Nonna Lucia

La mia mamma ha scritto un profilo di mia nonna Lucia, che mi piacerebbe condividere con voi. E’ un po’ lungo, ma alla fine non mi è parso giusto tagliarlo. Ho giusto tolto un po’ di cognomi qua e là. A me ha detto molto del rapporto di mia madre con sua madre e, in un certo senso, del modo in cui ha vissuto il suo ruolo di madre nei miei confronti. Ci sarebbero delle belle foto ad illustrarlo, ma ancora non ne ho la versione elettronica.

LUCIA CARDEA MINUTO: nata a Reggio Calabria il 3 giugno 1902 e morta a Reggio Calabria il 20 luglio 1974.Era figlia unica e portava il nome della nonna paterna (Lucia Praticò). Da bimba visse in una casa con un grande giardino nel vicolo Furnari a Sbarre Centrali. A pochi passi sorgeva una chiesetta di proprietà della famiglia Cardea, dove la domenica veniva celebrata la Messa. La famiglia era molto devota, soprattutto il nonno paterno che veniva ricordato come don Franciscu u santu.
Fu educata presso le Suore francescane missionarie d’Egitto, dove frequentò le classi elementari; poi passò all’Istituto Magistrale (allora Scuola Normale), dove fu allieva brillantissima, e conseguì il diploma di maestra. Il suo professore di filosofia, il futuro preside Bagnato del liceo classico Campanella, la invitò a proseguire gli studi frequentando il Magistero, ma il fidanzato Vincenzo, terribilmente geloso, espresse parere contrario. Per lo stesso motivo dovette rinunciare alla nomina di insegnante nelle scuole elementari comunali.
Era molto attaccata al padre e soffrì enormemente per la sua improvvisa scomparsa. La sua infanzia non era stata facile, perché la madre era poco equilibrata e non le dava respiro. Il padre era invece tenerissimo e la portava perfino a ballare in piazza Italia (pare che fosse una ballerina bravissima, ma noi figli non l’abbiamo mai vista ballare, probabilmente per la gelosia di nostro padre). Questi ricordi sembrano suggerire che nella sua vita sia passata dalla “schiavitù” della madre a quella del marito. In effetti non fu così. Nostro padre era profondamente innamorato della moglie e io ricordo da bambina la sua voce melodiosa che cantava spesso mentre era intenta alle faccende di casa.
Sposandosi, entrò nella numerosa famiglia Minuto, divenendone presto il principale punto di riferimento. Per le cognate fu una vera sorella maggiore, sicché esse venivano spesso a confidarsi con lei, per ricevere consigli e aiuti intelligenti. Soprattutto il cognato Pasquale si consultava sempre con lei e insieme con lei interveniva per risolvere le questioni familiari delicate. Tuttavia fu sempre ferma e autonoma per quanto riguardava la nostra educazione e non permetteva che le consuetudini tradizionali interferissero sulla sua impostazione. Sapeva affrontare gli screzi e le sofferenze in silenzio, e sempre con il sorriso.
Costituiva anche un sostegno per i vicini di casa. Ricordo in particolare, quando abitavamo in via San Francesco di Paola, la giovane signora J., serba, che doveva affrontare tante difficoltà familiari in un ambiente prevenuto e ostile: mamma fu per lei un’amica straordinaria. Lo stesso capitò più tardi con la famiglia del generale S., che, anche se ci creò dei guai, fu sempre accolta con generosità ed affetto.
La sua intelligenza intuitiva e penetrante, la sua personalità aperta, la sua sensibilità e la sua forza avevano bisogno di espandersi anche al di fuori dell’ambito familiare (scelta allora quasi proibitiva per una madre di famiglia) e ciò avvenne attraverso la sua adesione all’Azione Cattolica, dove fu presto scelta come collaboratrice dalla signora Antonietta Mariotti Tripepi, allora presidente diocesana dell’Unione Donne, e in seguito successe a lei nella carica. Questo le permise di entrare in contatto con i grandi vescovi, che si susseguirono sulla cattedra reggina: mons. Puja, mons. Montalbetti, mons. Lanza.
L’incarico diocesano non la sottrasse mai all’impegno parrocchiale: seguendo le direttive prima di Padre Gaetano Catanoso e poi del fratello don Pasqualino. Partecipava ogni giorno alla Messa e alla Comunione; era particolarmente impegnata nell’adorazione notturna; si dedicava quotidianamente alla meditazione scritta sotto la guida di mons. Licari; aveva un rapporto cordiale con gli altri fedeli. La sua casa era sempre aperta a tante persone umili, che si sentivano comprese, che ricorrevano a lei nei momenti difficili, che le confidavano le loro pene. Ricordo una mattina, mentre stavo facendo colazione in cucina prima di andare a scuola, come sono stata colpita dalle parole che un’anziana signorina, Antonietta L., le confidava: “Stamattina ho detto al Signore che è vero che Lui ha sofferto tanto per noi, ma una sofferenza non l’ha provata: quella davvero pesante della vecchiaia”. Anche le donne che successivamente vennero a servire in casa nostra (Cilla, Cata, Anna, Concetta, Laura) si sentivano trattate come figlie e ricambiavano l’affetto con la spontaneità della gente del popolo.
