Oggi è venerdì santo e prima di lanciarmi in un’altra breve trasferta con la Guerrigliera sento il bisogno di fermarmi un momento. Qui alla scrivania in una cripta-ufficio abbastanza spopolata, senza telefoni che squillano all’impazzata, chiudo gli occhi e mi passano davanti tutte le superfici aguzze di questi anni (quanti? non so quantificare) che magari non hanno ferito gravemente il mio cuore, ma certamente l’hanno abraso un bel po’.
Quindi capita che inaspettatamente mi fermi su una parola, su una frase e gli occhi mi si riempiano di lacrime che – specialmente in momenti di stanchezza particolare – non riesco a nascondere, con grande imbarazzo mio e del mio interlocutore.
La settimana prima della partenza per San Francisco un giovane rifugiato con cui spesso incontravo i gruppi di studenti anglofoni si è suicidato. C’è una parte di me che sa come reagire e infatti reagisce. Ma c’è anche una parte dei miei pensieri che sprofondano in un groviglio confuso, che non riesco neanche ad articolare del tutto. E allora quello smisurato senso di impotenza sostanziale fa risuonare per simpatia tutte le altre analoghe vibrazioni di frustrazione, alcune nobili (quelle che fanno rima con politica, giustizia sociale, pace nel mondo), altre molto più meschine e individuali, che non bruciano di meno.
Una canzone che ho sentito e amato molto, anni fa (una di quelle canzoni fin troppo facili come testo e come melodia, di quelle che non rende intellettuali per il solo fatto di ascoltarle), diceva “Fa male, però di meno / Di meno, però fa ancora male”.