La valanga dei PIN


Ma capita solo a me di sentirsi sopraffatta dai codici da ricordare? La settimana scorsa, alla cassa del supermercato, ho avuto un vuoto totale sul pin del bancomat. Per varie vicende legate a IO, INPS, PagoPA e banca online (per tacere del registro elettronico), ho realizzato di avere una piccola enciclopedia di username, password, passcode, mpin e codici vari, per cui già decifrare QUALE vada inserito nel campo di controllo che inesorabilmente si apre richiede una lucidità e un livello di attenzione che decisamente non si coniuga con ampie parti della mia giornata tipo.

Ognuno di questi sistemi, semplicissimi per chi li definisce (a parte il portale INPS, notoriamente concepito per essere inaccessibile), ha però il grande difetto di essere uno di decine di sistemi che sono ormai indispensabili nella vita quotidiana. Aggiungiamo le legittime preoccupazioni di privacy, per cui tutte le password ogni tot vengono cambiate d’imperio e non possono assolutamente essere in alcun modo simili alle precedenti. Per non parlare di quando oltre a dichiarare di non essere un robot è necessario cliccare sopra minuscoli disegnini di semafori o strisce pedonali. Magari dallo schermo del telefono, al buio e con le mani intirizzite.

Perché la tecnologia ci segue ovunque, ovviamente. Per semplificarci la vita, ma anche spesso e volentieri per darci occasioni per sentirsi imbecilli e/o rincoglioniti. E poi, come è successo a una collega, ti arriva il quindicesimo SMS dalla banca (perché gli SMS arrivano ormai quasi solo dalle banche), solo che è una truffa e tu clicchi sul link e fai proprio quello che non devi fare, cioè inserire i maledetti codici. Che sono gli stessi che in genere cerchi affannosamente di ricordare e il fatto di esserteli ricordati ti fa sentire quasi brava. Peccato che poi un altro SMS, non truffaldino ma formalmente indistinguibile dal primo, ti annuncia che ti hanno prelevato dal conto migliaia di euro ed è pure colpa tua.

Ci sono mattine in cui anche la home del computer che mi chiede la password mi fa sentire inadeguata. “Ma dài, che esagerazione”, diranno i più giovani. O semplicemente i meno esausti. Ma a quella si aggiungono lo user name e la password di Zoom (io ne devo usare 3 diversi, di account), di Meet, di Skype e Dio solo sa quanto altro.

Io comincio ad avere proprio i vuoti di memoria. Comincio a rimuovere non solo i PIN, ma i nomi, le cose da fare. E poi, a cascata, pure le cose che ho fatto. Oggi ho investito una buona mezz’ora del mio tempo per cercare di ricostruire cosa caspita avessi fatto di un certo documento lo scorso 2 dicembre e soprattutto perché. Insomma, una piccola indagine storica. Peccato che il testimone chiave fosse del tutto inattendibile.

Noi, loro


Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Certamente. Ma è anche vero che per far cadere un albero ci vuole pochissimo tempo, per farlo crescere molto molto di più. Quindi non si tratta solo di rumore, si tratta di danneggiamento del lavorio paziente di tanti altri.

La fiducia necessita di tempi lunghi. Ma per la diffidenza basta un attimo.

Tutto questo per dire che viviamo dei tempi difficili, in cui credo davvero che se non siamo nella posizione di migliorare le cose almeno sarebbe nostro preciso dovere non peggiorarle. Se non possiamo far sentire meno isolato e additato il capro espiatorio di turno, almeno dovremmo astenerci dal dare manforte a chi moltiplica la violenza.

La violenza fisica è solo l’ultimo anello di una lunga catena che costruisce per alcuni una posizione di inferiorità. Argomenti apparentemente razionali, spesso suffragati da sondaggi e numeri, ma che in realtà servono specialmente ad argomentare una diversità sostanziale, che giustifica “le maniere forti”. Una connessione tra una categoria di persone generica (e per generica intendo banalmente che include centinaia di migliaia, quando non addirittura milioni di singoli individui), a prescindere da cosa il singolo membro della categoria sia o faccia, e un’alterità, una sostanziale estraneità.

Loro. Loro pensano che. Loro vogliono. Loro. Non noi. Contro di noi. Non saremo disposti a tollerare che loro… Non c’è posto per loro, non cederemo di un millimetro. Anche se quei loro, finché qualcuno ce l’ha fatto notare, erano solo i miei vicini di casa, i compagni di classe di mia figlia, le persone che incrocio ogni mattina per strada.

