Quando aprivamo i blog


Ogni tanto qualcuno sospira, in rete o dal vivo: “Che tempo era, quello…”. Quando ci commentavamo su Splinder o Blogspot con la stessa intensità di una chat e quindi chi ci leggeva diventava un amico, qualcuno che si sedeva virtualmente sul tuo divano e magari prima o poi (a volte molto poi) ci si incontrava dal vivo. In questi giorni la serie ispirata al blog di Valentina (Volevo fare la rockstar, se non l’avete vista cercatela e accattatevi pure il libro, così capite meglio cosa erano quei blog) mi e ci ha fatto tornare in mente quel periodo.

Perché ho aperto questo blog, nel 2004? Sinceramente non ricordo precisamente. Certamente questo doveva essere la prova tecnica per il blog serio, che si chiamava “Rifugiati” e che è morto di lì a poco. Ci versavo sopra i pensieri sparsi che altrimenti avrei scritto su quaderni e agende. Poi però qualcuno ha iniziato a leggere. E con la mia gravidanza, nel 2007, quello che a me pareva un sacco di gente ha iniziato a leggere.

Yenibelqis è diventato un divano, incasinato come la mia casa e come la mia vita in generale. Ci si trovava e si chiacchierava. Raccontavo aneddoti, condividevo come mi sentivo, parlavo delle questioni che mi stanno a cuore. Non era un blog tematico, non era un prodotto letterario, non era un portale, non era utile o informativo. Era (ed è) una collezione di chiacchierate. A volte più interessanti, a volte divertenti, a volte stanche, a volte piene di rabbia e di amarezza.

Poi è arrivato Facebook. Se si commenta, lo si fa lì. Se si condividono foto, lo si fa lì. Le “amicizie” si accettano o si rifiutano lì. L’anonimato, a cui non ho mai tenuto, non aveva più senso, comunque. Il blog io non l’ho mai lasciato. È sempre il divano di casa mia. So che ci sono alcuni che mi conoscono da tempo che leggono in silenzio e non sono su Facebook o su altri social. Ma comunque rispetto a Facebook, che è utile, e a Instagram, che mi piace, il blog resta una cosa diversa.

Specialmente il mio blog, che non aveva una funzione precisa, se non chiacchierare di quello che mi va. In tutti questi anni, gli incontri che ho fatto su questo spazio sono stati preziosi. Sono legati a bellissimi ricordi dal vivo. Non voglio far torto a nessuno, ma qui ci starebbero bene tanti nomi di persone a cui sono grata per questo. Ne menziono solo tre, in qualità di facilitatrici di tante altre amicizie: Barbara (all’epoca poesianotturna, oggi Mamma Felice), Silvia (metà di Genitoricrescono, ma anche riemersa da un passato comune) e Iolanda (Filastrocche e poi Fattore Mamma), che mi ha fatto vedere Milano in una luce del tutto diversa.

E chiudo ricordando che questo spazio non esisterebbe più da tempo se Andrea Beggi, che peraltro non ho mai conosciuto, non me lo avesse fatto migrare da Splinder a qui con un gesto di pura generosità. Una disponibilità che mi era stata segnalata da un’altra amica sulla rete, che non ho mai ringraziato abbastanza.

Ho molto rallentato l’aggiornamento di questo spazio, ma non ho mai pensato di chiuderlo. Mi piace pensare che nel tempo si siano aggiunte persone nuove e che le vecchie tornino di tanto in tanto a riaffacciarsi. Fatevi vivi, ogni tanto.

Di meno ma fa male


Uno dei miei punti di forza è la capacità di riprendermi dalle botte della vita. Riesco a farlo in primo luogo perché la mia memoria funziona in modo anomalo. Come una stoffa malamente rattoppata (e come il golfino che indossavo oggi…) ogni tanto si apre un buco in cui tanti rancori vengono inghiottiti. Non sono particolarmente generosa nel perdonare, ma per fortuna spesso mi dimentico di portare rancore. Mi dimentico anche perché dovrei portarlo. Però dimentico anche di chiedere scusa e i motivi per cui avrei dovuto farlo.

