un secondo paio di scarpe da ginnastica blu e argento, completamente glitterate lacci inclusi e lucine fucsia che si accendono sul fianco di una delle due (l’altra è difettosa, ma non avevo le energie per ricominciare da capo la ricerca quindi per noi andranno benissimo così). Avevamo inoltre: una penna con coniglio fluorescente che si illumina in colori diversi; un finto smartphone di plastica che in realtà è una trousse; una custodia per il finto smartphone a forma di coniglietto rosa. In realtà l’unico gadget che ci spettava era l’ultimo. La penna l’ha aggiunta il proprietario del negozio per il sollievo di essere sopravvissuti all’impresa e lo smartphone è stato preteso da Meryem, tornando indietro appositamente, perché obiettava che la custodia senza lo smartphone non aveva senso. Lo smartphone avrebbe implicato l’acquisto di un paio di scarpe così orrendo e inutilmente costoso che persino il negoziante, probabilmente, si vergognava di tale turpe manovra di marketing di bassa lega. “Ce li mandano contati, ma come si fa a dire di no a un bambino?”, ci ha liquidato senza obiettare ulteriormente, appagato di averci sbolognato le scarpe glitterate che comunque immagino assai ardue da smerciare.

Sulla via del ritorno Meryem era sopraffatta dalla soddisfazione per il bottino ottenuto. Approfittando biecamente del momento favorevole ho ottenuto che:

1. non correrà con le scarpe slacciate, ma si limiterà a camminare con attenzione (“parola d’onore”);

2. in compenso si eserciterà ad allacciarsi le scarpe da sola e non scoccerà i maestri per questo;

3. rispetterà scrupolosamente tutte le regole per l’uso dello smartphone (anche se finto) che io via via le sottoporrò. Abbiamo iniziato con “non si usa mai a scuola”, “si spegne a teatro o al cinema” e “in presenza di altri si parla a voce bassa per non disturbare”.

Poteva andare peggio, no?

Vi sfido


Continuo a rimuginare sul post di ieri, con l’idea che forse non è efficace come avrei voluto. Allora mi è venuta un’idea, un esercizio per rendere il concetto più chiaro. Una sfida che vi lancio, per capire meglio quello che volevo dire rispetto alla profonda contraddizione che esiste tra usare per il fundraising quegli stessi stereotipi e deformazioni che sono strettamente intrecciate alle cause più profonde dei problemi che si vogliono affrontare.

Vi propongo dunque questo esercizio. Immaginate di dover pensare a una campagna di fundraising per finanziare un centro antiviolenza per donne a rischio qui, in Italia, nella vostra città. E immaginate di fare lo stesso tipo di ragionamenti che si fanno per i progetti di cooperazione. Mi pare abbastanza evidente che il pubblico italiano è sensibile alle campagne sessiste. Provate con me a immaginare una bella campagna per finanziare un centro antiviolenza che faccia leva su una delle seguenti immagini:

1. una bella donna discinta e ammiccante. Cattura l’attenzione, senza dubbio. E potremmo persino dire che se una donna che ha subito una violenza adesso è sorridente e disinibita vuol dire che ha acquistato fiducia in se stessa. E’ un achievement.

2. una poverina con gli occhi bassi e lo sguardo supplichevole, accompagnata da uno slogan tipo: “Come farebbe la povera Mariolina senza il vostro aiuto?”

3. un uomo dall’aria efficiente e paterna e,sullo sfondo, un gruppo anonimo di donne vestite in modo provocante. Slogan: “Aiutaci a difenderle da se stesse”.

Sono sicura che la vostra fervida fantasia vi suggerirà esempi anche più efficaci. Capite quello che voglio dire quando affermo che secondo me, almeno qualche volta, il fine non giustifica i mezzi?

P.S. A un primo sguardo, tutte le campagne dei centri antiviolenza sono al contrario attentissime a difendere l’immagine della donna: volti rigorosamente coperti, disegni poetici, simboli e slogan attentamente ponderati.

 

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