Rifuggiva dalla vita mondana e dalle chiacchiere salottiere, ma amava coltivare le amicizie sincere e non puramente formali. Penso alla famiglia T., che abitava in via Torrione, con la quale eravamo legati da un’amicizia fraterna; alla famiglia M., con la quale condividevamo ideali profondi in un legame che ancora continua; alla signorina Elvira L. e alla sua quotidiana presenza nella nostra casa; alla signorina C., con la quale si frequentavano nelle vacanze estive a Gambarie, occupandosi insieme della cappellina in mezzo ai boschi. Mi vengono in mente tante persone care: i M., i V. e tanti altri.
Di lei mi riaffiorano immagini e battute, che ne mettono in luce la personalità non comune. La ricordo un giorno a Gambarie, mentre friggeva le crespelle e tutti gli amici si affacciavano sulla porta di casa per assaggiarle. A un certo punto si presentò un giovane carabiniere per chiedere se stavamo nascondendo un latitante. Mamma gli rispose con franchezza sorridente: “Perché non andate a cercarlo nei boschi del monte Basilicò? Voi sapete benissimo dove si nascondono e invece girate per le case”. Il giovane carabiniere rispose: “Se andiamo là, ci sparano senza neanche farsi vedere”. L’incontro si concluse con le crespelle offerte volentieri anche a lui.
Sempre a Gambarie, ricordo la sua accoglienza calda a una sorta di gigante di Santo Stefano di Aspromonte, di nome Fava, vecchio amico di mio padre, quando veniva il venerdì per andare in cerca di funghi per noi. Mi affidava volentieri a lui, che mi caricava sulle spalle e mi insegnava le canzoni di Garibaldi. Era socialista e non amava i preti, ma mamma riuscì a fargli scoprire il volto di Cristo.
Nell’educazione di noi figli è stata ferma e dolce ad un tempo; nostro padre, come era consuetudine allora, affidava a lei il compito educativo con totale fiducia. Ricordo di aver sentito una volta, origliando, le critiche espresse a voce alta da una mia zia, che le rimproverava di permettermi di frequentare ragazze “leggere”, mie compagne di liceo. Mamma si mostrò irremovibile e chiuse la questione dicendo che, se a sedici anni non ero in grado di distinguere il bene dal male, la sua opera educativa era fallita ed era inutile cercare tardivi rimedi.
L’impegno di apostolato in tutta la diocesi, iniziato insieme con la signora M., si tradusse anche in un’azione di promozione delle donne calabresi, allora soggette alle consuetudini ataviche che le relegavano in casa e le mortificavano in un ruolo subalterno in famiglia. Il loro apostolato si fondava anzitutto su una seria formazione religiosa perseguita attraverso studi di testi e partecipazioni a corsi di aggiornamento. Veniva poi attuata con una fitta programmazione la visita periodica alle varie parrocchie non solo della città, ma di tutti i paesi, per tenere lezioni e conferenze, per ascoltare i problemi di ogni donna e per aiutare a risolverli, per gettare il seme di una fede non superstiziosa, ma fondata sulla lettura del Vangelo e su una seria conoscenza del catechismo. A volte incontravano l’ostilità dei parroci, che non erano esenti da un certo maschilismo tradizionale e consideravano la loro presenza un’intrusione indebita nel loro campo, benché il mandato missionario fosse autorizzato dal vescovo. Ricordo il telegramma di un parroco, a cui avevano comunicato il loro arrivo: “Sospendete vostra visita inopportuna e sgradita”.
Tale attività, che nasceva da una fede viva aperta alla realtà di ambienti e persone diverse, arricchiva anche il marito e noi figli. Mio padre, che non era stato mai particolarmente un uomo di chiesa, scoprì il Sillabario del cristianesimo di Mons. Olgiati e ne fu entusiasta; volle che io e mio fratello frequentassimo l’Università Cattolica del Sacro Cuore e cominciò a pregare. Con noi figli si mostrò sempre rispettosa della nostra personalità, ci voleva bene ma non si sovrappose mai al nostro sviluppo autonomo. Ricordo che, per tutti gli anni che trascorsi a Milano, ricevetti ogni giorno una sua lettera che mi teneva aggiornata delle cose di casa e della città. Io capivo che avrebbe voluto che tornassi in Calabria dopo la laurea e che accettassi le proposte di matrimonio che mi venivano fatte insistentemente da giovani del luogo; mi avrebbe giustamente voluta vicina ed era pronta a riversare il suo affetto sui nipotini. Non capiva la strada che avevo preso, anche perché non gliene avevo mai parlato esplicitamente: ero una figlia difficile, ma mi sentiva anche un suo sostegno e non mi ha mai espresso una critica o rivolto un rimprovero. Rispettava quelli che con fede considerava i disegni di Dio.
