Il cimitero dove è sepolto mio padre è su un confine. Lui su quel confine non è morto, come avviene oggi a tante persone, ma ci è nato. A Gorizia. Ne è fuggito da giovane, per studiare, realizzarsi, essere libero. Ma un pezzo del suo cuore è rimasto lì ed era giusto che lì tornasse.
Suo padre quel confine lo ha visto cambiare più volte. Ha combattuto due guerre mondiali, una da una parte e una dall’altra. Lui non ha varcato il confine, è il confine che ha varcato lui. Non in modo indolore. La sua lingua materna è stata proibita, suo figlio non la conosceva. Il suo cognome non è diventato il mio, è stato mutilato per decreto prefettizio.
Da quello stesso confine è entrato in Europa, clandestinamente, il padre di mia figlia, 21 anni fa. Anche lui parla male la lingua di sua madre e suo padre: il curdo in Turchia era proibito. Di Gorizia ricorda la gentilezza dei poliziotti, che gli hanno offerto sigarette e un panino, e le scritte sulle pareti della stanza dove gli stranieri come lui venivano trattenuti prima di ricevere il foglio di espulsione che consentiva loro di riprendere il cammino verso il nord: “Coraggio, fratelli, siete in Europa”.
Mi pare che ci sia un filo nella mia vita che mi riporta costantemente ai confini e al loro impatto sulla vita delle persone. Ai confini geografici, a quelli culturali, a quelli esterni e a quelli interni. Penso ai confini finti dell’Africa, tracciati con la squadra. Alle linee rette che danno un illusorio senso di ordine. Dentro, fuori. Bianco, nero. Sì, no. Quella rassicurante logica binaria, che piace tanto ai computer, ma è così incompatibile con la complessità di sentimenti, di identità, di relazioni. Incompatibile con la vita, in pratica.