Dopo l’ufficio, forzandomi un po’, sono andata alla presentazione di questo libro. E’ una raccolta di scritti di un mio caro amico, che si è tolto la vita il 3 giugno del 2002. Mai come in questa circostanza mi sono sentita estranea. I miei ricordi di Roberto Palazzi non sono esclusivamente intellettuali e certamente non hanno nulla a che fare con l’autocompiacimento che non è mancato neanche in questa occasione. Con Roberto il divertimento intellettuale andava di pari passo, sempre, con la curiosità per l’altro. Con l’attenzione, che lo portava a ritagliare ogni giorno decine di articoli di giornali per darli, in buste con il logo dello studio bibliografico dove viveva, alle persone che incontrava. Perché di ognuna di quelle persone conosceva e teneva in mente gli interessi. Per me, alla categoria Vicino Oriente antico e Bibbia, aveva aggiunto anche le voci Curdi, Arabi, Lingue africane… tutto ciò che aveva a che fare con il mio lavoro “di ripiego”, ma che era comunque la mia vita. Ma aveva buste così per tutti quelli che conosceva, a volte anche per i loro familiari (a mio padre, che pure conosceva di sfuggita, fece consegnare più di una busta).
Le persone lo interessavano, le compagnie varie, la possibilità di incroci improbabili. Roberto ha arricchito profondamente diversi anni della mia vita. Andavamo al cinema a vedere “solo puttanate”, come diceva lui (e vedemmo, in effetti, un memorabile Godzilla-Le dimensioni contano), ma anche film strampalati come quello sui musical in Unione Sovietica (East Side Story) e una volta anche Lolita, versino originale (non remake). Mi portava a cena da suoi amici come Pablo Echaurren, gente che probabilmente non mi ha mai notata sebbene sedessi a tavola con loro. Ricordo che la prima volta che mi disse che andavamo a cena lì, io non sapevo cosa mettermi. E lui, che andava ovunque con enormi T-shirt a volte anche macchiate (alcune gliele regalavo io, comprandole durante i viaggi estivi, e le sceglievo rigorosamente kitch e xxl), mi disse semplicemente: “Mettiti quel vestito di lino verde, mi piace tanto”. E da quello capivi che la sua attenzione era totale, complessiva, per tutti i dettagli e non solo per i divertimenti intellettuali.
Mi ha portato un giorno in giro per l’Abruzzo a cercare il posto esatto dove era stato realizzato un paesaggio dal vero di Escher. Quando ci siamo fermati all’unico bar del paesino minuscolo così immortalato, ha mostrato fiero il disegno alla barista, che per tutta risposta ha detto: “Bello. Lo ha fatto lei?”. Cose così, stupide, sono i miei ricordi di Roberto. E, ovviamente, i suoi regali meravigliosi, spropositati e rari. Quelli sì, libreschi.
Per età da Roberto e dai suoi amici ero molto lontana. Lui frequentava semmai le mie sorelle maggiori. Non ricordo come sia successo che siamo entrati in confidenza. Ricordo però i pranzi al bar di via Dezza, alla fine dei quali lui mi accompagnava in macchina al lavoro, lasciandomi a lungotevere Flaminio. Gli accompagnamenti in macchina erano quello che più ci legava. Erano assurdi, irragionevoli, scomodissimi per lui. Per mesi e mesi mi veniva a prendere a mezzanotte a Trastevere per portarmi a Talenti e poi tornare sull’Aurelia, o a Casal Palocco. In quei tragitti parlavamo di tutto. Una sera, sulla Nomentana, restammo con due ruote da una parte e due ruote dall’altra del cordolo, il “serpentone” degli spot di Arbore. Ne abbiamo riso assai. Dove voglio andare a parare? Che Roberto era anche vita, non solo “male di vivere”. Che l’ossessione per i libri non l’ha mai reso egoista, o cieco, o autocompiaciuto. Per lui gli altri esistevano ed erano importanti. Una volta ho scritto che Roberto riservava ai progetti altrui l’entusiasmo che non concedeva ai propri. Non credo si renda giustizia alla sua memoria se non si tocca questo aspetto.
Ero un amico di Roberto, sistemavo il suo computer e creavo i file per i cataloghi, ma come dici tu un rapporto con Roberto difficilmente non diventa amicizia e condivisione di interessi.
Mi sono emozionato nel leggere quello che ricordi di lui, hai descritto perfettamente quello che era, quello che riusciva a suscitare negli altri. Dire che mi manca è un eufemismo davvero blando.
Le rare cene, qualche film assurdo (Tomb Raider, ebbene sì), il lavorare insieme senza un minuto di silenzio e sempre con una musica perfetta di sottofondo. I libri incredibili che mi faceva conoscere, e spesso regalava. La sua gentilezza sincera promossa ad arte.
Sì, dire che mi manca è nulla.
Ciao, e grazie per quello che hai scritto, è davvero bello.
Gianni
gianni.sarti@gmail.com