Ieri un giurista di cui ho immensa stima, Lorenzo Trucco, ci ha ricordato ciò che scriveva Norberto Bobbio nel 1992 su La Stampa. Lo ricordo anche a voi, perché ci riflettiate con me.

L’essenza della democrazia è esattamente l’opposto del razzismo. Nonostante la continua sofferenza di essere costretti a vivere in una democrazia sgangheratissima come la nostra, non ci stancheremo mai di mettere in evidenza i pregi dello stato democratico, malgrado le sue magagne, rispetto a tutte le forme di governo. Democrazia e razzismo, in tutte le sue manifestazioni, sono incompatibili per almeno due ragioni.

La democrazia è fondata su valori universali, come la libertà, la giustizia, il rispetto dell’altro, la tolleranza, e soprattutto la non violenza. Il razzismo è antiliberale, antiegualitario, intollerante e, nei casi estremi, anche violento.
In secondo luogo la democrazia è inclusiva, nel senso che tende ad includere coloro che stanno fuori per allargare ad altri i propri benefici.

Il processo di democratizzazione, dal secolo scorso ad oggi, è stato un processo graduale d’inclusione dei diversi.
Il dispotismo è esclusivo: tende, se mai, a escludere i già inclusi.
Naturalmente non si può includere tutto e tutti, così come non si può tollerare tutto e tutti, ma una democrazia non può essere “esclusiva” senza rinunciare ad essere una “società aperta”, ossia senza negare se stessa.

 

Facciamo un test?


Oggi pomeriggio ho visto un video del Consiglio dell’Unione Europea che mi ha scosso molto. Un video ufficiale, di un’istituzione che si suppone mi rappresenti. Si tratta di uno spot che visualizza 12 mesi di lotta contro gli immigrati, con ogni mezzo (lo potete scaricare da qui). Che celebra l’accordo con la Turchia, la chiusura delle frontiere interne, il sovvenzionamento della guardia costiera libica. Abbiamo ripreso il controllo dei nostri confini, stiamo tenendo fuori gli elementi ostili, le “migrazioni illegali”. Tutto, badate bene, è migrazione illegale in questo video: anche i siriani in fuga da Aleppo e dal resto della Siria devastata. Anche i bambini torturati in Libia, secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite uscito ieri.

Vorrei da voi una risposta onesta a queste domande, qui nei commenti o su Facebook, come vi pare. Sul serio vorrei capire.

  1. Sei a conoscenza del fatto che l’Italia, in linea con l’Europa, ritiene che la via principale per affrontare le migrazioni sia evitare che le persone arrivino, anche bloccandole o rimandandole in Turchia, Libia, Sudan? (vedi prime dichiarazioni del nuovo ministro dell’Interno Minniti).
  2. Sei d’accordo?
  3. Credi che le condizioni di vita di un migrante in uno di questi tre Paesi (potete far riferimento al rapporto linkato sopra, a titolo esemplificativo) sarebbero accettabili per te e per la tua famiglia?

E con questo mi ritiro a guardare qualche serie scema su Netflix. Ma mi piacerebbe davvero che rispondeste.

In parole povere


“Non ci sono criticità”. Questa frase, in bocca a un prefetto responsabile di un pezzetto dell’immane e magmatica macchina che giorno dopo giorno incombe sui migranti, li mastica e li sputa, mi ha colpito per due ottime ragioni. In primo luogo, ovviamente, perché è una falsità evidente. Ma anche perché, paradossalmente, non credevo del tutto alla malafede di chi la pronunciava.

Questo mi ha fatto ripensare all’ultimo bellissimo film di Ken Loach. Le procedure, i protocolli, fanno sì che la persona che li applica perda la cognizione precisa dell’impatto di quelle procedure, di cui il singolo non è che un ingranaggio insignificante, abbia in effetti sulla vita delle persone interessate, degli “utenti”. La colpa non è di chi le applica, ma delle procedure inique, si potrebbe argomentare. Vero. E servono, quelle procedure, per difendere i singoli operatori dal peso insostenibile della responsabilità di una, cento, mille vite altrui. Vero anche questo.

