Stanotte mi sono svegliata e ho dato un’occhiata alle notifiche di Facebook (facendo esattamente ciò che predico a mia figlia di non fare mai). Un amico mi aveva taggato sotto un post che recitava “Avrai organizzato un corso di rikudim appena arrivato al cospetto di Dio”. Ci metto un po’ per decifrare il messaggio. Rikudim significa danze (israeliane). Non è possibile. Dopo una rapida verifica, capisco. Eli non c’è più.
Ho incontrato Eli al Pitigliani, molti anni fa. In uno strano impulso, tra curiosità, sfida e gusto dell’improbabile, mi ero iscritta a un seminario di danze israeliane, appunto. Mi aveva dato l’idea Franco, a sua volta incontrato a casa di un amico durante assurde prove di una danza chiamata “Laccio d’amore”. Che detta così pare che io sia una ballerina assidua, quando invece di ballare non sono mai stata capace. Però alle sfide non resisto e finisco sempre per dirmi “perché no” (proprio la frase che mi faceva venire l’orticaria quando la pronunciava mia sorella Marina, ma questa è un’altra storia).
Di ballare non sono capace ancora oggi, però grazie a Eli ho ballato eccome. Divertendomi moltissimo, peraltro. Al Pincio, a piazza di Spagna, persino al Carnevale di Viareggio. Ci sono andata anche a Parigi, per ballare, insieme a lui. Di solito vestita da uomo, perché sono alta, i maschi nei balli popolari scarseggiano cronicamente e poi a me in fondo non dispiaceva. Una volta, a un seminario, un coreografo relativamente famoso mi ha invitato a ballare con lui una sua danza di coppia, estremamente romantica. Io ho dovuto rispondere che purtroppo sapevo solo la parte dell’uomo. Che poi non la sapevo neanche tanto bene, quindi meglio così.
Ma sto divagando. Quel che più ricordo di Eli è, come è forse ovvio, il suo modo di ballare. Aveva un passo allo stesso tempo morbido e deciso, una naturalezza che sembrava mancargli nelle altre cose che faceva. Nulla che si potesse davvero insegnare e tuttavia trovo che sia stato un insegnante straordinario. Certo, il suo modo di insegnare le danze israeliane non c’entrava nulla con lo stile degli altri, del “mercato”: tutto sulla novità, sulla danza appena uscita, sull’aggiornamento quasi in tempo reale rispetto ai festival del settore. A lui di questo aspetto pareva non importare affatto. Insegnava sempre le stesse danze, quelle vecchie, a volte vecchissime. Però quelle che ho imparato da lui oggi, dopo più di 20 anni, sono ancora nei miei piedi. Diceva proprio così: la memoria è nei piedi. A volte ci faceva sedere per terra ad occhi chiusi, con la musica, e ci chiedeva di visualizzare i passi nella mente, senza farli.
Il capitolo danze israeliane nella mia vita, un po’ come il capitolo dell’università, non lo sento ancora del tutto chiuso, sebbene lo sia in teoria da un pezzo. E’ stata una fetta significativa della mia giovinezza, uno squarcio su lati di me che non conoscevo e poi forse ho dimenticato. Sprazzi di felicità pura e tanti non detti, tante questioni irrisolte rimaste appese lì. Anche qualche lutto e qualche rimpianto. In questo groviglio di sensazioni c’è anche Eli. Che sapevo che ormai viveva altrove, a fare anche altro, forse più felice di quanto non fosse all’epoca qui a Roma.
Sul mio Spotify ho una playlist intitolata “Le sapevo”. Il titolo dice tutto, no? Ancora oggi aver saputo ballare quelle danze è una cosa che mi rende fiera. Più di altri risultati che ho raggiunto nella mia vita, perché nessuno conoscendomi lo immaginerebbe. Sono grata ad Eli per avermele insegnate allora e perché avermele insegnate così fa sì che alcune le possa ballare ancora. Da sola, perché sono passate di moda anche nella ristretta cerchia di chi balla quelle danze. Ma i miei classici nessuno può portarmeli via. Neppure il Covid.
Mi dispiace per questa, seppur lontana, tua perdita. Di rikudim non avevo mai sentito parlare, ricordo solo che il finale in -im in ebraico è un plurale. Un saluto.
Grande tristezza.