Era straordinariamente forte nell’affrontare le avversità senza affievolire il calore dell’affetto familiare. Seppe reggere quando mio padre, reo di ascoltare le notizie di Radio Londra, fu mandato improvvisamente al confino nella lontana Puglia per delazione di un collega e del generale S., mentre lei era in preda a febbre altissima e rischiava di morire. Seppe reggere quando ci cacciarono dalla casa in affitto dell’Ente Edilizio, perché non eravamo più degni di abitare fra quelle domus et familiae a fascibus renovatae, come ancora leggo con una certa rivolta interiore sul frontone della palazzina di piazza De Nava. Seppe reggere alla penuria economica, alla sparizione di tanti amici che avevano paura delle ritorsioni di un regime che stava tramontando. Ci trasferimmo nell’appartamento di via Collina degli angeli, facendo il trasloco con vari viaggi su un carretto, ma senza provare nessuna umiliazione perché mamma ci infondeva serenità e fierezza. La nostra casa restò aperta a tutti. Alle mie compagne di liceo che venivano a preparare con me l’esame di maturità; alle persone che avevano bisogno di aiuto; a Erika, una ragazza ebrea fidanzata con un ufficiale dell’Intelligence Service nel periodo dell’occupazione inglese, e così via. Seppe reggere ai bombardamenti, allo sfollamento, anche quando siamo stati costretti a lasciare la villetta suburbana della signora M. per raggiungere la più sicura Ardore Superiore, affrontando un ambiente tessuto di pregiudizi. Ancora una volta non si fece sopraffare dalla situazione: si presentò al parroco, che, a dispetto di tutte le disposizioni diocesane, non aveva fatto mai una lezione di catechismo e, con il suo consenso strabiliato, organizzò corsi di istruzione religiosa per i bambini, non solo in chiesa ma anche nelle contrade più povere e sottosviluppate dove i bimbi si presentavano quasi nudi. E quando mia zia, che aveva sposato uno dei notabili del paese, le disse che mi squalificavo andando a spasso con ragazze del popolo, mia madre fu irremovibile e mi lasciò sempre fare liberamente le mie scelte. Ma teneva gli occhi aperti, soprattutto rispetto a certi approcci di preti che secondo l’uso del tempo avevano abbracciato la carriera ecclesiastica perché figli cadetti delle famiglie nobili.
Seppe reggere con amore e delicatezza infinita quando nostro padre si ammalò e fu costretto ad una carrozzella. Lei avrebbe desiderato che lasciasse la scuola per non affrontare l’umiliazione di essere trasportato, ma seppe capire che per lui la scuola era la vita. Quando lui morì, la vedemmo declinare a poco a poco. Mio marito ed io l’abbiamo invitata a vivere con noi, ma ci ringraziò, e con estrema chiarezza ci disse che voleva continuare a vivere nella sua terra e nella sua casa, anche perché si rendeva conto che sarebbe stata difficile per lei e per noi la convivenza in casa nostra con mia suocera che era rimasta vedova. Fu felice in casa sua con mio fratello , con mia cognata, con i loro figli.
E poi, l’atto finale che riassume tutta la sua vita. A Milano, una volta che era venuta a trovarmi, le avevo fatto conoscere don Carlo Gnocchi: è stato per lei un incontro determinante che la portò alla decisione di donare i suoi occhi dopo la morte. Ricordo quella notte di luglio quando infuriava il temporale: era spirata alle ore 22. Santo V. ne aveva accertato la morte; noi aspettavamo la camera operatoria che doveva arrivare da Catanzaro. Dopo l’intervento l’abbiamo ritrovata serena con gli occhi chiusi; il giorno dopo il prof. P. ci comunicò per telefono che le sue cornee erano state innestate su una giovane donna, di cui non poteva rivelare il nome. Qualche mese dopo, invece, conoscemmo Caterina, di Vibo Valentia, che finalmente era riuscita a vedere il volto dei suoi figli e aveva cambiato il nome dell’ultima chiamandola Lucia. Dopo il suo esempio, in Calabria si sono verificate molte donazioni.
Siamo fieri di lei e riconoscenti al Signore perché ci ha regalato una madre, che è stata per noi la più limpida immagine della Sua, capace di amare con dedizione assoluta i suoi cari, ma anche di estendere i confini della famiglia al prossimo, senza grettezze, senza preclusioni, senza egoismi.

