Rifugiati, istantanee

Paola in un commento al post precedente e altri, in commenti o a voce, mi chiedono di parlare di più di rifugiati. Il mio primo blog, nel 2004, ne parlava in modo esclusivo. Alcune cose oggi non le scriverei in quel modo. Ma altre sì. Allora ho deciso di regalare ai miei pochi, ma affezionati lettori, una riedizione di alcuni di quei vecchi post. Senza riscriverli, così com’erano allora. Tipo “contenuti speciali”.

30/07/2004 – Women first
Autobus 95, sei di sera. E’ estate, ma è affollato lo stesso. In piedi, vicino alla porta, non posso fare a meno di guardare due ragazzi che parlano arabo. Sono malvestiti, come se dormissero per strada. Uno dei due, in particolare, sembra malato o drogato. Se me li trovassi accanto mentre cammino per strada da sola, cambierei marciapiede. Uno dei due all’improvviso scatta in piedi e si rivolge verso di me. Per un attimo penso che mi conosca. Invece no. “Prego, siedi”, mi dice in italiano stentato. Poi lascia la conversazione all’amico, rimasto seduto e più padrone della lingua. Mi siedo e ringrazio. “Scusa se non ho pensato io. E’ che sono malato. E poi lui ha pensato prima”. Ringrazio ancora. “Così riposi un po’”, aggiunge ancora. “Non ci sono abituata”, scherzo io, “nessuno mi cede il posto, di solito”. O meglio, solo gli stranieri. Ma questo non faccio in tempo a dirlo. “La donna viene prima, in tutti i paesi del mondo”, mi spiazza lui. A quel punto chiedo da dove vengono. Il mio interlocutore è algerino, quello che mi ha ceduto il posto è tunisino. Dopo poche fermate anche il secondo si alza. Devono scendere. Ringrazio ancora. Mi sorridono, un po’ timidamente. “Buona fortuna”, aggiunge uno dei due. “Forse ci vediamo ancora”.

26/08/2004 – Rivincite
Moussa era l’alunno più affezionato e difficile di Dafne. Timido, sorridente, ma apparentemente refrattario ad imparare la nostra lingua. Dafne ce la metteva davvero tutta: gesticolava, cantava, gli saltellava intorno, inventava scenette e disegnini. Soprattutto andava fuori dai gangheri quando gli altri studenti lo prendevano in giro perché era più lento di loro e non reagiva mai. Un giorno Dafne mi si presenta con un sorriso largo fino alle orecchie. Moussa aveva reagito. Stava scrivendo qualcosa alla lavagna, gli altri ridacchiavano come al solito. Lui si è voltato verso la classe e ha detto, forte e chiaro: “Silenzio!”. Sono passati due anni da allora. Ieri ho rivisto Moussa. Sapevo che aveva trovato un lavoro, a dispetto di chi non avrebbe scommesso una lira sulle sue capacità di integrazione. Con il suo sorriso largo e timido mi ha presentato la sua famiglia: una moglie stupenda, due ragazzi già grandi e forti, dalle braccia lunghe. E’ riuscito a farli arrivare in Italia e presto si trasferiranno nella loro casa. Ieri sera ho telefonato a Dafne. Mi sembrava giusto che lo sapesse…