Eppure credo che ci sia un momento in cui si dovrebbe essere capaci di chiamare le cose con il loro nome, di descrivere cosa stiamo facendo, in parole povere. Se applico una direttivo e persino, zelantemente, ne do un’interpretazione più restrittiva “per sicurezza”, per ridurre il margine di errore, potrebbe essere che sia io, proprio io a trasformare in un incubo la vita di un bambino, una donna, un giovane uomo. Persone che credevano di aver già vissuto il peggio sulle rotte del terrore, nella stiva di un barcone, nei centri di detenzione dove solo l’arbitrio distingue la vita dalla morte. E invece no. Io, nella mia efficienza, potrei essere la mano che spranga l’ultima porta, il sorriso distaccato che infrange l’ultima speranza, il modulo che preclude la vita normale.

Ricordate questa storia? Queste? Oggi storie così si moltiplicano. Storie che ai dolori inflitti dalla vita aggiungono la violenza cieca di una burocrazia che allunga la lista dei requisiti, restringe le maglie, moltiplica i moduli e le autorizzazioni. E che, soprattutto, vuole prove. Obiettive, costose, invasive, assurde. Chiedere a due genitori salvati dal mare con il loro bambino in braccio di pagare un test del DNA per dimostrare che non sono degli impostori e farlo non in un caso, eccezionalmente, in un caso particolare, ma sistematicamente, caparbiamente, anche a distanza di mesi o di anni dall’arrivo, anche in presenza di documenti (perché, si sa, i documenti potrebbero essere falsi) non vuol dire essere scrupolosi. Vuol dire solo essere capaci di non guardare negli occhi quei bambini, quella madri, quei padri.

Sospiriamo, diciamo che non possiamo nulla davanti alle ingiustizie del mondo. Ci commuoviamo anche, a proposito e a sproposito. Ma quando abbiamo in mano, ciascuno nel suo campo, il nostro timbro rosso, come lo usiamo? (Non ho potuto fare a meno di pensare a questo bellissimo cortometraggio degli amici Artigiani Digitali).

 

Per forza


Oggi la mia bacheca di Facebook è piena di condivisioni che ricordano l’orrendo delitto di Fermo. Non ci sarebbe di per sé bisogno di aggiungere la mia alle molte voci autorevoli e efficaci che si stanno levando in queste ore. In primis quella di Michela Murgia: I cattivi maestri del fascista e razzista che ha ucciso Emmanuel Chidi Namdi e picchiato sua moglie Chinyery siedono in Senato: sono quelli che dieci mesi fa hanno negato l’autorizzazione a procedere contro Calderoli quando diede dell’orango a Cecile Kyenge. Era critica politica, affermarono, mica razzismo, e lo dissero senza distinzione di partito, compresi 81 senatori del PD e 3 di Sel che oggi si dichiareranno certamente sconvolti e turbati davanti a tutti i microfoni dei media. Questo succede a pensare che le parole non abbiano conseguenze. Ipocriti. C’è chi obietta che in questo caso dare del “fascista” all’assassino è nobilitarlo troppo. Non lo so. Una cosa è certa: quella persona si sentiva certamente in diritto di dare della scimmia a una donna nigeriana in pubblico e di reagire picchiando a morte lei e il marito per il solo fatto che si ribellavano a un’umiliazione che per molti è dovuta, scontata, necessaria. Il minimo che “questi” si meritano.

Ricordo benissimo che quando Cécile Kyenge venne in visita al Centro Astalli, anni fa, anche la nostra pagina Facebook fu invasa di commenti assurdi sotto le foto che pubblicammo. In una, che ritraeva tre rifugiati africani con un telefono in mano, qualcuno scrisse: “Adesso anche le scimmie hanno il telefono?”. Segnalai a Facebook il commento, palesemente offensivo e lesivo della dignità di quegli uomini (no, non era critica politica, in quel caso: la Ministra non compariva in quello scatto). Mi venne risposto che non costituiva violazione. Insomma, anche Facebook conveniva che chiamare scimmie i rifugiati africani è lecito. Normale.