Ho una playlist su Spotify che si chiama Memories e negli ultimi due mesi mi ha riportato flash del passato, inclusi ricordi agrodolci. Penso in particolare a due amicizie che ho creduto eterne e che si sono spente di colpo nel nulla, dopo un periodo relativamente breve. Una aveva la suo colonna sonora e in qualche modo parte della sua essenza in alcune melodie pop israeliane. L’altra, legata ad Israele anch’essa, ha piuttosto il suono dei REM. Sarà per questo, oltre che per un paio di altre ragioni, che una parte di me è convinta che io debba ritornare a Gerusalemme, dove ho lasciato alcuni conti in sospeso con la giovane me che credeva di essere intelligente. Nel 1994 e poi ancora nel 1999, sempre di agosto. Ho assorbito gli urti, ho tirato dritto, ma i pezzi ancora non sono andati bene a posto.

Oggi mi trovo a rivivere per certi versi una situazione simile a quelle due. Anche in questo caso, assumo un’aria intelligente e matura (stavolta ho anche l’età dalla mia parte) e mi dico che sono cose che capitano. Ma non sono tanto convinta. Perché capitano? Perché a un certo punto ci si arrende alle incomprensioni e al silenzio?

Ho voluto bene, per un tempo più o meno lungo, a tutte e tre le persone a cui sto pensando questa sera, e ce ne aggiungo anche una quarta logicamente connessa e anch’essa persa, anche se meno subitaneamente e meno misteriosamente. Due donne, due uomini. Ancora oggi non posso fare a meno di pensare che mi dispiace che sia andata così. È stato uno spreco, come quando ti regalano una bella pianta e la lasci appassire per incuria, perché non ci pensi e, quando ci pensi, ti convinci che potrai occupartene dopo. Però dopo è troppo tardi o magari quel dopo non arriva nemmeno.

Il tempo e la scarsa memoria aiutano. Lo dice una canzone di Yehuda Poliker che ho sentito spesso in questi giorni: fa male, ma di meno / di meno, ma fa male.

Imparare


Aspetto il 75 a Termini. Smanetto con lo smartphone. “Come stai?”. “Bene, grazie”, rispondo in automatico e sorrido esitante. Lo conosco? Mi pare di sì, ma non metto a fuoco. Poi riconosco la voce di un giovane ospite di uno dei nostri centri di accoglienza. Era nell’ufficio accanto al mio qualche giorno fa, per un colloquio che io ascoltavo, mio malgrado, attraverso il vetro. Chiacchieriamo, aspettando il 75 che non c’è. Realizzo che avrei dovuto riconoscerlo prima. L’ho sentito parlare in pubblico alla manifestazione del 25 aprile a San Saba, cantare a un concerto al Centro lo scorso settembre. L’ho persino fotografato mentre ascoltava attento una vecchietta del quartiere. Però non l’avevo riconosciuto e un po’ me ne vergogno. Lui invece si ricorda di me e di Meryem.

Parla un italiano fluido e, mi dice, varie altre lingue. Ha perso qualche occasione per questioni di documenti, ma ora è tutto a posto. Lavora come addetto alla sicurezza in un grande magazzino aperto recentemente, di cui apprezza persino la piccola esposizione di reperti archeologici.

Realizzo che questo giovane quasi trentenne da 4 anni non ha una camera tutta per sé. Non se ne lamenta, ma ammette che è faticoso. Però, paradossalmente, ora che si avvicina il momento dell’autonomia, ne ha paura. Teme la solitudine. E per la prima volta si è sentito vulnerabile.

“Ho attraversato il mare, sono stato giorni su quel barcone nel buio e mi è sempre parso di stare bene. Ero tranquillo, sempre”. Ma a dicembre, per la prima volta, ha avuto un attacco di panico. Ora va meglio, ma si sente insicuro.

Ha bisogno di parlare e in realtà anche io. Vengo da una trasferta un po’ solitaria. Finiamo a parlare dei miei studi e dell’ebraico, lingua resuscitata. “Non ne sapevo niente. Che cosa interessante. Oggi ho imparato qualcosa”. Anche io, forse. Basta così poco.

