In tutti questi anni di frequentazione di gesuiti, sia pure da pressoché completa outsider, posso vantare una certa acquisizione passiva di elementi di spiritualità ignaziana random. Non abbastanza da metterli in un CV, ma diciamo che se un gesuita parla in linguaggio gesuitico magari non capisco il 100%, ma colgo il senso generale. Un concetto che mi colpisce molto per la sua utilità pratica e che ho sentito per l’appunto applicare con grande naturalezza da un’amica palermitana in una sessione di formazione tra le montagne trentine, è quello di desolazione e consolazione. Cercando di risalire dall’osservazione empirica alla teoria, ho scoperto che tutto torna agli Esercizi Spirituali e, precisamente, alle regole del discernimento. Il blog di Francesco Occhetta, a cui vi rimando, è un caso assai raro (e perciò rimarchevole) di spiegazione di questi concetti in termini universalmente intellegibili (anche se devo dire che a giudicare dalle citazioni S. Ignazio lui era piuttosto efficace nella comunicazione, certo assai più che i suoi seguaci).
Fatta questa premessa gesuitica, la settimana scorsa è un brillante esempio di quegli stati di desolazione ricorrenti a cui dovrei ormai aver fatto il callo e invece no. Però a un certo punto ho messo a fuoco un pensiero preciso. Se guardo indietro, il cumulo di rimpianti e mancanze mi pare intollerabile e in qualche misura sproporzionato alla buona volontà che mi pare di avere investito nella costruzione del mio percorso di vita finora. Però, a guardare bene, se penso al compito più importante che mi è stata affidato dalla vita, cioè crescere mia figlia, penso di essere stata brava. Non perché le sue qualità o i suoi successi siano miei meriti, ovviamente. Ma perché credo in tutta coscienza di aver usato il mio amore per lei come timone a cui aggrapparmi per le mie scelte negli ultimi anni e non me ne pento. Quello che a volte mi manca, banalmente, è che qualcuno mi dica “brava” per questo. “Ma non te lo dicono sul lavoro, brava?”, mi ha chiesto ieri il curdo tra il serio e il faceto. No, ma non è questo il punto. Il punto è che non mi dovrebbe servire che qualcuno me lo dica. Quanto è puerile questo bisogno di sentirsi lodare, non è vero? Eppure ieri, dopo aver messo a fuoco che il punto era questo, ho provato a prendere atto di questa mia debolezza e a farci pace.
Ma pensiamo alle consolazioni, che per me sono soprattutto ispirazioni. Quelle non mi mancano, obiettivamente. Un bel progetto da scrivere e la possibilità di farlo. Una passeggiata domenicale a Torpignattara e la promessa di tornarci domenica prossima. Incontri interessanti. Storie. E allora, come consiglia S. Ignazio, cerco di accumulare nuove forze in attesa della desolazione che in seguito verrà.