Un’altra cosa vorrei aggiungere. E’ vero, la storia di questa coppia (come quella della maggior parte dei rifugiati) è una tragedia e un romanzo insieme. Ma non vorrei che tutta questa insistenza sul fatto che questi due giovani erano fuggiti dalle persecuzioni degli estremisti islamici spostasse l’attenzione dal fatto che la loro religione, la loro condizione di rifugiati, la loro tragica vicenda di genitori di bambini uccisi dalla violenza, in effetti non abbia nulla a che fare con il motivo per cui sono stati aggrediti prima verbalmente e poi fisicamente. E’ successo perché erano neri, ci piaccia o no. Perché, si difende l’aggressore, davano l’impressione di stare rubando una macchina, visto che i neri – si sa – sono ladri. E allora non scomodiamo la fatica dei territori rispetto ai flussi migratori. Questo sì che è nobilitare di motivazione un gesto che è solo becero razzismo e becera ignoranza.

Questo è un delitto, particolarmente efferato. Ma tanti altri atti di violenza, di offesa e di pubblica umiliazione sono sdoganati come normali. Il 24 giugno un giovane richiedente asilo sviene in piazza, a Tradate (Varese): un calo di zuccheri o forse disidratazione per il digiuno di Ramadan. I vigili urbani (!) e i passanti non solo non lo soccorrono, ma lo coprono di insulti, immaginando che sia ubriaco (racconto qui). Non più tardi di ieri a Albano Laziale degli esponenti politici locali esprimevano indignazione per un’ “adunanza islamica” inopportuna visto l’uccisione dei nostri connazionali in Bangladesh. Un gruppo abbastanza modesto di persone che pregava e celebrava in piazza in occasione di Eid al Fitr, massima solennità islamica per cui anche il Presidente Mattarella ha ritenuto opportuno formulare i suoi auguri ai musulmani italiani e residenti in Italia. Il comunicato sarebbe comico se non fosse tragico (leggetelo pure qui, seguirà sabato un flash mob). Sarebbe come dire che è intollerabile che, dopo tutte queste denunce per pedofilia, la gente non si vergogni di celebrare la Pasqua o il Natale sotto gli occhi di tutti. Almeno una delle persone che promuovono con entusiasmo il flash mob di cui sopra, peraltro, condivide l’indignazione per l’uccisione di Emmanuel. Mi chiedo perché, ma temo di non avere voglia di chiederglielo.

Un’ultima cosa vorrei aggiungere a un post fin troppo verboso. E’ assolutamente vero che l’Italia è piena di iniziative meravigliose di accoglienza, integrazione, empatia, creatività e cultura civica nel senso più alto del termine. In questi giorni sto lavorando a questa mappa e credo davvero che come italiani dobbiamo esserne fieri.  Ma è anche vero che ogni tanto anche chi ci crede, anche chi si impone di guardare oltre, si sente stanco, solo e sopraffatto dall’amarezza. Mi hanno colpito le parole di Saverio Tommasi:

Non è stato solo l’ultrà ad uccidere Emmanuel. Lo hanno ucciso anche tutti quelli che riversano sugli ultimi le colpe degli insuccessi delle loro vite, seminando un clima di odio al grido di “non possiamo ospitarli tutti”.
Hanno ucciso Emmanuel quelli che dicono “aiutiamoli a casa loro” e poi votano per diminuire i fondi alla cooperazione internazionale.
Hanno ucciso Emmanuel quelli che vorrebbero togliere il wi fi (tra l’altro gratuito), ai richiedenti asilo, l’unico strumento con cui possono chiedere alla mamma “come stai” e dire al papà “sì, sono ancora vivo”.
Hanno ucciso Emmanuel quelli che vorrebbero far mangiare ai rifugiati la merda scaduta di certe mense “perché già che gli accogliamo vogliono anche decidere il menù?”
Hanno ucciso Emmanuel quelli che se vedono una foto di un bambino su un barcone dicono “perché pubblicate solo le foto dei bambini?”
Hanno ucciso Emmanuel quelli che se vedono una foto di un uomo dicono “hai visto che sui barconi arrivano solo uomini?”
Hanno ucciso Emmanuel quelli che se vedono una foto di una donna incinta su un barcone dicono “vengono qui a partorire, gliel’ha detto la Boldrini”. E poi le commentano tette e culo.
Hanno ucciso Emmanuel quelli che dicono “ma degli italiani in difficoltà non vi interessa?” E poi non fanno niente per gli italiani e tentano di affogare quelli non italiani.
Hanno ucciso Emmanuel quelli che dicono “gli stranieri vengono qui a rubarci il lavoro”, o se l’immigrato è disoccupato dicono “visto? gli stranieri vengono qui e non vogliono neanche lavorare”.
Hanno ucciso Emmanuel le frasi “io non sono razzista ma”.
Lo hanno ucciso le campagne per chiudere Mare Nostrum, la migliore operazione di salvataggio in mare che l’Italia abbia mai fatto.

