Li avevo incrociati talora sul lavoro (ricordate?), ma ultimamente i miei contatti con i cittadini degli States sono cominciati a diventare molto, molto più frequenti. Ne ho avuti 18 come alunni per un intero semestre (che come tutti i semestri accademici in realtà dura tre mesi). Devo rapportarmi dunque a loro anche in forma di datori di lavoro e colleghi. In qualche caso persino amici. Mai mi è apparso così palese: sono diversi. Culturalmente diversi. Io sembro strana a loro, loro sembrano strani a me. Certe volte il malinteso culturale è fastidioso, dannoso e finanche imbarazzante.
Cerco di ovviare tenendo a mente i punti più critici, che potrei riassumere in tre, principalmente.
- Il loro modo di celebrare e autocelebrarsi mi mette a disagio. Di più. Mi imbarazza a morte. Quando a una conferenza ti presentano snocciolando i tuoi titoli e riconoscimenti pubblici e sperticandosi in apprezzamenti su quanto sia “outstanding” la tua competenza, io comincio ad agitarmi sulla sedia. Se poi mi trovo a leggere le loro lettere di candidatura l’imbarazzo arriva alle stelle. Ci credono e lo dicono. Sono perfetti per qual ruolo. Sono persone meravigliose. Hanno delle competenze incredibili e tanti amici pronti a giurarlo. Se non te ne accorgi il fesso sei tu. Oddio, ma è proprio necessario? Non puoi lasciarmi giudicare dal CV?
- Forse connesso al punto 1, in parte. Esplicitano tutto. Ma proprio tutto. Sono i maghi delle istruzioni. Nel libretto della messa non ci mettono solo le letture: ti spiegano chi e quando può fare la comunione, qual è il gesto convenuto per segnalare che sei celiaco, in che direzione si avvierà la processione di uscita. Se ti spiegano come arrivare a casa loro, specificano ogni particolare, descrivendoti la successione di negozi che incontrerai sul tuo cammino fino al numero esatto dei gradini che separano il marciapiede dal loro portone. Non mi stupirei se iniziassero il messaggio suggerendoti di uscire di casa tua, per prima cosa. A me questo eccesso di dettagli crea confusione totale e una certa ansia. Loro in compenso, se provvisti solo delle indicazioni che io ritengo essenziali, si perdono.
- Hanno la pericolosa tendenza a intendere in senso strettamente letterale qualunque cosa io dica. E quando dico qualunque, intendo proprio qualunque.
Fuori lista, devo aggiungere un’ulteriore perplessità, valida in particolare per gli studenti: l’abbigliamento. Lungi da me assurgere ad arbiter elegantiarum. Non mi scandalizzerei di vedere a lezione studenti in tuta da ginnastica. In salopette. In bermuda. Ma perché sempre nudi, anche a dicembre? Shorts che sfidano simultaneamente il buon gusto e il buon senso. Minigonne delle dimensioni di microparei da spiaggia, del tutto sproporzionate rispetto alle circonferenze a stento contenute. Ma il pezzo forte sono le calzature: rigorosamente infradito, uomini e donne. Effetto campus, direte voi: il fatto che dormano e frequentino le lezioni nello stesso edificio li confonde. Macché. Anche quando si lanciano sui bus romani per raggiungere le sedi del loro service-learning non cambiano nulla del loro look. Ho dovuto specificare in apposita mail che vestirsi da spiaggia alla mensa del Centro Astalli non è opportuno per varie ragioni, a partire dalla banale considerazione che lavorare a piedi nudi in una cucina non è esattamente un’idea furba. Per non parlare del fatto che poi le stesse fanciulle sono sensibilissime al rischio di essere guardate con troppa insistenza da chicchessia (specie se straniero). Ora, chi mi conosce sa che non ritengo un abbigliamento provocante una scusa per ricevere attenzioni non richieste. Ma è pur vero che, a prescindere da ogni possibile rischio, un minimo di senso dell’opportunità non guasterebbe.