Lei così amata


Quante volte, finendo un libro – magari non subito, ma lasciata un po’ sedimentare l’esperienza – avreste voluto dirgliene quattro all’autore? Magari con il trasporto e l’affetto che nutrite per uno dei “vostri” autori, uno che ha saputo parlare alla vostra anima, persino un po’ troppo? Ecco, in questo scorcio del 2017, senza averlo davvero programmato, mi sono tolta questa soddisfazione. Al concerto di Natale del Centro Astalli, in un improbabile tribudio di danze africane sotto la cupola barocca del Bernini, ho incontrato Melania Mazzucco e Brigitte, il personaggio-coautrice di “Io sono con te”. Scambiati gli affettuosi auguri di rito, mentre Meryem correva a salutare il resto della multicolore compagnia lì radunata, Melania Mazzucco mi dice una frase gentile di quelle consuete, tipo “come è cresciuta, adesso il grosso della fatica è passato, sarai soddisfatta, eccetera”. Non ricordo le esatte parole, ma di punto in bianco mi è uscito dal cuore, più o meno con queste parole, un pensiero che covo da quando ho letto il romanzo che dà il titolo a questo post. Proprio tu, parli? Tu che hai scritto il romanzo più terrificante sulla genitorialità che io abbia mai letto, roba che se l’avessi letto nel 2005 e non nel 2015 magari oggi non avrei figli? Com’era quella frase? “I nostri figli dipendono da noi – assorbono ogni nostro gesto, ogni nostra parola, ogni elogio e ogni divieto. Siamo il loro esempio, e ciò che odiano di più. Siamo responsabili dei nostri figli. Essi diventano ciò che siamo e a volte non sappiamo neanche di essere. Sono le nostre intenzioni. Il peggio e il meglio di noi”. Il mio peggiore incubo, il più brutale sbattimento in faccia di verità a cui possa pensare, secondo solo (forse) al verso di De André “femmina un giorno e poi madre per sempre”. Vabbè, Melania è una donna intelligente e di larghe vedute. Spero non si sia offesa 🙂

Ma in effetti non era di questo che vi volevo parlare, in questo post di fine anno. Durante una pausa pranzo al mio bar, il Bar della Pigna – ritrovo, punto di riferimento e luogo di incroci causuali che, realizzo solo oggi, fa un po’ rivivere il baretto di via Dezza della mia gioventù – una amica mi ha detto, commentando la piacevole serata del mio compleanno: “You are much loved”. Le sue parole sono state un po’ la rivelazione di fine anno.

Io, specialmente negli ultimi anni, sono stata molto concentrata su quanto è andato storto nelle mie relazioni o, più precisamente, di quanto le relazioni di amore e di amicizia abbiano preso pieghe assai lontane, se non diametralmente opposte, rispetto alle mie aspettative. Questo mi ha impedito di mettere a fuoco a sufficienza una realtà per nulla scontata: sì, sono molto amata. Da un sacco di persone diverse, in molte forme diverse, in barba alle distanze geografiche e temporali. Nonostante il mio carattere complicato e le mie molte contraddizioni.

Aggiungo che, se guardo indietro alla mia vita, senza soffermarmi proprio sulle macchie e sugli strappi, devo ammettere che mi è piaciuta e anche oggi mi piace. Ho fatto tante cose diverse, ho tantissimi ricordi belli, intensi, comici. Amo, più di tutto, l’improbabile che è una specie di fil rouge in quel che faccio, che scelgo, che mi capita. “L’avvenire è dei curiosi di professione”, si diceva in un film che ha strapazzato il mio cuore adolescente. Se c’è una cosa che davvero vorrei essere è questa. Curiosa sempre, anche quando sento che mi cala addosso la quotidiana cappa di stanchezza e la disillusione.

Per questo chiudo il 2018 con una delle mie frasi preferite, tratte da un libro che dovrei rileggere, La mia vita di Agatha Christie.

“Un bimbo dice:
“Grazie, mio Dio, per la mia buona cena””
Cosa posso dire io a 75 anni?
Grazie, mio Dio, per la mia buona vita e per tutto l’amore che ho avuto.”

Mi mancano trent’anni esatti per arrivare a 75 anni, quindi so che avrò molto altro di cui essere grata. Ma per questo 2017 inizio da quel che c’è oggi.

Buon nuovo anno a tutti voi!

Onestà intellettuale


Una cosa che mi piace sempre, dopo un evento pubblico di Astalli, è quel momento di rilassato commento a cose fatte che mi concedo con chi ha condiviso con me le fatiche dell’ideazione, dell’organizzazione e della realizzazione. Quello di ieri, una conversazione con Nando Sigona e Marino Sinibaldi, è stato uno di quei momenti di godimento che ristorano lo spirito e di cui ultimamente sento crescente bisogno. Mi ha colpito che la mia collega, che non lo conosceva, abbia definito Nando “intellettualmente onesto”. Definizione magari un po’ inusuale, ma certamente azzeccata. Le sue parole mi hanno fatto pensare, a distanza di diverse ore, a altre situazioni della mia vita, passata e presente e a quanto l’onestà intellettuale per me sia determinante, decisiva, anche nella selezione delle mie affinità e amicizie.