24/09/2004 – Bonne chance
Oggi ho saputo che Bertrand andrà a Vicenza a cercare lavoro. Sono contenta. E’ una delle molte persone che sono stata particolarmente felice di incontrare. Veniva alla scuola di italiano del Centro Astalli e mi ricordo che lo prendevo in giro per il suo modo molto francese di dire “presente”: il suo insegnante Massimo non riusciva a correggerlo e in fondo non ci si applicava molto, perché il suo irrefrenabile senso estetico si compiaceva di quell’accento tanto “chic”. Bertrand una volta mi ha raccontato del lavoro che faceva in Camerun: per molti anni è stato guardia forestale, girava per i parchi naturali del suo paese e faceva azione di sensibilizzazione nei villaggi per scoraggiare i bracconieri. Una vita da film, di cui parlava con gli occhi accesi di entusiasmo e nostalgia. Appena lo hanno riconosciuto rifugiato è andato di corsa a respirare un po’ di Africa, come un pesce fuor d’acqua: non in Camerun, naturalmente, dove non potrà tornare più, ma in Togo, dove ha anche una parte della sua famiglia. E’ tornato con buste di bellissimi vestiti dipinti a mano, una pennellata d’Africa per i suoi amici romani. Il giorno dopo avermi regalato il mio è tornato in ufficio preoccupatissimo: “Non lo mettere in lavatrice!”. Ora se ne va al nord, in cerca di un lavoro e di una vita tranquilla. Parte con il suo sorriso buono e le sue camicie colorate. Speriamo che non abbia troppo freddo.

28/09/2004 – Irregolari
“Tu fai tutto non regolare!”. Così mi diceva Yassin, guardandomi mentre mi districavo impacciata tra i vassoi della mensa. Da che pulpito viene la predica, ho pensato io. Ma, come mi è stato fatto notare in seguito, l’osservazione è profondamente motivata: Yassin è forse irregolare per documenti, per status giuridico, insomma per una situazione imposta dall’esterno. Io sono irregolare dentro, per condizione esistenziale. Mi è rimasto un bel ricordo di quel primi pomeriggi caldissimi passati tra la cucina e il corridoio del Centro Astalli, a chiacchierare con Yassin e con i suoi amici di passaggio mentre si serviva da mangiare. Mi è rimasto anche un regalo di Yassin: una mappa del Kurdistan, cioè la mappa di uno stato che non c’è. Più irregolare di così… E’ stata appesa per un bel pezzo sulla parete della cella di un carcere. Poi è stata regalata, da amico a amico, fino ad arrivare nelle mie mani. Prime mani di donna e prime mani di italiana. Ne sono molto fiera.

30/11/2004 – Schiavo, semplicemente
Ch. sembra più giovane della sua età ed ha un sorriso timidissimo. Ci conosciamo ormai da due anni e non c’è stato verso di convincerlo a darmi del tu. Anche quando faceva una fatica improba ad esprimersi in italiano, si ostinava a darmi dei lei e chiamarmi rigorosamente “signora”. Di lui non sapevo granché. Veniva a scuola di italiano, diligentissimo. Quando è arrivato, alla domanda “Quanti anni di scuola hai fatto al tuo paese”, ha risposto con un semplice “Jamais”. Mai andato a scuola. A giugno scorso è venuto a trovarmi in ufficio, un po’ emozionato. Non voleva farmi perdere tempo, ma ci teneva a farmi vedere il diploma di terza media, il primo titolo di studio della sua vita. Ora sta studiando per prendere la patente europea del computer e frequenta, da uditore, un istituto professionale per diventare meccanico. In quell’occasione, l’ho aiutato a compilare una domanda di ammissione a un corso professionale. Serviva un curriculum, allora gli ho fatto qualche domanda sulla sua vita lavorativa. Mi ha detto che faceva il domestico. “Per quanti anni hai lavorato?”, gli ho chiesto io. “Più di 10 anni”, mi ha risposto con la solita disarmante semplicità. Ho guardato la sua data di nascita. Non sono brava in matematica, ma lui adesso, dopo due anni trascorsi in Italia, ha circa 20 anni. Ciò significa che ne aveva 8 quando ha iniziato a “lavorare” da domestico. Qualche tempo dopo ci ha raccontato meglio di quando, bambino, era stato rapito dal suo villaggio da una milizia ed era diventato uno schiavo in una casa da cui solo molti anni dopo è riuscito a scappare avventurosamente. Questa stessa storia, incredibile anche per noi che pure per lavoro siamo consapevoli che queste cose succedono, Ch. ha accettato di raccontarla, giovedì, agli alunni di un liceo di Roma. A me, che l’ho conosciuto timido, sempre zitto, con gli occhi fissi a terra, questo sembra un piccolo miracolo. Ma ancora più importanti sono i miracoli che in questi mesi Ch. è riuscito a realizzare con il suo impegno costante e silenzioso, nonostante tutte le difficoltà. 

