Ricordi difficili

Ricevo abbastanza raramente mail da parte di lettori di questo blog (non sono poi così tanti), ma il messaggio di Antonella conteneva un invito e una amichevole “sfida”, che raccolgo volentieri. Non avevo consapevolezza che oggi è la Giornata del Ricordo dell’esodo istriano e dalmata. Antonella lo sa, perché quella storia è la storia della sua mamma e, per riflesso, della sua famiglia. Lo sarebbe un pochino anche della mia, almeno trasversalmente. Il cognome sloveno di mio nonno è uno di quelli modificati per legge durante la politica fascista di italianizzazione. Mio padre non ha mai potuto imparare la lingua madre di suo nonno: parlarla a Gorizia sarebbe stato, a quel tempo, pericoloso. Non ho mai parlato con mio padre di tutte queste storie complesse, che hanno i loro strascichi ancora oggi, con un’unica eccezione: un viaggio in treno tra Roma e Gorizia che facemmo insieme e durante il quale lui, inaspettatamente, tirò fuori un racconto ininterrotto, di cui purtroppo non mi sono appuntata nulla e che istantaneamente mi si è confuso in testa in un guazzabuglio di particolari inestricabili l’uno dall’altro. Peccato.

Ma torniamo a Antonella. Sua madre ha passato la sua infanzia in un campo profughi, in Italia. Spesso dico che in Italia non esistono campi profughi. Ho sempre omesso di dire, perché non ci ho mai davvero pensato a fondo, che però sono esistiti. Ed erano come tutti i campi profughi del mondo: inadeguati, sprovvisti dell’essenziale, durissimi, in luoghi inospitali e inadatti alla vita umana. Lì, nel Carso, ad esempio, è successo che dei bambini morissero di freddo.

Questa pagina di storia è una di quelle che non siamo stati in grado né di scrivere né di raccontare. Forse perché, come emerge chiaramente dalle polemiche in un senso o nell’altro, che puntualmente si scatenano sui numeri, sulle responsabilità delle eventuali vittime, sul significato da attribuire a un episodio o all’altro, quella guerra è in un certo senso ancora in corso, sotto traccia. E’ esattamente così che, anche dopo decenni, si riaccendono le guerre civili. Ancora una volta dal mio lavoro imparo che i processi di pace da soli non bastano: serve un lungo, paziente e certosino lavoro di riconciliazione, che va ben oltre il livello politico e affonda nella cura dello spirito delle persone coinvolte.

Lasciatemi parlare da ignorante (nel senso che davvero ignoro molto di quel periodo storico). Io credo che le persone debbano essere messe al centro, sempre. Se delle persone hanno subito trattamenti degradanti e delle violenze gravi (come è il caso, ovviamente, in tutte le guerre), io non accetto di fare classifiche o di dare giustificazioni. Il che significa, ovviamente, che ci provo. Non è una cosa facile. Mi viene in mente un esempio che non farò, perché aumenterebbe di molto il tasso di potenziale polemica di questo post, che davvero vorrei evitare. Ma penso adesso al mio lavoro. Le storie dei rifugiati sono considerate, sempre,  su base individuale, caso per caso (o almeno, così dovrebbe essere). Questo aiuta a prendere le distanze dalla tentazione di far scontare al singolo,  i cui diritti umani sono stati violati, la responsabilità vera o presunta della collettività a cui appartiene.

Se penso ai conflitti attualmente in corso, la Siria in primis, nei report ONU è frequente leggere la frase: “gravi violazioni dei diritti umani sono state perpetrate da tutte le parti in conflitto”. Questo vuol dire, in pratica, che in tutti e due gli “schieramenti” ci sono vittime da difendere e tutelare, ma che soprattutto (come è il caso in Siria) certamente ci sarà una maggioranza silenziosa e politicamente ininfluente che subisce due volte: per quello che soffre e per il fatto che la narrazione contemporanea ignora le persone che non può etichettare come “buoni” o “cattivi”. Credo davvero che l’esperienza della Siria contemporanea possa aiutarci a guardare con maggiore giustizia anche all’esodo istriano e alle foibe.