In passato mi rendo conto di avere ecceduto in severità o in assolutismo, esattamente rispetto a questo valore che prima di ora non avevo mai chiamato così. Ricordo una situazione specifica, tipicamente para-accademica, in cui mi rendevo conto che sarebbe stato sufficiente prendere pubblicamente le distanze dalla mia precedente affiliazione per avere discrete chance di entrare in un’altra cerchia, potenzialmente più promettente in termini di prospettive. Ero ancora relativamente giovane, arrabbiatissima per un’ingiustizia subita di fresco e traboccavo rancore. Ma no, non me la sono sentita. Per fedeltà a un maestro che a modo suo mi aveva dato molto? Forse. Ma soprattutto, in quel momento, perché non mi pareva intellettualmente onesto. Perché facendo così mi pareva in primo luogo di tradire me stessa.

Giusto? Sbagliato? Ingenuo? Arrogante? Poco conta ormai. In fondo è storia di una serata che magari non mi avrebbe portato da nessuna parte comunque. Più grave, forse, è stato incrinare e alla lunga interrompere rapporti perché altri, amici cari, non intendevano come me questa sorta di coerenza granitica al principio. Oggi vedo, con l’occhio della maturità, che la vita è fatta di sfumature molto più di quanto credessi io a 23 o 26 anni.

Ma ancora oggi che sono attempata provo dispiacere quando rivedo nella vita privata, nelle relazioni e nei rapporti le stesse logiche di gruppo che all’università mi hanno sempre fatto orrore: questo è con noi, questo è contro di noi. Ricordo che una volta (ero matricola) uno che non a caso oggi è professore associato e che mi rivolgeva la parola per la prima volta mi chiese: “E tu, di chi sei?”. Perché era chiaro, in quel corridoio come in molti altri, che era l’ordinario a determinare gli amici e i nemici, chi stimare e chi criticare e poi, crescendo, a chi scrivere recensioni positive a chi scrivere recensioni negative.

Questa obbedienza e sospensione di autonomo giudizio a me non è stata mai chiesta e, magari, non sarei mai stata in grado di darla. Faccio fatica a chinare la testa anche quando è necessario e auspicabile, figuriamoci per conto terzi. Vedo però, oggi sulle bacheche come allora per i dipartimenti, che invece tanti si prestano e probabilmente non ci trovano neanche nulla di strano o di sbagliato.

Come sempre


Vorrei scrivere tante cose, oggi. Avevo anche un po’ di idee per celebrare 12 anni di scrittura su questo blog disomogeneo, di nicchia, strampalato, ma che comunque è uno spazio che mi è caro più di qualunque casa fisica in cui sia vissuta.

Come sempre (o almeno spesso) accade, le circostanze hanno disposto diversamente. Paradossalmente il mio stato d’animo di oggi è assai vicino a quello dei primissimi post, praticamente privati, del 2004. Dunque, verrebbe da dire in prima battuta, a che è valsa tutta la strada fin qui?

Però c’è una cosa molto diversa da allora. Io so con certezza assoluta che alcune volte credevo di non farcela, in questi 12 anni, e invece ce l’ho fatta sempre. Per questo brindo, dunque. Per tutta la vita passata sotto i ponti, per il web luogo della mia curiosità e di tanti incontri inattesi, per tutte le cose belle che scoprirò quando questo momentaneo sconforto mi sarà passato. Passa sempre.

Un saluto speciale a quelli che mi leggono fedeli e silenziosi, che ci sono sempre e di cui qualche volta colpevolmente mi scordo, nel frastuono dei social. Grazie, di cuore.

Amicizia


“Gli olandesi fanno di questi scherzi. Nel bel mezzo di una festa uno si alza, fa un discorso ed ecco che piangono tutti”. In effetti è andata esattamente così. Garbatella, casale che sembra ancora una sezione del PCI anni ’70, invitati assortiti per età, paese di origine, cultura nel senso più pieno e vario del termine. Cibo verace, musica dal vivo (senegalese, per lo più). Ed ecco, si alza una signora olandese minuta, che io qualificavo genericamente come parente della festeggiata, e inizia a leggere diligentemente un discorso, in italiano accurato.