Si potrebbe continuare, ma non serve. Io nel mio quotidiano non frequento ultrà, e anche pochi attivisti di Casa Pound. Ma le mie conversazioni quotidiane (e, sono convinta, anche le vostre) sono piene delle frasi di cui sopra. E sono frasi pesanti come macigni, specialmente quando vengono da amici e conoscenti.

P.S. Se siete convinti che una qualunque delle obiezioni riportate nella citazione qui sopra sia, almeno in parte, valida, fatemi il favore di non dirmelo. Tenetevi per voi le vostre argomentazioni. Almeno per oggi mi voglio permettere il lusso di non ascoltarle.

 

I rifugiati, l’Unione Europea e l’autista dell’Atac


Ieri la Commissione Europea ha spiegato in un documento che il modo in cui l’Europa gestisce l’arrivo e la presenza dei rifugiati non va bene, non funziona e non si può andare avanti così. E fin qui non posso che essere d’accordo. Peccato che poi, leggendo il documento, è evidente che la tesi di chi governa l’Europa è che la responsabilità di questa situazione incresciosa è dei rifugiati. Non dobbiamo distrarci quindi e dobbiamo agire tempestivamente contro il vero nemico, loro. Attenzione, non si parla più di alcuni “cattivi” che pregiudicano la legittima accoglienza degli altri, “buoni”. Questa visione che tante volte ho considerato inadeguata e superficiale è ormai del tutto superata. E’ il rifugiato in sé che, cercando di arrivare in Europa, dimostra in tutta evidenza la sua mala fede.

Non vi parlerò nel dettaglio delle misure intraprese e di quelle proposte. Alcune (in particolare quelle già applicate) sono anche talmente inverosimili che temo di passare per eccessivamente fantasiosa. Nizam, che di queste cose ha una certa esperienza diretta, mi chiedeva proprio ieri: “Ma perché mai bisognerebbe riportare i siriani in Turchia e per ogni siriano rimandato l’Europa dovrebbe prendersi un altro siriano? Se li rimandano indietro perché poi se li riprendono, non fanno prima a tenerseli?”. Questa e molte altre obiezioni del tutto ragionevoli cadono davanti alla costatazione che queste non sono soluzioni tecniche per gestire meglio la situazione, ma solo espedienti sempre più fantasiosi che mirano solo a smontare un diffuso pregiudizio (che purtroppo nel tempo ha portato anche alla ratifica di alcune fastidiose convenzioni internazionali), cioè che l’Europa sia tenuta a dare protezione a chi ne ha bisogno.

Per distrarmi credo vi racconterò un aneddoto. L’altro giorno mi trovavo su un autobus al centro di Roma, pieno ma non pienissimo, che percorreva Corso Rinascimento su apposita corsia preferenziale. A una fermata un uomo in sedia a rotelle, palesemente ubriaco e corredato di cartone di Tavernello, chiede a gran voce di salire in vettura. L’autista, come previsto dall’azienda, spegne il motore, cerca la chiave per aprire la pedana, si fa largo tra i passeggeri, cerca invano di attivare la pedana medesima. La chiave in dotazione non corrisponde alla serratura di sblocco. L’autista alza gli occhi al cielo, il potenziale passeggero (non del tutto lucido) lancia bestemmie e improperi, i passeggeri sbuffano. L’autista fa il gesto di caricare la sedia a rotelle a mano, ma da solo non ce la fa. Tutti i passeggeri uomini si dissolvono per magia, accartocciandosi in ogni anfratto possibile lontano dalla porta. Alla fine l’autista scende, spiega la situazione al collega della vettura nel frattempo sopraggiunta, si accerta che il rumoroso passeggero (che continua a inveire contro il primo autista) sia caricato sull’altro autobus non prima di aver verificato che anch’esso lo porti a destinazione (sono appena due fermate). Poi risale e riparte.