20/12/2004 – Aspettative
Nei mesi scorsi abbiamo organizzato degli incontri di orientamento al mondo del lavoro per richiedenti asilo e rifugiati. All’inizio abbiamo fatto compilare dei questionari molto semplici, per aiutarli a mettere a fuoco quello che si aspettavano da una settimana di attività insieme. Alcuni li ho tenuti. Sono scritti un po’ in italiano, un po’ in inglese. Una parte prevedeva delle frasi da completare. Ne riporto qualcuna

non sono sicuro… se l’autobus viene o no

non sono sicuro… che succedere per futuro

non so come… sarà mia vita in Italia

non so come… to parlare italiano

vorrei… sto bene

vorrei… koko [cioè co.co.co., contratto di collaborazione coordinata e continuativa]

cosa vuol dire…. l’espressione “ragazzi di colore”? perché non si può chiamare un africano “africano” invece di chiamarlo “ragazzo di colore”?

ho paura…. non ho paura di nulla. a parte la violenza

ho paura di… la vita.

25/5/2005 – Non sono mica stupido
Ieri parlavo con un uomo camerunese, ospite del centro di accoglienza dove lavoro. E’ stato uno dei colloqui più dolorosi che abbia mai sostenuto. Lui, che al suo paese ha studiato diritto internazionale, è assolutamente sconvolto del non-sistema che ha trovato qui. Non riesce a crederci, semplicemente. “Non sono uno stupido, io ho studiato, conosco i miei diritti”, continuava a ripetere. “Chi chiede protezione deve essere tutelato dal governo dello stato dove arriva, non può essere sbattuto qua e là, contando sulla buona volontà e la carità di pochi”. E’ talmente fuori di sé che ha deciso di ripartire. Per dove, non lo sa. Ho cercato di spiegargli che nessun altro paese d’Europa lo accoglierà e che alla fine sarà rispedito qui, in Italia, magari dopo aver perso altri anni preziosi. Lui mi ha guardato disperato e mi ha detto, articolando bene ogni sillaba: “In Italia non c’è niente per me. Andare via, anche morire, per me è meglio di questo niente”. Sono tornata a casa, ieri sera, vergognandomi profondamente di essere italiana.

28/7/2005 – Ripartire, in salita
Ha un sorriso splendido, contagioso. Una personalità travolgente, una vivacità irrefrenabile. Le è costato molto riaccendere quel sorriso: C. nel suo paese è stata torturata. Quando è arrivata in Italia, dove è stata riconosciuta rifugiata, era distrutta nell’anima oltre che nel corpo. E poi, una volta qui, suo marito l’ha lasciata. Se ne è andato a Bologna con una testimone di Geova. Quando frequentava il corso di formazione professionale dove l’ho conosciuta, sempre seduta al primo banco, sempre pronta a intervenire nelle discussioni, C. era rinata. “Ho qualcosa che dà un senso alle mie giornate”, raccontava. Anche i malesseri fisici che la tormentavano sembravano spariti. Ma adesso il corso è finito. E lei si sente di nuovo al capolinea. Non riesce a trovare un lavoro e per giunta non può fare lavori troppo pesanti, come conseguenza dei traumi subiti in patria. Di nuovo non riesce a immaginare un futuro. Ha solo 30 anni. E al suo paese, lontano, ha lasciato quattro figli.