Vorrei avere il testo originale. Ricordo però che iniziava con due bambine di 4 anni che andavano a scuola, mano nella mano. E proseguiva con due liceali, e poi con due donne separate dalle distanze ma riunite dal fatto che una delle due, in un momento cruciale della sua vita, aveva trovato assolutamente naturale telefonare all’altra per confidarsi. L’altra, la sua amica del cuore. Ancora oggi. Da 66 anni.

L’espressione amica del cuore mi ha spesso suscitato un sorrisetto di superiorità. Non ho amiche del cuore, io. Oggi di colpo realizzo che non è una cosa di cui vantarsi. 66 anni di amicizia, 66 anni di fedeltà. 66 di disponibilità ad aprire il cuore con garbo e pazienza a un altro essere umano. Io, semplicemente, non sarei capace. Non sono stata capace, forse non lo sarò mai.

Vero è che Marielou, che oggi incredibilmente fa 70 anni, è stata capace di essere amica persino mia. Nonostante le mie spigolosità, i miei silenzi, la mia fretta, i miei impegni veri e presunti, la mia scarsa generosità di tempo e di attenzione.

L’arte dell’amicizia mi è fondamentalmente sconosciuta. Ma oggi, guardando due donne olandesi diverse eppure ancora così vicine, mi si è manifestata in tutta la sua potenza. Ho pianto anche io, insieme a molti altri (anche insospettabili). E ho provato profondo rispetto e ammirazione.

Utopia e visioni. Conversazioni in un casale


Mai come in questo periodo sono coinvolta in corsi di formazione, in colloqui con visitatori, ricercatori, gruppi di ogni forma e dimensione. Forse troppo. Confesso che giorni fa, davanti all’ennesima sessione per i ragazzi del servizio civile, avrei preferito darmi alla macchia. Ho deciso di curare questa saturazione con l’omeopatia. Ieri, alla Città dell’Utopia, ho deciso di parlare di rifugiati come piace a me. Quasi senza limite di tempo, senza vincoli, senza contraddittorio. Lusso puro. C’era solo ci voleva, nessun registro e nessuna firma di presenza. Si è chiacchierato. Soprattutto io ho chiacchierato, a dirla tutta. Perché ne avevo bisogno.

Avevo bisogno di dire a me stessa che la questione rifugiati è complicata, ma che si può spiegare, un passaggio alla volta. Capire certo non cambia le cose, non subito almeno. Ma non capirle può facilmente peggiorarle.

Molti anni fa, quando mi sono iscritta all’Università, ho bruscamente cambiato programma e invece di iscrivermi a matematica ho deciso di studiare Vicino Oriente antico. La leggenda familiare narra che, al telefono con i miei ancora in vacanza, davanti al loro comprensibile stupore io abbia risposto: “Ma è praticamente la stessa cosa”. Probabilmente mi riferivo a quello sforzo di far lavorare il cervello verso quello che ancora non è noto, in quel misto a percentuale variabile di paziente applicazione di modelli, apporto di nuovi punti di vista e botte di culo. Ieri la mia amica Caterina, tra il serio e il faceto, mi faceva notare che la decifrazione dei sistemi di accoglienza in Italia richiama pericolosamente il livello di complessità della filologia biblica (preconcetti ideologici inclusi). Alla fine scoprirò che, nonostante le apparenze, da decenni continuo a fare la stessa cosa.

Un elemento comune a tutto resta certamente l’utopia. Utopico era il progetto degli Orientalisti, utopia pura era capirci qualcosa della storia della religione di Israele, utopia è certamente immaginare un cambiamento sensato per i rifugiati nel mondo. Al limite, utopia è anche la promozione della giustizia. Poi però ripenso a un libro letto un paio di anni fa e mi correggo: quelle mie attuali non sono utopie, devono essere visioni. No, non è la stessa cosa.

Non dispero


Improvvisamente mi trovo a vivere in un Paese che discute animatamente di rifugiati. Quello stesso Paese che ignorava felicemente e compattamente tutte le questioni di cui vi parlo da un po’ di anni: il Regolamento di Dublino, il fotosegnalamento, Eurodac e compagnia bella. Non fraintendetemi, non dico che adesso queste cose siano conosciute e comprese. Però se ne parla un sacco. Anche in televisione.