Certo è che ci sono persone che dopo un’esperienza dolorosa e grave non ha avuto nessun riconoscimento e anzi hanno vissuto con vergogna la propria condizione di esule, perseguitato e vittima. Antonella mi scrive che il campo profughi sorto a Trieste, sul Carso, è ora un museo. Quando ha raccontato alla sorella di sua nonna, che ora vive in Canada, di averlo visitato, Antonella intendeva esprimere la sua emozione, la sua solidarietà e la sua vicinanza per qualcosa che lei aveva vissuto e di cui lei invece non aveva mai ben capito la portata. Invece si è sentita raccomandare che “non era necessario che raccontassi in giro che anche noi eravamo stati là”.

“È molto difficile parlare di ricordi che in realtà non ci appartengono perché nessuno ce li ha fatti vivere”, racconta la signora Luciana, madre di Antonella; “la mia famiglia come la maggior parte degli Istriani ha tenuta nascosta la propria vicenda perché l’esodo è stata vissuto dai più come una sconfitta, un’umiliazione, l’istriano come asociale e reietto; l’esilio nell’accezione più dura del termine, quello dell’anima. Per cinquant’anni ho sentito sussurrare la parola ‘foibe’, ‘portato via di notte’, ‘sshh, a Pisino… mai più tornato’, ‘i fioi no devi saver se li cariga e poi lassa star più tardi la sa meio è’. Il capofamiglia, mio bisnonno ha lasciato assieme alle sue terre ed alla sua casa di contadino anche due figlie e ben sette nipoti; a nessun battesimo né cresima né matrimonio c’è stata la sua presenza; e come lui tutta la famiglia ha tagliato il cordone che ci legava a quelle terre ed ai nuovi padroni. Quello che mi ricordo della mia famiglia è la dignità con la quale hanno accettato la povertà, i sussidi, la promiscuità. Non ho mai sentito dal bisnonno o dalla nonna una lamentela o una parola di rimpianto, corrispondente all’educazione che mi è stata data: pensa e pondera bene ma quando prendi una decisione quella è la strada giusta, prosegui senza ripensamenti. Di noi profughi posso dire che ho scoperto molto da sola, da adulta, proprio come loro desideravano: gli occhi della maturità vedono con maggior calma e saggezza non lasciando spazio ad estremismi. Il discorso potrà continuare ma quello che vorrei raffigurare è la dignità del popolo istriano e lo illustrerò meglio con un episodio di vita vissuta (da me); quando nel ’69 al maresciallo Tito fu insignita la croce di cavaliere della Repubblica Italiana, io lo dissi a mio bisnonno non per sfida ma soltanto per curiosità: lui mi fissò con gli occhi slavati di vecchio miope cercando il mio sguardo e mentre il mento cominciava a tremargli disse: ‘Vol dir che anca Dio ne gà ‘bandonà’. L’Associazione che frequento ha presentato una richiesta di revoca di tale onorificenza (ed è per questo che quell’episodio si è rifatto vivo nella mia mente) ma da parte mia non c’è e non ci potrà mai essere quella veemenza e rabbia che vedo in altre realtà; noi Istriani siamo stati vilipesi dalla madre patria, costretti a rinunce ed umiliazioni e troppo stanchi nello spirito per gridare il nostro inutile dolore. Ogni nome che sento, vedi Vergarolla, mi fa sentire in mente la mia famiglia, quando parlavano sottovoce ed io li sentivo ma non capivo: stare in questa Associazione è come continuare a vivere con loro ma non da protagonista, bensì da spettatrice”.

Vi lascio con un contributo scritto dalla signora Luciana. E’ apparso in forma rimaneggiata, su “Umago Viva”, periodico dell’associazione di esuli con sede a Trieste con cui collabora. Parla di un film, “La città dolente”, che trovate anche su Youtube.

La città dolente.
Te parti? No, mi resto. Mi no so.
Tempo fa, è stato trasmesso su una rete privata un film in bianco e nero che attirava l’attenzione per le riprese essenziali e buie degli interni, molti i primi piani ed espressivi i volti dei protagonisti, tipico del neo-realismo italiano di quegli anni. Un film che annunciava la sua drammaticità già dall’incipit con la prua di una nave che solca un mare scuro, minaccioso e la scena finale sullo stesso mare ma quieto, statico come gli animi dei protagonisti placatisi soltanto alla fine di quei drammatici eventi storici che noi Istriani conosciamo bene: tesi ed indecisi all’inizio della vicenda fino al tragico finale con quattro scelte diverse ma tutte travagliate ed infelici. Il film è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare, restaurato dall’Istituto Luce e proiettato in varie sale in occasione della giornata del Ricordo.