25/9/2005 – Nuclei familiari
Ma allora è proprio un revival di via Zurla! Dopo aver incontrato Maimuna qualche giorno fa, ieri chi vado a incrociare scendendo dall’otto? Il signor Piri! Mai avrei pensato di rimpiangere quei mesi di lavoro ingrato, chiusa in un seminterrato a tu per tu con cumuli di lenzuola sporche e bacarozzi. Loro, gli ospiti, soggiornavano saldamente sopra la tua testa. Quando si dice che un centro di accoglienza è per “nuclei familiari” non si rende davvero l’idea. Nel bene e nel male. Oggi mi va di pensare al bene. Alle risate dei bambini che ti piombano in ufficio perché vogliono disegnare con il computer. Alle corse su e giù per e scale. Ai meravigliosi angoli di intimità che quelle porte, teoricamente sempre aperte, in realtà nascondevano. Alla fine non c’era una stanza uguale all’altra. Il signor Piri che tornava con le buste della spesa da Piazza Vittorio. La signora Piri che mi regalava lo yogurth fatto, incredibilmente, con il latte a lunga conservazione (mai credevo che fosse possibile). Le sfilate di moda in garage quando arrivavano in regalo dei vestiti. Le liste della spesa “straordinarie” quando c’erano compleanni e feste comandate delle più varie religioni. La domenica mattina, quando il giovane papà kossovaro si affacciava sulle scale con la sua bimba in braccio, tanto biondi e innocenti che alla fine tendevi a dimenticare che la bimba suddetta era solita lanciare giocattoli dalla finestra sulle macchine parcheggiate. Con il triciclo aveva quasi fatto secco un passante. Il piatto di ziginì con l’uovo che la signora Mohamed ti lasciava sul tavolo i pomeriggi di ramadan. E, ancora, il sorriso di Spresa, che non avrebbe mai lasciato, in fondo, quel violento di suo marito. E tutti lo sapevamo. Ma ciò non toglieva che avremmo tanto voluto un’altra vita per lei. Come per tutti gli altri. 

12/1/2006 – Unhappy ending
S. era sempre stato piuttosto magro, ma quando ha smesso di mangiare per giorni sembrava sul punto di crollare. Tutti i ragazzi del centro di accoglienza erano preoccupati. Lui era duro, inconvincibile e implacabile: voleva morire di fame. Alla fine non l’ha fatto. Io però sono sempre rimasta scossa dal lampo di dolore e di determinazione cocciuta che più di una volta ho letto nei suoi occhi scuri. Certo è una delle persone più sofferenti che mi sia capitato di incontrare. “Mica è stupido”, ha detto un giorno Ahmad. Certo che no. Il dramma spesso è più grave in chi è sensibile, intelligente. Quel fardello misterioso, che non ci è dato di decifrare. Più di tutto ricordo i suoi sorrisi dolorosi. Come era ovvio, non abbiamo potuto fare niente per aiutarlo. Forse è meglio che sia partito, mi dice – probabilmente a ragione – Riccardo. In fondo è tornato a casa. In Iraq.

6 pensieri riguardo “Rifugiati, istantanee”

  1. prima di tutto, grazie.
    ti giuro, mi sono emozionata molto leggendo questi racconti.
    quando ho letto del diploma di terza media mi e' venuto da piangere. sara' che oggi e' cosi', sara' che a me queste cose fanno male … ma io ho pianto con la pelle d' oca.
    non so perche' quell' episodio mi ha commosso piu' degli altri. forse perche' e' una cosa bella.
    scrivi ancora. ti prego.
    paola

    p.s. oggi davvero vorrei urlare al mondo che lo vorrei diverso. lo so, son sempre la solita idealista, ma e' cosi'.

  2. Allora ti farà piacere sapere che quel ragazzo si è diplomato a pieni voti anche al professionale e adesso lavora come meccanico, credo alla Citroen. A ogni festa possibile, religiosa e laica, mi manda un sms di auguri. Questo mi ha fatto ricordare che io, invece, non gli avevo fatto gli auguri per la festa musulmana appena trascorsa. Ho rimediato poco fa e lui mi ha appena risposto, puntuale come sempre: "Grazie mille ed un affettuoso abbraccio". Con tutte le doppie giuste e anche la d eufonica. 

  3. E’ stato davvero un piacere leggerti. Perchè non raccogli le tue esperienze in qualcosa di più organico?…insomma un libro.
    Gli italiani avrebbero molto bisogno di sentire raccontare storie così.
    deborah

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