Che bello, direte voi. Insomma, vi dico io. Improvvisamente capisco pienamente la frustrazione dei nutrizionisti veri davanti agli articoli intitolati “10 trucchi per affrontare la prova costume”. Degli archeologi universalmente rappresentati, agli occhi del pubblico, da Indiana Jones. Se mi mettessi ad elencare l’intero catalogo di fesserie, imprecisioni, assurdità e semplici falsità che vengono sciorinate ogni dove, nonché amplificate e commentate sui social, questo post non arriverebbe mai a conclusione.

Non vi nascondo che ogni tanto mi assale lo sconforto. Ma, ne sono convinta, questa tenace e assidua ondiata mediatica di allarme, terrore e considerazioni orrende può e deve essere contrastata, almeno nel nostro piccolo. In questi anni, qui sul blog e sui social, ho provato a condividere i miei pensieri e la mia esperienza. E qualcosa oggi, in questi momenti difficili, torna. Un’amica che suggerisce ai suoi colleghi una donazione; un’altra che mi racconta dell’incontro con un giovane rifugiato eritreo, a casa di amici; un’altra che, di passaggio a Roma, stasera viene al convegno del Centro Astalli. L’altro giorno la mia amica Natalia mi ha parlato dell’impegno di un gruppo scout che lei conosce bene a sostegno dei rifugiati in transitano a Roma. Mi sono incuriosita e le ho chiesto di mettermi in contatto con Marco, il capo scout con cui collabora.

Ecco qui, dunque, una testimonianza a due voci. Di Marco, capo scout, e di Natalia Cattelani, che conoscete come cuoca e foodblogger, ma qui nelle vesti di mamma e soprattutto della splendida persona che è. Grazie a tutti e due.

Faccio una premessa: l’associazione scout di cui fa parte il nostro gruppo è la FSE-Federazione Scout d’Europa, a cui aderiscono più di 19.000 soci in Italia. 

Ogni gruppo viene gestito da una comunità di capi, e l’insieme dei gruppi di una stessa zona forma un distretto, gestito a sua volta da un responsabile (chiamato in gergo “commissario”): nel nostro caso si tratta di Andrea Stabile per il distretto Roma Est. Andrea ha ricevuto più di un mese fa una prima richiesta di aiuto, da parte di uno dei capi dell’associazione, per dare una mano con la preparazione e distribuzione viveri per l’emergenza a Ponte Mammolo [Ponte Mammolo, nei pressi della fermata della metro B, era una baraccopoli dove da anni risiedeva un gruppo di rifugiati eritrei: negli ultimi tempi l’insediamento si era assai allargato a causa dell’arrivo di profughi in transito, diretti verso il nord Europa].
Subito Andrea ha coinvolto noi singoli capi dei vari gruppi del distretto per garantire la presenza di un gruppo di almeno 5-6 persone ogni domenica di maggio e giugno. La risposta è stata ovviamente scontata, tenendo fede al nostro motto “sempre pronti!” 🙂 Andrea è in contatto anche adesso con don Marco Fibbi, parroco di San Romano, che coordina questo tipo di servizio e si stanno dando un gran da fare spendendo tempo ed energie per una gestione attenta e pronta a soddisfare le richieste.

Come dicevo, la prima esperienza per i capi del mio gruppo (e quindi anche per me) è stata a metà maggio, mentre altri capi del distretto avevano già distribuito nelle domeniche precedenti. Se fino a pochi giorni prima si parlava di dover preparare panini e 1 pasto cucinato per un massimo di 150-200 persone: venerdi sera le comunicazioni di don Marco erano abbastanza preoccupanti: a Ponte Mammolo infatti erano già arrivate almeno 400 persone (si sarebbero poi rivelate molte di più la domenica sera per il servizio).

Abbiamo inizialmente coinvolto solo i capi maggiorenni e qualche genitore disponibile a darci una mano nella preparazione di 400 panini. Durante il pomeriggio di domenica è partita la preparazione del cous cous, circa 15-20 kg. Abbiamo conosciuto di persona don Marco che ci ha prospettato una situazione difficile. Non sapevamo ancora cosa avremmo trovato nel parcheggio di ponte mammolo e ovviamente in queste situazioni la voglia di servire si scontra con la paura di non essere preparati alla gestione di una situazione umanitaria così sconvolgente. Ma, come recita uno degli articoli della nostra legge, “lo scout sorride e canta anche nelle difficoltà”, e dunque abbiamo caricato tutto in macchina, compresi circa 100 lt di latte offerti dalla caritas della nostra parrocchia e siamo partiti.

