Stamattina, facendo colazione, mi sono letta “Dalla parte di Giona (e del ricino)” di Daniel Vogelmann. Come ho raccontato anche altrove, Giona è di gran lunga il mio personaggio preferito, nella Bibbia e un po’ anche nella letteratura in generale. Sono sicuramente dalla parte di Giona. Senza dubbio. Mi viene più difficile essere dalla parte del ricino, anche perché secondo me non era affatto un ricino, ma una pianta immaginaria… ma questi sono dettagli filologici.
Vogelmann conclude il suo commento con questa frase: “Comunque sia, bisogna immaginare Giona infelice” (alla conclusione della vicenda). Addirittura non si stupirebbe di sapere che si è tolto la vita, dato il suo reiterato desiderio di morire. Ecco, io non sono affatto d’accordo.
Qui però prima di andare avanti serve un disclaimer. Io chiacchiero di Bibbia e di Giona, ma questo testo, come ogni classico che si rispetti, può ben servire per esprimere sentimenti e anche drammi privati e collettivi. Anche io uso Giona e aver studiato filologia biblica me lo rende solo un po’ più facile. Non ho nessuna pretesa di dare l’interpretazione più corretta. Se Vogelmann in Giona vede lo strazio emotivo e intellettuale dell’ebreo e di suo padre davanti alla Shoah, ha pienamente ragione anche lui, naturalmente. Ciò detto, quando io leggo la domanda che conclude il libro di Giona, non me lo immagino infelice.
Arrabbiato, magari. Con quella frustrazione che conosciamo tutti di quando non riusciamo ad avere l’ultima parola. Ma io credo che il libro non sarebbe finito se, sotto sotto, Giona non avesse iniziato a capire quello che Yahwè cercava di fargli entrare in testa. E cioè che non era lui la misura di tutte le cose. Che le mucche di Ninive e a maggior ragione gli uomini contavano almeno quanto il suo qiqayon. Perché in fin dei conti è proprio la pianta che smaschera Giona, anche a se stesso.
Lui per tutto il libro si è raccontato che il suo giudizio era mosso solo dalla giustizia e dalla Torah. Che non voleva andare a Ninive in primo luogo perché gli assiri non sono il popolo eletto e poi perché perdonarli non sarebbe stato neanche giusto. Tanto vale andarsene all’altro mondo, allora, se il mio dio cambia le regole.
E invece in quel deserto a est di Ninive Giona decide che una pianta cresciuta in una notte in terra straniera vale per lui più dell’olivo piantato dai suoi antenati a Giaffa. Perché ci si è affezionato, anche se in fretta. Quindi magari le regole e le categorie della logica non sono così insostituibili e indiscutibili. L’amore mette in discussione confini e certezze. Vale per un uomo, figuriamoci se non vale per Yahwè.
Io dopo la risposta di Yahwè mi immagino Giona che, sbollita un po’ la rabbia, si decide a farsi una passeggiata a Ninive. E comincia a vedere le cose da un altro punto di vista. Le strade non sono piene di peccaminosi incirconcisi, ma di persone che parlano lingue diverse e pregano divinità varie. Un po’ quelle stesse che sulla nave si sono sforzate al massimo prima di rassegnarsi a buttarlo in mare, chiedendo peraltro prima la sua autorizzazione. “Credevano un altro diverso da te, ma non mi hanno fatto del male”, per dirla con De André.
Sarebbe davvero meschino un Dio che giudica con il nostro metro umano e che condivide i nostri pregiudizi. La lezione di Yahwè a Giona alla fine è proprio quella che più serve al mondo oggi: guardati dal fondamentalismo, che ha la pretesa di correggere Dio stesso con l’arroganza di pochi prepotenti (e tanti ignoranti). È quello che, oggi come allora, provoca le tragedie più grandi.