La passeggiata per il Gianicolo mi ha messo di buon umore. Mi dispongo dunque alla mia “presentation” con una certa rilassatezza. Mi hanno chiesto di presentare l’attività del Centro Astalli a un gruppo di religiose anglofone, normale amministrazione. Ho le mie slide e una breve scaletta. Poi mi scatta qualcosa. La Sister che mi accoglie mi è simpatica, la sua voce suona piacevole e gentile. Il gruppo che mi trovo davanti è eterogeneo, per età e nazionalità. Non piccolo, non enorme. Mi siedo alla scrivania, aziono il Power Point, ma prendo un’altra via.
Racconto di cosa significa questo lavoro per me. Delle mie aspettative giovanili, della casualità (della serie di casualità) che mi ha messo dove sono ora. Parlo di alcune persone che ho incontrato. Cerco di spiegare quali, secondo me, sono i drammi meno ovvi. Illustro in cosa andiamo bene e in cosa ancora noi tutti zoppichiamo. Vado a braccio, racconto la storia del JRS come io la percepisco. Mi sento parlare dell’esperienza rimossa della guerra in una società che dà per scontata la pace. Finisco raccontando del Papa ad Astalli e, inaspettatamente, mi commuovo anche (ancora????).
Funziono. Non so come mi sia venuto in mente di fare così, ma ho la sensazione precisa di aver colto nel segno. A questo gruppo servivano a poco i dati statistici e i chiarimenti legislativi. Vado a farmi un caffè, nella pausa. Una suora del gruppo si avvicina e mi racconta di sé.
Ruandese, è cresciuta in un campo profughi in Uganda. Mi descrive sua madre, abituata ad avere la servitù e a mangiare piatti ricercati, che si è trovata costretta, da un giorno all’altro, a cucinare per i suoi figli con materie prime scarse e povere. “Non era capace. Non l’aveva mai fatto. Noi bambini, spesso, avevamo la diarrea, perché lei sbagliava a cucinare gli alimenti. Poi, poco a poco, ha capito come fare. Ma per lei era come vivere in un pianeta sconosciuto”. Mi è grata perché ho sottolineato alcuni aspetti meno scontati. “Se guardo indietro, ripenso ai miei genitori. Allo sforzo immane che hanno fatto per proteggerci, per sollevarci da quella situazione. Ho visto mio padre piangere. Non tanto per la povertà, quanto per la preoccupazione di non avere la possibilità di farci studiare. Comunque andavamo a scuola. Il maestro insegnava all’aperto, sotto un albero. I nostri quaderni erano la sabbia su cui disegnavamo con un bastoncino”.
Lei alla fine ci è riuscita, a studiare. Le suore che lavoravano nel campo le hanno dato questa possibilità e lei è entrata, giovanissima, nel loro ordine. Presto è stata mandata a Roma. “Ho fatto la mia tesi sull’apostolato sociale. Oggi mi chiedo perché non ho scelto come argomento, specificamente, i rifugiati. Quell’esperienza è una parte di me che non mi abbandona mai”. Si vede che per te non è solo un lavoro, mi hanno detto molte. Già, forse si vede. Non saprei se sia un bene o un male, in generale. Oggi però, per loro, sono stata utile. Almeno credo.
è sempre berllissimo quando noj tipi cerebrali e intellettualizzanti decidiamo di fidarci della pancia, senza sapercelo spiegare. Grazie della lezione con parabola, ne ho un gran bisogno.
Leggendo mi sembrava di sentirti parlare. Hai colto nel segno perché hai parlato di te e della tua esperienza, è quello che serviva.