La visione di tutte queste persone ammassate nel parcheggio e nella baraccopoli (che sarebbe stata abbattuta il giorno successivo dalle ruspe) ci ha sicuramente colpito emotivamente, ma allo stesso tempo ci ha caricato: le persone si sono messe educatamente in fila. La paura più grossa era il timore che avremmo potuto finire il cibo prima che tutti e 500 o 600 avessero potuto mangiare: temevamo più che altro di deluderli, di leggere il disappunto nei loro occhi.

Invece tutti questi pregiudizi sono scomparsi vedendo i sorrisi, i ringraziamenti, e in particolare vedendo i ragazzi chiederci buste dell’immondizia per girare e pulire il parcheggio dai piatti e bicchieri di plastica.

Le domeniche successive Ponte Mammolo era tornata nella “normalità”: erano presenti meno di cento persone e la distribuzione da parte di altri capi è stata più tranquilla.

Poi è stata la volta del parcheggio Stazione Tiburtina, la domenica prima del nuovo sgombero da parte delle forze di polizia. Se a Ponte Mammolo la situazione sembrava isolata, per la particolare posizione del parcheggio, qui ci trovavamo in zone normalmente di passaggio. Parlando con uno dei capi più giovani, qualche giorno dopo, ho potuto constatare come il pessimo giornalismo contribuisca ad aumentare i pregiudizi. Nascono facilmente nelle loro menti associazioni del tipo: “Ma se se la passano così male perchè hanno i cellulari”, o “Che gli ci vuole a rubare una macchina”, senza che ci si renda pienamente conto dell’assurdità di certe affermazioni. Ma dopo, attraverso l’esperienza diretta, hanno capito che si trattava di pensieri infondati.

Dopo lo sgombero, la situazione profughi è balzata all’onore delle cronache e la gestione della distribuzione viveri è passata alla CRI, come ci aveva avvisato don Marco. Con Andrea abbiamo così cambiato strategia, invitando i capi e le famiglie a portare viveri già cucinati presso le sedi del nostro gruppo. La risposta è stata molto positiva e tante famiglie hanno contribuito cucinando riso e cous cous da destinare al centro Baobab e alla tendopoli da poco installata dietro la Stazione Tiburtina (via delle Cave di pietralata).

Nel corso delle settimante le poche notizie che arrivavano dai mezzi di comunicazione raccontavano solamente sgomberi e suggerivano che “il problema” era stato risolto, senza precisare che invece i profughi si trovavano principalmente al Baobab. Molte famiglie erano preoccupate della situazione e ci chiedevano continuamente se ancora servisse preparare cibo perchè dai TG sembrava tutto risolto. Ma non è affatto così, come ho potuto constatare di persona domenica scorsa al Centro Baobab.

Uno dei genitori che ha cucinato cuscus alle verdure per i rifugiati di via Cupa è Natalia, che commenta così questa esperienza.

I miei genitori mi hanno sempre insegnato a vivere da buona cristiana anche per gli altri , ad avere quell’attenzione in più verso “un prossimo” che poteva anche essere uno sconosciuto ma anche far parte della famiglia, il prossimo era chiunque avesse avuto bisogno di qualcosa .
Da grande questo aiuto l’ho trasformato in qualcosa di concreto per conciliare anche i miei impegni di mamma e di lavoratrice: ho cercato di donare quello che mi veniva di fare meglio , in modo più spontaneo e anche , lo ammetto, con il dispendio di poche energie. Non sono una super donna: io aiuto il prossimo rendendomi disponibile a preparare cibo per chi non ne ha.
Come potevo rimanere insensibile ora, non rispondere alla richiesta di Marco, il capo scout delle mie figlie di preparare pasti per i migranti di Roma? Però credetemi, come sono felice nel fare questo alolo stesso tempo sono assalita dall’angoscia di sapere che non sarà nulla in confronto al bisogno di queste persone, alle loro tragedie, alla vita che li ha scelti per un destino così crudele. E allora mi chiedo, facendo riflettere anche i miei famigliari: perché loro e non noi?

Qui trovate qualche scatto che documenta la loro esperienza.

Perché vi racconto questa storia, una delle tante storie di solidarietà che sono raccontate troppo poco, ma caratterizzano ancora le nostre città? Perché è un esempio di quello che tante volte ho scritto in questo blog e dell’invito che vi faccio, anche quest’anno, in occasione della Giornata del Rifugiato: non accontentatevi di leggere i titoli dei giornali, o di farvi stordire dai dibattiti televisivi sui rifugiati. Cercate di incontrare loro, direttamente. Di capire chi sono davvero. Per smontare un pregiudizio anche il migliore dei discorsi è meno efficace di mezzora di esperienza vissuta.

