La terza tappa della Caccia al tesoro è dedicata alla fotografia. E ovviamente io il blog di fotografi me lo sono già giocato alla tappa precedente. Cribbio.
Calma e sangue freddo. Io di fotografi ne conosco vari altri, però. Mi si impone dunque una scelta, piuttosto combattuta. Baro un po’? Ma sì, dài. Ce ne sarebbe uno, che forse è il mio preferito ed è anche un caro amico, che però ultimamente ha deviato un po’ verso uno stile che per me è poco accessibile. Ce ne sarebbe un altro, decisamente bravissimo, ma già famoso di suo (collabora con Erri De Luca, per dire) e che dunque non ha certo bisogno di promozione. Ce ne sarebbe un terzo, a cui sono affezionata, ma che non riesce a farmi scattare quella scintilla decisiva dell’ispirazione.
Alla fine la mia scelta l’ho fatta. Lui. Non saprei dire, sinceramente, se averlo conosciuto personalmente sia un privilegio o una dannazione. Mi ha fatto saltare la mosca al naso tante di quelle volte che non riesco neanche a rievocarle con serenità (e dire che abbiamo rapporti molto sporadici e superficiali). Non potrei mai lavorarci, non potrei mai fare un progetto con lui. Ma poi vedo i suoi scatti (o i suoi documentari) e ammetto: questa creatura bizzarra e a volte, obiettivamente, irritante ha il suo motivo di esistere. Il suo talento straordinario. L’occhio. La capacità di cogliere, al di là dell’immagine, una storia. Come questa, ad esempio: c’era una volta un tuareg in motocicletta… O questa: c’era una volta un baobab… Ammiro in Fabio la capacità di fare reportage con l’immaginazione del poeta. Di documentare e sognare allo stesso tempo.
Forse questo miscuglio di testimonianza e creazione, che non riproduce pedissequamente ma non tradisce nemmeno, è la migliore definizione che riesco a immaginare di arte. Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la filosofia, e anche di quante possa immortalarne uno scatto. Apprezzo molto che in una fotografia si colga questa consapevolezza.