Due sono le particolarità di questa pellicola: non presenta alcuna retorica, il realismo è accentuato se possibile da documentari che riguardano proprio l’esodo dalla città istriana (Pola) e che vengono inframmezzati a supporto della scenografia del film. Troviamo così le immagini dei documentari di Vitrotti e Moretti alternate alle scene del film, didascalie efficaci di spiegazione dei fatti (non da ultimo il coprifuoco della città in seguito all’attentato di cui fu protagonista la Pasquinelli). Questo è in assoluto l’unico film sugli esuli istriani che sia mai stato fatto, iniziato quasi in tempo reale su canovaccio di una storia vera. ‘La città dolente’ venne girato tra il 1947 ed il 1948 mentre la città di Pola si stava svuotando via via dei suoi cittadini, che vediamo appunto nei documentari mostrare il loro sguardo vuoto ed angosciato e la disperazione dei profughi che partono. Si intrecciano ai documentari ormai famosi sull’esodo della città, le vite dei protagonisti a stigmatizzare i diversi comportamenti dei nostri connazionali in quel momento: Berto indeciso se partire o meno, diviso tra la moglie impaurita e condizionata dall’esodo di quasi tutta la popolazione e l’amico che lo lusinga a rimanere paventando un futuro di libertà e di prosperità; Silvana la moglie preoccupata per il loro bambino ed intimorita dalla spavalderia degli slavi arrivati in città; Sergio che grazie al comunismo spera di riscattarsi e di diventare il padrone ed infine Lubiza, funzionaria comunista, che sarà l’unica tutto sommato a perseverare convinta sulla propria strada ideologica fino alla fine del film.

Tutti subiranno la tragedia della storia ma ciò che conta è che il regista, Mario Bonnard volle ammonire il popolo italiano a vigilare sulla nuova dittatura incombente ai confini orientali, sull’utopia comunista, sui lager conosciuti anche da connazionali non istriani, sulla differenza tra il popolo slavo che balla e si diverte, e gli Italiani costretti ad andarsene; ma….. inutilmente. Anche se ultimato in breve tempo, la distribuzione del film rimase bloccata per un anno e la pellicola uscì nel circuito parrocchiale soltanto il 4 marzo 1949; fu subito ritirato, e ne intuiamo a pieno il motivo, e poi cadde nell’oblio come lo siamo stati d’altra parte anche noi Istriani. Non meritano alcun commento, né tanto meno citazioni, le critiche fatte nel 1949 al film in se stesso soprattutto dai giornali di certa parte: i nostri vecchi dicevano che ‘Il tempo è galantuomo’ ed i fatti hanno dimostrato da soli la validità ad esempio degli sceneggiatori, uno dei quali fu Federico Fellini per il quale non occorrono commenti o delucidazioni; un altro fu Anton Giulio Majano di cui ricordiamo tra gli innumerevoli sceneggiati di mamma Rai, ‘La freccia nera’ con una giovanissima Loretta Goggi ed Aldo Reggiani oppure ‘David Copperfield’ con Ubaldo Lay e Giancarlo Giannini e tanti altri tutti firmati da lui; infine la protagonista femminile Constance Dowling (attrice statunitense) che fu amata da Cesare Pavese che le dedicò alcune sue poesie (Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi) e che godette di una certa fama nel suo paese.

Oggi basta molto meno per ottenere maggior successo di questi validi professionisti che fecero l’errore di girare un film non consono ai diktat politici del tempo, un film inopportuno che non fece epoca (oggi verrebbe osannato e catalogato nel cosiddetto cinema contro); spiace constatare che oggi come allora la politica continua ad influenzare la cultura e soprattutto la verità, quella che viene ricordata dai fatti e non dalle parole (o bugie) espresse al momento o sessant’anni dopo. Abbiamo anche noi occhi, cervello e ….memoria. Potrà sembrare un paradosso, ma il popolo italiano (notoriamente indisciplinato per quanto riguarda l’osservanza alle leggi) ha avuto bisogno di una legge per riconoscerci; soltanto con l’istituzione del Giorno del Ricordo, (legge n. 92, 30 marzo 2004), è stato tolto il paravento dietro al quale ci avevano relegati per oltre sessant’anni ed il film ‘La città dolente’ da opera scomoda è diventato un’opera addirittura da salvare. Ben venga questo riconoscimento ma a noi non serviva una legge né per ricordare né per conoscere la verità.

 

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