Il capannello di passeggeri inizia il commento. “Insomma, i vigili bisognava chiamare! E poi, pure se saliva, ubriaco com’era come si reggeva? E’ una vergogna!”, tuona uno. Il giovane autista, senza perdere le staffe risponde punto su punto: “Guido autobus da 18 anni, se la pedana funzionava la carrozzina poteva essere fissata nell’apposito spazio. Le assicuro che regge. E’ un meccanismo fatto per quello. E poi chiamare i vigili perché? Perché un disabile voleva fare due fermate?”. “Ma questi barboni neanche vogliono essere aiutati, lei è troppo buono”, chioccia una vecchietta. “Signora, ma lei esattamente come sa chi era quella persona? Come io non mi permetto di giudicare la vita sua, perché non l’ho mai vista prima di oggi, così mi pare che non abbiamo elementi per giudicare. Io questo so: c’era una persona in sedia a rotelle e in un intero autobus nessuno ha ritenuto il caso di aiutarmi a caricarlo”. “Ma le pare! Era ubriaco, molesto, sporco! Insultava anche lei!”. A questo punto il giovane autista ha preso fiato e ha detto lentamente, con calma e determinazione: “Quella persona non toglieva nulla a nessuno se saliva per due fermate. Certo, è una persona con vistosi problemi e io sono un autista, non un assistente sociale. Non ho la pretesa di risolverli io, quei problemi. Ma le persone, anche quando hanno tanti problemi, restano persone. E io osservo solo che è davvero triste se noi, invece che protestare con chi ci mette in condizione di lavorare o di vivere in queste condizioni, senza strumenti efficaci e anzi con tanti impacci, non troviamo di meglio che prendercela gli uni con gli altri.”

Che c’entra questo con l’Unione Europea? Secondo me c’entra. E alle parole dell’autista continuo a pensare, anche a due giorni di distanza.

 

Domande


Da quando chiudere violentemente le frontiere in faccia a donne, bambini, giovani e anziani in fuga ci pare una misura di politica estera qualsiasi?

Perché tutto continua come se nulla fosse dopo che i capi di Stato europei democraticamente eletti hanno stipulato un accordo con la Turchia che prefigura una strage?

Non è la prima, d’accordo. Non è nemmeno la prima di cui siamo corresponsabili. Ma in questo documento, che è stato definito un grande successo della diplomazia, non si ha vergogna di usare il termine “migranti irregolari”. Persino se si parla di cittadini siriani.

Non hanno usato le vie legali, sembra dire l’Europa. Le vie legali che non esistono, per caparbia volontà della stessa Europa.

Fermare i flussi, a qualunque costo. Un sessantesimo dei rifugiati del mondo è troppo per l’Europa, o per quel che ne resta. Se per mantenere il nostro tranquillo status quo dobbiamo far morire migliaia di altri uomini, inclusi bambini, pazienza. Anche se farlo costa molto. Anche se farlo significa renderci tutti complici di violazioni sistematiche dei nostri valori.

Ma dove sono i difensori della vita ad ogni costo quanto muoiono neonati nell’Egeo, con i loro fratelli, genitori e nonni? Sono interessati solo agli embrioni?

Come faccio a urlare che non sono d’accordo?

Perché nessuno pare particolarmente angosciato?

“L’immigrazione non è un diritto. E basta”, sbraita la Meloni dalla tv.

Che costo ha questa violenza? Per il mondo, per l’Europa, per i nostri quartieri, per i nostri figli?

Un giorno rideremo di tutto questo


…ma quel giorno non è oggi.

Nizam soggiorna regolarmente in Italia da 14 (quattordici) anni. E’ titolare di un permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, altrimenti detto carta di soggiorno, che ha validità illimitata. Lo ha per molte buone ragioni, una delle quali è che è padre di una cittadina italiana dal 2007 (mia figlia). Ma lo avrebbe comunque, visto che risiede regolarmente in Italia da ben più di 5 anni e ha a suo tempo dimostrato e poi (per ben due volte) ri-dimostrato di avere adeguato reddito e di pagare le dovute tasse. Incidentalmente, avrebbe diritto alla cittadinanza italiana. Peccato che tra quando ha maturato tale diritto (settembre 2012) e quando siamo faticosamente riusciti ad ottenere un appuntamento per presentare la documentazione (febbraio 2014) sia passato un anno e mezzo. E una domanda presentata quasi due anni fa ovviamente non è stata neanche presa in considerazione ancora, è troppo presto. Incidentalmente, in questa pratica il fatto che sia il padre di una cittadina italiana non conta nulla.

