Questo titolo è un omaggio a una mia conoscente di Facebook, che è solita esprimere giudizi lapidari su qualsiasi questione, dalla migliore marca di carta igienica alla filosofia ermeneutica, facendoli regolarmente seguire dalla simpatica espressione “.Punto”, probabilmente per segnalare che apprezza molto il confronto dialettico e l’apporto dell’altrui punto di vista. Mi sono domandata se nel fastidio alla bocca dello stomaco che provo nel leggere i suoi status non si celi una strisciante invidia. Io, più vado avanti, meno riesco a dare giudizi netti e universalmente validi. Sarà il bianco e nero della giovinezza che cede il passo alle sfumature di grigio dell’età più matura? Credo, più semplicemente, di essermi col tempo resa conto che almeno alcune delle mie convinzioni si basavano su visioni assai parziali, quando non semplicemente su pregiudizi.
Decostruire, dunque. Questo me lo hanno insegnato assai bene, anche negli anni dell’università. Il problema però è che, una volta decostruito, rimontare si rivela assai meno facile di quel che si immagini. Quando abbandono un’idea, di solito, non è che la sostituisco con una nuova di zecca e scintillante di certezza. Nella migliore delle ipotesi, so cosa non penso più. Ma cosa poi penso è tutta un’altra faccenda.
Una delle due questioni su cui ho avuto modo di rimuginare in questo fine settimana è la genitorialità omosessuale. La prima volta che tra le mie conoscenze c’è stato un caso di maternità surrogata, la mia posizione è stata profondamente influenzata da alcuni elementi esterni: conoscevo la coppia di padri per interposta persona (e la persona in questione era molto contraria alla cosa) e uno dei due aveva l’aggravante di essermi discretamente antipatico. Non ho mai dedicato all’argomento un’attenta considerazione – non mi è del resto mai capitata l’occasione – ma in generale avrei optato per un “per me è no”. Mi corre l’obbligo di precisare, visto che in passato mi è capitato anche di essere accusata di omofobia, che la riserva per me non è mai stata relativa alla “legittimità” del rapporto di coppia omosessuale, che credo di poter dire di aver sempre considerato senza alcuna remora una delle forme dell’essere coppia.
Mi sono imbattuta in Marco e nella sua famiglia tramite web. Abbiamo avuto poi occasione di incontrarci, dal vivo, un paio di volte. Tante cose rendono Marco una persona profondamente diversa da me: lo stile di vita, le scelte professionali, persino la forma mentis, oserei dire. Ma ciò che abbiamo decisamente in comune è la genitorialità. Che dunque ovviamente per me è diventata un dato di fatto, qualcosa su cui mi pare non sia più il momento di dissertare se debba esistere o meno, per il semplice fatto che esiste. Che poi, a guardare la realtà con un briciolo di attenzione, forse in Italia i casi di maternità surrogata non sono molti, ma certamente sono assai di più i casi di figli di genitori divorziati che vivono situazioni variegate di “famiglie arcobaleno” (madri con nuove compagne, padri con nuovi compagni) come dimensione quotidiana.
“Famiglia”, persino in un Paese formalista e tradizionalista come l’Italia, è – non da ieri – molte cose diverse. Genitorialità è molte cose diverse. Cosa è meglio? Ma è davvero questa la domanda da porre? Esiste qualcuno che può rispondere a una domanda così a prescindere dalle persone coinvolte? Io credo di no. Che poi un legislatore, laico o religioso che sia, debba dare delle indicazioni di principio forse è anche vero. Ma per fortuna non sono io quel legislatore. Io non incontro genitorialità, paternità, maternità “naturali” o surrogate: io incontro uomini e donne e, sempre più spesso, genitori. Con alcuni scatta simpatia e affinità, con altri meno. Una cosa è certa: conoscere situazioni concrete nella loro singolarità mi rende sempre più restia a esprimere un’opinione definitiva, a mettere punti dopo frasi lapidarie.
Ma allora, mi chiedo anche da sola, la maternità surrogata la supporteresti senza riserve? Non so. C’è ancora qualcosa, che non saprei ben definire, che mi mette a disagio con questa idea. Forse i costi esorbitanti, forse l’aspetto di trattazione commerciale, forse la fase della selezione della donatrice… Non so. Confesso che non saprei mettere a fuoco questa riserva con chiarezza. Per mettere un punto anche io in questo post difficile direi che allo stato attuale alla domanda “Può un omosessuale essere genitore?”, risponderei “certo che sì”. Sul come, sinceramente, ancora non saprei pronunciarmi. Ma, ripeto, nessuno probabilmente me lo verrà a chiedere.
E il libro a cui faccio riferimento nel titolo? E’ “Sei come sei” di Melania Mazzucco. Un grande romanzo, che tratta questo tema (e quello dell’adolescenza, affatto secondario) con una profondità e una sobrietà da grande scrittrice qual è. Raccomandato, assolutamente.
Che bel post Chiara, e come mi ci ritrovo. Anche io faccio fatica a tendere al bianco o al nero. In realtà non è che mi ci applichi troppo, perché per me le sfumature che ogni singola persona, realtà, situazione porta con sé sono troppo importanti per poter esprimere opinioni definitive. E anche io più conosco le persone, più guardo nelle loro vite, e più mi rendo conto che PUNTO non esiste. Esistono invece una meravigliosa quantità di virgole, punti e virgola e pure puntini di sospensione. Quelli poi, più di tutto.
Ciao Chiara!
Grazie mille! E ciao anche a te…
bello bello questo post! Io a volte sono come te. Altre volte sono come la tua amica. Per questo libro direi semplicemente: Leggetelo. Punto. (mi è piaciuto molto!)