"Ma ci sei nata?". Ecco, già il fatto che quando dici di abitare in un quartiere ti chiedano se sei autoctona, monteverdina doc con il bollo, mi maldispone. Comunque sì, ci sono nata. I miei sbarcarono in quel di via San Calepodio (oscuro martire paleocristiano, la cui unica rappresentazione a me nota è nel mosaico dell'abside di S.Maria in Trastevere. Aveva i piedi belli? Chissà) verso gli inizi degli anni '60 del secolo scorso. Non era una zona particolarmente esclusiva, altrimenti ben difficilmente ci sarebbero sbarcati. Praticamente campagna, separata dalla conca di Donna Olimpia da prati guarniti di pecore. Ma già allora aveva degli estimatori. Pasolini, Rodari… La posizione, in effetti, ci sta: Monteverde se ne sta lì appollaiata a sovrastare Trastevere, facilmente raggiungibile a piedi percorrendo fascinose scalinate. Gli abitanti di "allora" ricordano ancora il profumo che si sentiva salendo su per via Dandolo (molto più tardi immortalata da Nanni Moretti in cerca di casa in Caro Diario). Con l'estendersi dell'asfalto, hanno assunto maggiore importanza le grandi aree verdi: Villa Sciarra, raccolta ed elegante (pur nella parziale decadenza) e Villa Pamphili, uno schiaffo alla miseria per chi si deve accontentare dell'aiolina di quartiere.
Certo che amo il mio quartiere, i ricordi lieti e dolorosi che ne segnano le strade e le fanno anche mie. Mi piace pensare che Meryem ripercorra almeno in parte la mia personalissima geografia d'infanzia, che salti giù dai muretti da cui anche io mi tuffavo. Mentre scrivo questo, il pensiero inevitabilmente corre ai luoghi che invece, con il tempo, hanno perso la loro anima. La libreria Gianicolo, che ha cambiato proprietari. Il bar di via Dezza, dove non si riunisce più, per il pranzo, un gruppo di amici molto eterogenei per età e professione, che si autoconvocava senza impegno (e a volte senza neanche esplicitarlo) e lì, intorno al tavolino, si gustava per un'oretta conversazioni bizzarre e a volte anche vere e proprie avventure. La mia Monteverde della giovinezza ruotava intorno alla libreria antiquaria di Roberto Palazzi, che in realtà in quegli anni era già chiusa. Tuttavia il titolare, come era nel suo stile, continuava a vivere come se ciò non fosse avvenuto. Pranzava a via Dezza, davanti al suo ex negozio, e cenava "dai Sardi", poco più in là. Il fatto che abitasse e lavorasse altrove era un dettaglio di poco conto.
Dopo la magia dell'infanzia e delle cacce al tesoro nei giardini di una scuola che non esiste più, l'era di via Dezza è stato il più tangibile legame tra la persona che stavo diventando e Monteverde. Da un lato, quegli stessi incontri avrebbero potuto accadere benissimo da un'altra parte. Dall'altro no, non è del tutto vero. C'era un tessuto, un humus, fatto di negozianti che si conoscevano e si incrociavano nella pausa pranzo, di vicini e ex vicini di casa, di immediatezza e improvvisazione data, oggettivamente, dal fatto di trovarci tutti lì. E quando poi Roberto ha voluto uscire di scena nella sua macchina parcheggiata ai piedi delle mura di Villa Sciarra, ha segnato allo stesso tempo un epilogo e un vincolo perenne a quelle strade, a quei marciapiedi, a quei punti di ritrovo semicasuali.
C'è una bellezza di Monteverde che apprezzo in silenzio e di cui sono gelosa. Il fascino di pensarlo come l'antico quartiere degli orientali e degli stranieri, come se un pizzico del mio destino mi fosse rimasto attaccato addosso fin da piccola, tra le catacombe ebraiche che non sono mai riuscita a visitare e il tempio siriaco affacciato su via Dandolo. Ci sono le storie belle, sincere, vere di chi ci abita quasi da sempre ed è anche capace di raccontarle (penso soprattutto a Mario Vitali, che oltre a aver scritto varie godibili raccolte di racconti ospita nel suo bar questa iniziativa). C'è soprattutto lo sfondo delle mie lunghe passeggiate solitarie, per un tratto della mia vita in compagnia della nobile Belqis a quattro zampe. I panorami rarefatti, la sagoma del gazometro che sfida le cupole del centro. Le magnolie impareggiabili di Villa Sciarra, il muschio sui volti delle statue. I percorsi silenziosi dei "fortini", abientazione perfetta per gli incontri clandestini e le prove di parcheggio prima dell'esame di scuola guida. Soprattutto una specifica scalinata, che amavo percorrere a piedi già ai tempi del liceo, rimasta indissolubilmente legata (va a capire perché) a una citazione sopravvissuta a una lezione di letteratura greca: "Sublime è impronta di un'anima grande".
Perché vi racconto tutto questo? Perché le pagine di Facebook intotolate a "i VIP di Monteverde" mi fanno un certo orrore. Quando incrocio qualche personaggio noto, faccio finta di nulla. Credo che chiunque apprezzi di non essere importunato. E se invece non lo apprezza, non si merita di essere importunato. Mi infastidiscono i fanatismi e le ostentazioni di chi identifica la vita del quartiere con una disponibilità di soldi pressoché illimitata. Certo, gli alimentari gioielleria e i negozietti pretenziosi contribuiscono ad alimentare questo sentire comune. Ma Dio ci salvi dallo snobismo che si fa strada a colpi di SUV (peraltro molto poco adatti alle note carenze di parcheggio della zona). Monteverde non è un quartiere chic. La sua bellezza consiste nell'essere un quartiere concettualmente di periferia (Pasolini, vi dice niente?), ma vicino e persino ben collegato con il Centro. Travestirsi da Parioli non gli ha mai donato. Quindi se il giornalino di quartiere propone il test "Siete monteverdini o romani comuni?", a me viene da trasferirmi immediatamente a Talenti. Cosa che peraltro ho fatto, sia pur per un periodo limitato della mia vita.
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