Oggi Nizam deve aggiornare la carta di soggiorno, ancora in corso di validità, perché i turchi gli hanno rinnovato il passaporto e il numero non corrisponde a quello indicato sulla carta di soggiorno. Finché ciò non si sistema, non può lasciare l’Italia. Andando un mese fa a chiedere che ciò venisse sistemato, Nizam ha scoperto le seguenti cose:

  • deve essere nuovamente fotosegnalato (????)
  • deve nuovamente dimostrare tutti i requisiti per il rilascio (e questo, mi sento di dire, è una richiesta assolutamente illegittima di per sé).

Oggi, presentandosi all’appuntamento munito di certificato di nascita di Meryem con indicate le generalità dei genitori per esteso (richiesto, a pagamento, in Municipio, visto che per la questura è complicato verificare che Meryem sia sua figlia, sebbene la medesima Meryem sia titolare di passaporto italiano su cui Nizam risulta genitore), ha scoperto un’altra cosa:

  • non bastano i documenti. Deve portare Meryem lì di persona, munita di passaporto.

Quindi io devo far saltare a mia figlia un giorno di scuola per mandarla a fare ore di fila in una questura all’estrema periferia della città, dove (parlo per esperienza diretta) vedrà suo padre trattato con sgarbo e disprezzo da svariati uomini in divisa, che gli danno del tu pur non avendolo mai visto prima. La interrogheranno pure? Chissà.

Tralasciamo il dettaglio che, se pure tutto va bene, di fare questo aggiornamento non se ne parla prima di svariati mesi.

Ma non trascurerei di riferire che, quando lui ha provato a chiedere se potevano dargli un appuntamento durante le vacanze di Natale per non far perdere la scuola alla bambina, gli è stato risposto: “L’appuntamento te lo do quando mi pare, così impari”.

Posso provare (potete leggere i post qui sotto) che io ho sempre cercato di vivere questa situazione con la massima ironia. La prima gita in quel posto l’abbiamo fatta tutti insieme quando Meryem aveva un mese. Ci siamo tornati quando Meryem aveva 3 anni. Ho cercato con tutta la buona volontà di prenderla a ridere.

Oggi no, non ci riesco. Non sopporto l’idea che il padre di mia figlia debba essere trattato in questo modo. Non viviamo più insieme (questo è parte del problema, pare, visto che lo stato di famiglia è inestricabilmente connesso alla residenza), ma non pensavo francamente di dover argomentare la nostra storia più privata a tutti i poliziotti che incontriamo. E’ una persona incensurata, titolare di una regolare attività, che non ha mai commesso nulla per meritarsi un trattamento del genere, stimabile da molti punti di vista e, soprattutto, rientra perfettamente nei requisiti previsti dalla legge per avere quel titolo di soggiorno. Perché deve passare un’altra mattinata come quella di stamattina, umiliato davanti a sua figlia?

Poi ci chiediamo perché le “seconde generazioni” provino questo rancore per gli stati europei di cui pure sono cittadini. Io credo che un’esperienza come quella che vivrà Meryem il prossimo mese – ammesso che non riesca prima di allora a trovare una soluzione a questa assurdità – conterà molto di più sulla sua formazione civica di tante belle parole che io o i suoi maestri possiamo spendere sulla partecipazione, sull’accoglienza e sull’intercultura.

Il pregresso
Noi e Ringhio, parte prima 
Noi e Ringhio, parte seconda
Surreale

Impostori, fino a prova contraria


In questi giorni cerco freneticamente di aggiornarmi e prepararmi sui rapidi cambiamenti che riguardano i rifugiati che sbarcano sulle nostre coste. Studio documenti ufficiali, ricevo aggiornamenti da amici e colleghi. Non mi diffondo in tecnicismi tediosi. Ma una cosa salta all’occhio, da tutti i documenti ufficiali: l’ossessione collettiva è quella del migrante-truffatore. Quello che simula di essere un rifugiato, ma in realtà è solo “un migrante in posizione irregolare”e che va etichettatato come tale tempestivamente. Subito. Già sulla barca che lo ha salvato dalle onde del Mediterraneo.

In queste settimane ho avuto modo di parlare di questo tema con persone interessate a titolo diverso da me. Esperti, consulenti, funzionari, persino un ministro. Ciascuno di loro descriveva i rifugiati come informati e scaltri, pronti ad attaccarsi a cavilli legali per prolungare indebitamente il loro soggiorno. Li si descriveva come poliglotti, sempre connessi a internet, con una meta già in mente. Un nemico furbo, contro cui è necessario mettere in campo procedure altrettanto “furbe”.