4 pensieri riguardo “Nonna Lucia”

  1. Ho letto con grande commozione…
    Ho capito ,credo, perchè tu sei così straordinaria…( speciale è un termine inflazionato…) Tua nonna e tua mamma erano donne, come dire , “liberate” ante litteram, moderne nel senso più positivo della parola, pienamente consapevoli di sè ( senza retorica ) e aperte all’amore verso il prossimo nel modo vero e universale, che sono convinta sia davvero l’unico modo praticabile. Anche se la mia storia è diversa , per certi versi, ha delle affinità sorprendenti con la tua…
    Sono poco disinvolta con la tastiera, conto di scriverti in privato……..
    Sei molto fortunata, lo sai…….
    Baci. Giusi

  2. Ciao, conosci questa storia? Che ne pensi? Se sei credente e ne rimani indignato attivati anche tu scrivendo ai giornali e al vaticano affinché chiariscano al più presto e pubblicamente tale mistero!!!

    Enrico De Pedis, terribile assassino, capo della banda della Magliana, coinvolto nei più feroci casi rimasti irrisolti, dall’estorsione alle stragi di destra, alla loggia massonica P2, mafia siciliana, servizi segreti deviati…, assassinato il 02 febbraio 1990, è sepolto nella Basilica di S. Apollinare, Roma, dove erano sepolti solo e solamente papi e martiri!!!
    Ciò è avvenuto dietro richiesta dell’allora rettore di quella Basilica Piero Vergari, tutt’oggi operante come educatore di futuri sacerdoti, che dopo pochissimi giorni, il 06 marzo 1990, ne attestò la conversione e lo nobilitò definendolo benefattore; con l’autorizzazione dell’allora vicario di Sua Santità Giovanni Paolo II° e capo della conferenza episcopale italiana, Card. Ugo Poletti, deceduto.

  3. Accidenti, questa pagina è scritta in modo esemplare…è bello l’intento di fissare nella memoria le figure della propria vita e in un certo senso “darle” a chi non le ha conosciute o per lo meno non nello stesso modo. Complimenti a tua mamma per l’idea e la realizzazione!
    Ciao…e buon anno!

  4. Un brano lunghissimo, è vero. Ma ne ho assaporato ogni virgola. Commossa, colpita e onorata di aver "conosciuto" tua nonna.
    E, come dico sempre io, il DNA non è segatura…

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