Disclaimer: è un po’ lungo. Cerco di essere semplice. Se avete domande fatele, così mi date l’occasione di spiegare meglio.
Avrete probabilmente saputo che il Ministro dell’Interno, con la prontezza d’azione che lo caratterizza, lunedì scorso ha emanato una direttiva che cambia sostanzialmente il sistema di accoglienza italiano come era organizzato finora. C’è chi sostiene che nella realtà dei fatti il cambiamento non sarà così percepibile perché molte delle cose previste (ahimè) già avvengono. Ma se permettete c’è una bella differenza tra dire che un autobus, secondo l’orario ufficiale, dovrebbe passare ogni 5 minuti ma purtroppo, a causa di variabili varie (indisponibilità di vetture, scarsezza o incompetenza di personale, traffico, strade bloccate e così via), non si riesce sempre a garantire la frequenza (ma si lavora e ci si attiva per risolvere gli impedimenti) rispetto invece a dire: “Sapete che c’è? L’autobus lo facciamo passare solo due volte al giorno e chi si è visto si è visto”. [Ora i romani mi obietteranno che questa è più o meno la strategia adottata dal nostro sindaco per le corse dell’Atac, la cui frequenza continua ad essere ufficialmente diminuita quasi a ogni revisione di orario, ma questa è un’altra storia].
In estrema sintesi, il Ministro ha disposto che nei cosiddetti Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), che accolgono esclusivamente persone che hanno chiesto protezione internazionale per la durata della procedura (cioè quanto tempo? ci torno poi) non venga più dato altro che vitto, alloggio, kit igienici, assistenza sanitaria, informativa sulla normativa (che è diverso da assistenza legale) e pocket money. Cioè, in pratica, che non si dia alcuna opportunità di iniziare il processo di inclusione: né corsi di lingua, né orientamento alla legge del Paese che li ospita e ai suoi servizi territoriali, né alcunché da fare se non, in alcuni casi, fare le pulizie della struttura dove dormono. Solo chi ottiene dalla Commissione una risposta positiva potrà passare all’accoglienza integrata, cioè allo SPRAR (che forse a questo punto dovremmo chiamare SPR, visto che il richiedenti asilo non vi avranno più accesso).
Questo significa lasciare l’80% delle persone presenti nel sistema di accoglienza nazionale parcheggiate in strutture a “bighellonare” per un tempo che può variare dai 6/8 mesi (nei casi più felici) ai due anni e mezzo indicati dallo stesso Ministro, in caso di ricorso (e in casi particolari persino più a lungo). Questo avveniva già, come lamenta lo stesso Ministro immortalando con il cellulare migranti poco attivi, perché alcuni enti gestori lavorano male? Ebbene, facciamo in modo che questa deviazione diventi la norma per tutti e che anzi chi promuove l’accoglienza diffusa, in piccole strutture ben inserite sul territorio, sia penalizzato. Perché, scrive il Ministro, accogliere in strutture di medie e piccole dimensioni o addirittura in singole unità abitative evidenzia “un’accoglienza fondata piuttosto sulla individualità che sulla visione collettiva”.
Si tratta davvero di una razionalizzazione della spesa? Diciamo che è un taglio (probabilmente di circa 10 euro al giorno per persona accolta) che sarà perfettamente sostenibile (probabilmente persino conveniente, visto che elimina un bel po’ di “concorrenza”) per chi gestisce grandi strutture e non dovrà più pagare professionisti per i corsi di lingua, l’assistenza legale o psicologica. In altre parole, proprio quelli che fanno dell’accoglienza un business. Il risparmio effettivo è tutto da dimostrare: in 6 mesi chi accederà all’accoglienza integrata nei centri SPRAR dovrà raggiungere una piena autonomia, iniziando a imparare la lingua da zero dopo un lungo periodo di forzata inattività. Qualcosa mi dice che questo piano non è molto realistico e avrà un rilevante costo per i territori in termini di disagio sociale, aggravando peraltro la competizione tra poveri della comunità ospitante e migranti, che saranno resi forzatamente poveri dal sistema di accoglienza in misura assai maggiore di quanto oggi non avvenga, semplicemente perché andiamo a “risparmiare” sulle relativamente poche risorse che contribuirebbero a dar loro la possibilità di lavorare, guadagnarsi da vivere e dare il loro contributo alla società. Risorse peraltro che, essendo specifiche, non dovrebbero neanche “competere” con le normali risorse per il welfare generale. Peraltro secondo la legge italiana il richiedente asilo, trascorsi due mesi dal rilascio del primo permesso, ha diritto ad esercitare attività lavorativa. Un diritto sempre meno esigibile, se lo Stato non provvede a dotarlo degli strumenti minimi per poterlo fare.
Un’ultima considerazione sui tempi lunghi dell’accoglienza. I tempi lunghi sono in primo luogo quelli della procedura e non solo, come si lascia intendere dalla direttiva del Ministro, “per colpa” dei richiedenti asilo che presentano ricorso dopo aver ricevuto una risposta negativa (cosa peraltro che è un loro diritto che ancora esiste, sebbene sia stato già sostanzialmente limitato dal Ministro precedente). E’ un fatto che per accedere alla procedura asilo, cioè per presentare la domanda, passano a volte anche 6 mesi. Ancora un anno, in tante province, per l’audizione con la Commissione Territoriale e altri lunghi mesi, a volte anche un anno, per ricevere la risposta – notifica – dell’esito del colloquio. Una vera follia, che dipende dall’inefficienza degli uffici pubblici e non certo dalla cattiva volontà del migrante.
Riassumendo. Questa misura aggraverà sicuramente il conflitto sui territori e la preoccupante deriva razzista che è sotto gli occhi di tutti. Interrompe bruscamente un difficile percorso di miglioramento del sistema di accoglienza, che ha comunque dato i suoi frutti negli anni scorsi (per approfondire, raccomando questo ottimo articolo di Daniele Biella). Renderà molto più ardua l’inclusione sociale di migliaia di persone, che saranno concentrate in grandi strutture senza alcun coinvolgimento delle amministrazioni locali, salvo poi piombare su quegli stessi territori a distanza di due anni come se fossero appena sbarcati (o più verosimilmente assai più frustrati, prostrati, scoraggiati da mesi e mesi di nulla). Con ogni verosimiglianza (è dimostrabile dall’esperienza decennale di tanti enti autorevoli) i richiedenti asilo, arrivando all’intervista in Commissione senza alcuna preparazione né consapevolezza effettiva della procedura (una semplice informativa normativa generica certamente non è sufficiente), il numero dei dinieghi aumenterà e con esso il numero delle persone senza documenti che in qualche caso riusciranno forse ancora a presentare ricorso, o più verosimilmente andranno a ingrossare le fila dei lavoratori sfruttati in nero nell’agricoltura e nell’edilizia. Intanto molte ottime pratiche e esperienze saranno costrette a chiudere, consolidando i grandi consorzi che interpretano da sempre l’accoglienza come un business.
A chi conviene una scelta così? Qual è la “visione collettiva” che la ispira?
Nell’immagine il famigerato CARA di Mineo, simbolo di un “modello” che speravamo superato per sempre.
N.B. Sebbene da molto tempo lavori per il Centro Astalli, preciso che le opinioni espresse in merito alla tematica asilo e migrazioni forzate, pur essendo per molti versi legate alla mia esperienza lavorativa, sono mie e non coincidono necessariamente con quelle dell’Associazione.