Io penso che una persona che si è messa in mare per disperazione, è sopravvissuta per miracolo e magari ha da poche ore gettato in mare il cadavere di suo figlio, su quella barca che la soccorre non pensi a come imbrogliare chicchessia. Con addosso ancora i vestiti bagnati, durante l’epilogo di un viaggio attraverso ogni genere di violenza e di abuso, davvero è onesto sottoporlo a un interrogatorio frettoloso da cui dipende la sua sorte? Io credo che Jacopo, uno studente di Milano, abbia capito meglio di tutti questi funzionari cosa passa per la testa di un migrante salvato da una motovedetta della Guardia di Finanza nel Canale di Sicilia. Lo ha scritto in un bel racconto, diventato video.

Ma voi, come vi sentireste, se i vigili del fuoco che vi hanno appena salvato da un edificio in fiamme in cui avete visto morire i vostri familiari, prima ancora di portarvi in ospedale a curare le ustioni vi sottoponessero a un interrogatorio? Forse vi verrebbe da dire: “Ok, ma prima lasciatemi realizzare che sono ancora vivo. Lasciatemi piangere. Lasciatemi ringraziare o maledire il mio dio. Lasciatemi il tempo per ritornare in me. Non pensate che i vostri moduli a risposta multipla possano aspettare?”.

Ma noi siamo noi, non è vero? Noi abbiamo il diritto di essere traumatizzati dopo un incidente, grave o non grave. Abbiamo diritto a capire e, se non capiamo, a farlo presente. A protestare, se qualcuno si permette di calpestare i diritti previsti dalla legge. Nessuno può trattenerci in strutture chiuse che ufficialmente ancora non esistono neanche. Queste cose accadono in Africa, non è vero? Non a Pozzallo, Sicilia.

Ma perché tutti questi… ehm… africani?


Sono settimane che, immancabilmente, chi viene a visitare la mensa del Centro Astalli mi rivolge, in forma più o meno velata, questa domanda. Che poi si potrebbe tradurre in forma più esplicita in questi termini: dove sono le famiglie siriane? Le donne, i bambini, in fuga dal Medio Oriente? Insomma, tutti quei rifugiati-rifugiati che i media di tutto il mondo raccontano, fotografano, seguono, descrivono? Gli ingegneri, gli avvocati, gli attivisti dei diritti umani, i giornalisti, i professori in fuga dalle bombe e dall’ISIS?

Bene, ve lo rivelo. Nel 2015 in Italia ne sono arrivati proprio pochi. Dal 1 gennaio al 10 ottobre appena 7.147 su un totale di 136.432 persone sbarcate. (l’anno scorso ne erano sbarcati 42.323, proseguendo poi quasi tutti verso il nord Europa). Perché? Perché per i siriani adesso la rotta praticabile è quella del Mediterraneo Orientale: Grecia e poi, via terra, verso l’Europa continentale, attraverso i Balcani.

Altra peculiarità italiana: tra i richiedenti asilo nel nostro Paese, già nel 2014, la percentuale di donne e bambini era ridottissima rispetto al dato di altri Paesi europei: appena il 7,6% le prime, il 6,8% i secondi. Per darvi un termine di paragone, in Germania sono rispettivamente il 34,6% e il 31,6% del totale. In Francia il 38,2% e il 21,7%.

Quindi, con buona pace dei media e delle aspettative da loro ingenerate, di famiglie rifugiate – specialmente siriane – in Italia al momento ne arrivano pochine. Il “nostro” flusso arriva soprattutto da sud: Eritrea, Nigeria, Somalia, Sudan e tanti altri Paesi africani, a cui aggiungiamo l’Afghanistan e il Pakistan, sempre ben rappresentati.

Quindi i nostri sono meno rifugiati di quelli che vediamo nelle foto d’agenzia dai Balcani? Non direi proprio. Fate mente locale su cosa accade nei Paesi che vi ho nominato e lo capirete da soli. Il fatto che siano giovani uomini e non famiglie non li rende meno titolati alla protezione, né tanto meno all’accoglienza e alla solidarietà.

P.S. Ieri è stato pubblicato un rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia, commissionato dal Ministero dell’Interno. E’ una risorsa utile e importante. Dateci un’occhiata: Rapporto accoglienza PDF

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