P.S. La vignetta è sempre di Mauro Biani.

Limiti


Ritengo perciò che sia quanto mai vitale approfondire oggi una cultura dei diritti umani che possa sapientemente legare la dimensione individuale, o, meglio, personale, a quella del bene comune, a quel “noi-tutti” formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Infatti, se il diritto di ciascuno non è armonicamente ordinato al bene più grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque per diventare sorgente di conflitti e di violenze.” (Dal discorso di Papa Francesco al Parlamento europeo)

In questi giorni sono un po’ ombrosa e storta. Fastidi minori finiscono per combinarsi tra loro e il rimuginìo (si dice?) è alle stelle. Ieri, a un convegno a cui sono riuscita a fare solo una capatina piuttosto fugace, si discuteva un po’ sommariamente (peccato) di temi importanti. A un certo punto, dal cloud acustico di una relazione, si è stagliata un’espressione che mi ha risvegliato: “il senso del limite”.

Ho capito di colpo che la chiave che accomuna alcuni dei miei malesseri di questo momento è proprio questa, il superamento dei limiti.

Istintivamente, per carattere e per lavoro, diffido dei limiti e dei confini. Sono poco tollerante rispetto alla limitatezza, mia e altrui. Guardo continuamente a confini che uccidono e a limiti fisici e ideologici che tolgono dignità. Eppure il limite ha una sua importanza, persino una sua sacralità. E’ esattamente il limite (il dio Terminus, per gli antichi romani) ciò che tutela ogni diritto e di ogni impegno. Creare, in molte mitologie antiche inclusa quella biblica, è esattamente il gesto di separare e mettere dei limiti, senza i quali tutto sarebbe sterile caos, nulla.

Oggi, leggendo un bel post di Veronica sui vaccini, mi trovavo ancora davanti il limite, in forma di dubbio: “dove finisce la libertà di un genitore di decidere se vaccinare o no i propri figli senza nuocere alla collettività?”. E in fondo non è analoga la questione che ci siamo posti, nello choc che ha seguito i fatti di Parigi, rispetto all’eventualità che anche la libertà di espressione debba porsi dei limiti, a tutela delle libertà e dignità di tutti? Giusto ieri, al convegno, si osservava che anche giuridicamente esiste il concetto di abuso del diritto (l’articolo 17 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è una specie di scioglilingua e ve lo risparmio). In alcuni casi la Corte Europea si è pronunciata in merito all’abuso della libertà di espressione: ad esempio rigettando il ricorso di alcuni svedesi che avevano divulgato volantini contro l’omosessualità in una scuola e avevano rivendicato il loro diritto alla libertà di espressione, oppure condannando il negazionismo (con qualche contraddizione anche recente, però).

Il senso del limite implica consapevolezza e rispetto. Dovrebbe essere il fondamento di tutte le relazioni tra persone, prima che fra gruppi. La facilità di interazione porta, a volte, a superare i limiti. Ancora una volta, c’è una dimensione positiva della permeabilità del limite, della possibilità di superare barriere e ostacoli, di scoprirci più vicini di quanto si creda. Sono la prima sostenitrice di questa specie di magia della comunicazione web. Ma ogni contatto implica una responsabilità. Anche quando si misurano nell’ordine delle centinaia, o delle migliaia.

Negli ultimi tempi, complice certamente un momento di stress particolare, mi sono spesso sentita ignorata, talora persino offesa o ferita dalla trascuratezza altrui. E certamente altrettante reazioni avrò provocato, nella rapidità un po’ superficiale dello scorrere di una timeline o di una conversazione frettolosa con la mente rivolta ad altro. Sempre più spesso mi confronto con esortazioni a mettere al centro se stessi, a ripartire da sé, a valorizzarsi e promuoversi. Ho la sgradevole sensazione che questo punto di vista porti a perdere di vista i limiti che ciascuno di noi dovrebbe porre ai propri desideri, sogni, aspirazioni e esigenze perché ci sia effettivamente uno spazio reale, e non teorico, per l’interlocuzione con gli altri.

E se fosse proprio il senso del limite che dobbiamo tutti riscoprire?

 

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