Un meeting come ne ho visti molti: brainstorming, fogli appesi alle pareti, proposte di formulazione e dibattiti, parole chiave, obiettivi generali e specifici. Però io non riuscivo a staccare lo sguardo dalle mani del mio collega siriano. Dita lunghe, controllate, ordinatamente intrecciate sulla superficie del tavolo. E non smettevo di pensare: io starei gesticolando ininterrottamente da ore. Ma come cavolo fa.
Anche la voce è tranquilla. Spiega paziente, cartina alla mano, la complessa geografia siriana. Parla della tragedia quotidiana di tutti loro, lui compreso. Anche chi non è (ancora) stato costretto a lasciare la propria casa è comunque privo degli standard minimi: mancano pane, acqua, elettricità. Il gasolio e la benzina scarseggiano, si trovano solo al mercato nero al 1000% del loro prezzo. La moneta si è svalutata del 100% rispetto al dollaro. Le medicine sono introvabili: l’80% dei medicinali era prodotta nazionalmente, da fabbriche da tempo distrutte o comunque chiuse. In tutta la Siria settentrionale i medicinali per il cancro sono finiti. Non si trovano più neanche le medicine per la leishmaniosi cutanea: tipica di Aleppo, se non è trattata subito mangia la pelle, soprattutto del viso. E’ grave oggi che fa freddo, non si può immaginare che sarà con l’arrivo dell’estate e il parassita al massimo della diffusione.
E poi c’è tutto il resto. I combattimenti, l’odio che cresce, la sete di giustizia che diventa sete di vendetta, il collasso assoluto di qualunque forma di vita civile organizzata. “Abbiamo smesso di contare i morti”. Si scalda appena, Elias, quando ripete, più e più volte, che quello a cui i siriani non si rassegnano è l’indifferenza e il silenzio della comunità internazionale. Quando l’Università è stata bombardata il primo giorno di esami, uccidendo centinaia di studenti, i media del mondo non hanno ritenuto che fosse una notizia significativa.
Ma poi si ricompone. I rapporti delle Nazioni Unite parlano di crimini di guerra da una parte e dall’altra, puntualizza il corrispondente da Ginevra. “Certo. Tutti sono figli di questo regime. Tutti hanno torturato, tutti hanno ucciso. Ma la situazione è molto più complicata di come la dipingono questi rapporti”. “E’ bene”, sostiene Elias, “che l’opposizione sia diversificata: non vogliamo passare da una dittatura all’altra. Una Siria plurale e democratica, questo è il nostro sogno”. Il sogno di tante, tantissime persone, che rischiano la vita ogni giorno per resistere alla violenza.
“Non sottovalutateci”. I civili devono essere sostenuti, ma fanno già moltissimo. E ci parla ancora una volta dei loro team di volontari che arrivano dove le grandi organizzazioni non riescono a arrivare. E lo possono fare perché sono squadre miste, composte da siriani di ogni etnia e religione, divisi persino dalle idee politiche: sostenitori di Bashar al-Assad, attivisti convinti dell’opposizione. Parla dell’impegno di molti direttori della Mezzaluna Rossa locali, che non si tirano indietro, anche se il rischio è continuo. Ogni giorno tutti loro mediano, attraversano le linee, si conquistano con i fatti il rispetto delle due parti combattenti e la possibilità concreta di dare assistenza a tutti. “Anche la semplice distribuzione di un pacco di viveri può essere fatta in modo da contribuire a ricostruire un tessuto sociale di pace e riconciliazione”.
Ma la notte sembra ancora lunga, infinita. La rivoluzione è iniziata il 15 marzo 2011 e per sei mesi è stata assolutamente pacifica. I media, oggi, quando parlano di Siria, lasciano spazio solo agli estremisti. “Il mio popolo è così… semplice. Prima i conflitti si risolvevano con baci e abbracci. Davvero. Non si usava neanche tanto il tribunale. I capi famiglia si incontravano, si abbracciavano, si baciavano e finiva tutto lì”. Cosa servirebbe? Serve tutto, per carità. Aiuti, meglio se non strumentalizzati e partigiani. Prudenza e responsabilità nel descrivere quello che sta accadendo. Ma più di tutto servirebbe che finisca la guerra. Mentre ascoltiamo arriva la notizia di una bomba caduta nei pressi dell’ufficio del JRS a Damasco. “Stanno tutti bene”, commenta telegrafico il direttore internazionale.
Io continuo a guardare le dita di Elias e mi chiedo come si debba sentire a spiegare la sua vita come se fosse una semplice relazione di lavoro. Scegliere le parole in inglese, rispondere a obiezioni che forse suonano persino offensive. A volte, presa dal lavoro qui in Italia, tendo a dimenticare che essere con i rifugiati significa, di solito, vivere in mezzo alla guerra. E, più ancora, dimentico che non solo nei film si è chiamati a scelte di coraggio, decisive. Elias ha avuto con molta difficoltà il visto per venire qui in Europa. Neanche per un momento sembra aver pensato alla possibilità di restarsene qui al sicuro. Da un lato è ovvio. Ma poi ci ripenso e mi dico che non è ovvio. Affatto.
Grazie per aver dato voce e parole a una situazione molto spesso dimenticata, averla ricordata e fatta capire un pochino meglio,
Speriamo davvero che la guerra finisce, presto, il piu’ presto possibile.
Fra
Ma noi, in concreto, possiamo fare qualcosa?
Concretamente, ci sono sempre le donazioni: https://www.jrs.net/donate?LID=281&For=&Type=NA&L=IT Purtroppo per gli aiuti stanno stanziando molti soldi, ma non sempre sono usati in modo trasparente e utile. Sull’uso da parte del JRS mi sento di mettere la mano sul fuoco.
E poi, come sempre, cercare di informarsi e parlare: non lasciamo che si affermi solo la versione che dipinge la situazione in Siria come uno scontro tra un dittatore (però laico) e i cattivi fondamentalisti islamici con le barbe. Testimoniamo che questo popolo ha una forza, una ricchezza e una dignità che noi ce la sogniamo. Almeno questo.
Mi unisco alla domanda di Mammamsterdam e la allargo: i Siriani che cosa si aspettano dalla comunità internazionale? Ogni tipo di intervento mi sembra o dannoso (vedi le varie “missioni di pace”) o inutile (tipo condannare la guerra: non lo si è già fatto? gliene è importato qualcosa ai combattenti?).
Su questo secondo punto, posso solo riportare come riferiva il mio collega. I siriani sono feriti dall’indifferenza della comunità internazionale. Si sono sentiti usati dai media, che a loro dire hanno operato scelte poco responsabili e in mala fede del rappresentare, quando lo hanno fatto, il conflitto. Lui la diceva così: se qualcuno, dall’estero, può dire anche solo una parola per accelerare la fine di questa guerra, lo faccia. Rispetto agli aiuti umanitari, che servono disperatamente, che siano gestiti con trasparenza e imparzialità. Pare che non stia avvenendo sufficientemente.
nel mio piccolo, ti ringrazio e condivido sulla mia bacheca fb