“In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi”. Su questo versetto (o due) del Vangelo di Marco il professor Simonetti tenne un intero corso. Io ero giovane, diligente, prendevo appunti e ammiravo le sue interminabili citazioni a memoria in greco e/o in latino. Del corso, che trattava del concetto di autorità nel Cristianesimo antico, non ricordo granché. Ricordo però che, in sede d’esame, quel professore di cui avevo somma stima intellettuale commise un’ingiustizia o, piuttosto, una piccola meschinità ingiustificata. Mi precipitò di molto nella scala della considerazione (anche se naturalmente ciò non incideva sul giudizio, diciamo così, scientifico). Un episodio analogo, molto più grave, mi successe con il mio maestro. Rimase tale, per gratitudine, affetto e stima intellettuale: ma la mia ammirazione nei suoi confronti ne rimase evidentemente compromessa.
All’università ricordo che mi stupivo del fatto che alcuni miei compagni di corso avessero dei professori una soggezione che a me pareva esagerata. Io, nei limiti del dovuto rispetto, mi ci sono sempre rapportata “alla pari”, o quantomeno senza timori reverenziali. Forse, banalmente, di professori universitari a casa mia ne erano sempre circolati e il loro titolo accademico non assicurava loro, di per sé, una posizione privilegiata nella stima dei miei genitori. Ma l’autorità, quella dell’insegnamento, ad alcuni la riconoscevo a prescindere dalle bizzarrie caratteriali o da altre vistose umane debolezze.
Procedendo in ordine sparso, mi vengono in mente casi in cui il rifiuto del concetto stesso di autorità, o piuttosto la ritrosia estrema ad esercitarla da parte di chi avrebbe il compito di farlo, mi hanno dato fastidio. Ricordo discussioni, alcune solo pensate, altre esplicitate. Con il senno del poi ritengo che per me autorità non si accoppiasse necessariamente con potere, ma piuttosto con responsabilità. Nella mia giovinezza l’autorità per eccellenza era quella del maestro che non pontifica sterilmente, ma si mette alla prova davanti e insieme agli studenti, con la sicurezza del proprio valore e la responsabilità attiva di far progredire altri. L’autorità era quella di un parroco che, attraverso il suo essere presente giorno dopo giorno, guida la sua comunità senza bisogno di riconoscimenti e salamelecchi di sorta. Un autorità, dunque, che suscita rispetto, gratitudine e che io non ho mai avuto particolari problemi a riconoscere.
Crescendo, con l’inizio della mia vita professionale, mi sono più volte interrogata sulla mia personale sensibilità rispetto all’autorità (e, di conseguenza, all’obbedienza). Un lato della mia anima è rispettoso delle regole fino all’irragionevole. Ho fondamentalmente orrore all’idea di essere colta in fallo. Ma poi, nella sostanza, io l’autorità ho bisogno di riconoscerla come tale. E qui le cose mi si complicano molto.
Oggi, pensando anche alla mia piccola autorità di genitore, credo che l’autorità, più che a un astratto “valore”, per essere da me riconosciuta come tale deve accompagnarsi a reale responsabilità. E con reale intendo esigibile effettivamente, nell’immediato e nel concreto. Il resto sono chiacchiere e reciproche illusioni.
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