Come sa chi mi segue sui social, è arrivato ineluttabile il momento che rimandavo da 17 anni circa: bisogna rifare l’impianto elettrico del mio appartamento. Una casa con cui non è mai scattata una scintilla d’amore, ma che è pur sempre la mia casa, specialmente ora che ho finito di pagare il mutuo. Da settembre in effetti avevo cominciato il processo di scarto del superfluo, ma davanti ai mobili da smontare mi ero arenata. La necessità di intervenire pesantemente mi darà almeno l’opportunità di buttare una parte rilevante di ciò che si è accatastato nel tempo.
Che bello, diranno i miei lettori. E qualcuno si azzarda a dirmelo anche dal vivo. Io fatico assai a vedere il lato positivo del vivere per due mesi almeno fuori da casa mia (siamo sfollate a casa di mia madre), assistendo passiva (la mia inettitudine in ogni questione pratica è notoria) a un’operazione che mi costerà verosimilmente il doppio di quanto mi viene al momento preventivato – e comunque uno sproposito. Con l’aggravante che io una sistemazione migliore per la mia casa non riesco davvero a immaginarla. Ho il forte sospetto che, passato il cataclisma, mi troverò in un luogo del tutto equivalente a quello che faticosamente sto facendo smantellare.
Ultima maledizione che incombe su di me: questo film, dalla cui visione a suo tempo trassi argute considerazioni metaforiche, ma che oggi mi si ripropone in tutto il suo crudo significato letterale. Paese che vai, operaio che trovi. Il direttore dei lavori però è romano. “Lunedì non possiamo cominciare”. “Allora magari martedì?”, suggerisco speranzosa. “No, mai. Di Venere e di Marte…”. Già. Non si sposa, non si parte e non si dà nemmeno principio all’arte. La pluridecennale esperienza di L. conferma che tutti i lavori da lui iniziati di martedì o di venerdì sono stati “un bagno di sangue”. Conveniamo che conviene partire sotto presagi migliori.
Domani è mercoledì. Vi terrò aggiornati.