Una cosa che mi piace sempre, dopo un evento pubblico di Astalli, è quel momento di rilassato commento a cose fatte che mi concedo con chi ha condiviso con me le fatiche dell’ideazione, dell’organizzazione e della realizzazione. Quello di ieri, una conversazione con Nando Sigona e Marino Sinibaldi, è stato uno di quei momenti di godimento che ristorano lo spirito e di cui ultimamente sento crescente bisogno. Mi ha colpito che la mia collega, che non lo conosceva, abbia definito Nando “intellettualmente onesto”. Definizione magari un po’ inusuale, ma certamente azzeccata. Le sue parole mi hanno fatto pensare, a distanza di diverse ore, a altre situazioni della mia vita, passata e presente e a quanto l’onestà intellettuale per me sia determinante, decisiva, anche nella selezione delle mie affinità e amicizie.
In passato mi rendo conto di avere ecceduto in severità o in assolutismo, esattamente rispetto a questo valore che prima di ora non avevo mai chiamato così. Ricordo una situazione specifica, tipicamente para-accademica, in cui mi rendevo conto che sarebbe stato sufficiente prendere pubblicamente le distanze dalla mia precedente affiliazione per avere discrete chance di entrare in un’altra cerchia, potenzialmente più promettente in termini di prospettive. Ero ancora relativamente giovane, arrabbiatissima per un’ingiustizia subita di fresco e traboccavo rancore. Ma no, non me la sono sentita. Per fedeltà a un maestro che a modo suo mi aveva dato molto? Forse. Ma soprattutto, in quel momento, perché non mi pareva intellettualmente onesto. Perché facendo così mi pareva in primo luogo di tradire me stessa.
Giusto? Sbagliato? Ingenuo? Arrogante? Poco conta ormai. In fondo è storia di una serata che magari non mi avrebbe portato da nessuna parte comunque. Più grave, forse, è stato incrinare e alla lunga interrompere rapporti perché altri, amici cari, non intendevano come me questa sorta di coerenza granitica al principio. Oggi vedo, con l’occhio della maturità, che la vita è fatta di sfumature molto più di quanto credessi io a 23 o 26 anni.
Ma ancora oggi che sono attempata provo dispiacere quando rivedo nella vita privata, nelle relazioni e nei rapporti le stesse logiche di gruppo che all’università mi hanno sempre fatto orrore: questo è con noi, questo è contro di noi. Ricordo che una volta (ero matricola) uno che non a caso oggi è professore associato e che mi rivolgeva la parola per la prima volta mi chiese: “E tu, di chi sei?”. Perché era chiaro, in quel corridoio come in molti altri, che era l’ordinario a determinare gli amici e i nemici, chi stimare e chi criticare e poi, crescendo, a chi scrivere recensioni positive a chi scrivere recensioni negative.
Questa obbedienza e sospensione di autonomo giudizio a me non è stata mai chiesta e, magari, non sarei mai stata in grado di darla. Faccio fatica a chinare la testa anche quando è necessario e auspicabile, figuriamoci per conto terzi. Vedo però, oggi sulle bacheche come allora per i dipartimenti, che invece tanti si prestano e probabilmente non ci trovano neanche nulla di strano o di sbagliato.