Ora posso guardarti negli occhi

Gli occhi di S. sono straordinari, per tutta l’intervista non riesco a smettere di guardarli. Chiari e profondi, uno sguardo vellutato e dolce. Le domande che volevo farle non riguardavano la sua storia in Camerun, ma lei insiste per raccontarmela lo stesso. “Altrimenti non capisci”, spiega. E ha ragione, pienamente. Io da lei voglio sapere cosa pensa del programma di ospitalità nei conventi di Roma in cui è inserita, in cosa lo trova utile e efficace, cosa cambierebbe. Ma lei mi vuole raccontare altro. Ci tiene a spiegarmi come questa esperienza ha trasformato completamente la sua vita, al di là di qualunque indicatore raggiunto o meno.

Il padre di S. la ha data in sposa a 15 anni a un uomo molto più grande di lei. Un uomo potente, ricco. Un uomo che lei non voleva e che ha messo fine per sempre al suo sogno di studiare. Un dolore enorme, insopportabile anche per sua madre (“è morta per il dispiacere”, sussurra S.). Inizia una vita fatta di lussi, ma anche di umiliazione. Il marito a un certo punto decide di convertirsi all’islam e la condizione di S. non fa che peggiorare. “Tu ora mi vedi così. Posso guardarti negli occhi, parlare a te, parlare anche davanti a cento persone. Io non ero così, prima. Non mi mancava nulla, ma non valevo nulla. Vivevo con gli occhi bassi. Non mi era permesso di fare alcuna scelta, non potevo uscire, non potevo studiare, non potevo avere un’opinione, non potevo crescere mia figlia secondo i miei valori. Sono arrivata al punto che desideravo solo morire. Credevo che la vita non avesse più nulla da darmi”.

In Italia tutto è diverso. In teoria manca tutto: i soldi, una casa, una prospettiva professionale. “Ma io ho ricominciato a vivere qui, con voi. So che tanti di quelli che sono arrivati si sono persi. Ma io no, io ho ritrovato me stessa. Ho ritrovato la gioia di vivere. Ho incontrato persone che mi guardavano con attenzione, con amore. Che mi telefonavano per sapere se avevo bisogno di qualcosa. Che mi incoraggiano quando ho paura. Ho subito due interventi alla colonna vertebrale e la prima volta ero tranquilla, ma la seconda volta… La seconda volta ero terrorizzata. Lei [l’operatrice del progetto] mi ha chiamato, mi ha incoraggiato. Dopo aver parlato con lei ero pronta ad operarmi subito. Poi mi ha chiesto persino se avevo bisogno di aiuto, per salire le scale o per andare da qualche parte. A me, proprio a me. Non so spiegarti quanto mi sono sentita importante. Cosa è speciale in questo programma di accoglienza? L’amore. Le suore mi hanno accolto in tutto e per tutto, mi rispettano, mi conoscono. Mi danno una libertà che nella mia vita non avevo mai conosciuto. Accettano che i miei amici mi vengano a trovare, perché io ho tanti amici adesso. Posso chiedere il loro consiglio in qualunque momento. Quando mi parlano mi sento piena, orgogliosa. Mi sento come il Presidente di uno Stato.

Qualche tempo fa ho visto molti ragazzi africani che dormono per strada vicino alla stazione Termini. Sono andata a parlare con loro, a sentire di cosa hanno bisogno. Molti si sono lamentati perché alla mensa della Caritas possono mangiare solo pasta. Io allora ho detto che se vogliono vivere in Italia non devono lamentarsi, devono abituarsi a un cibo diverso ed essere grati perché hanno almeno quello. Anche io, in questi anni, ho fatto così. Ma poi ho pensato che niente dà gioia come il cibo di casa. Ne ho parlato con le suore, che mi hanno incoraggiato. E allora ho fatto la spesa e ho cucinato una cena africana per 350 persone. Abbiamo dato loro un sorriso. Anche quello conta”.

E se ne va sorridendo, S. La strada è ancora lunga, ma lei continua a camminare.

P.S. Quella nella foto non è lei, ovviamente.

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