Social Media Week Rome. Ebbene, c’ero anch’io. Cioè, più precisamente: ci sono passata, ho origliato, mi sono regalata un’oretta da spettatrice. Non ho resistito alla curiosità, diciamocelo. Mi ha aiutato molto la location dell’evento di oggi, a due passi dall’ufficio e nelle immediate adiacenze del bar detto “degli energumeni”, dove da anni consumo la mia pausa pranzo. Il tutto per dire che non me ne sono pentita affatto. E appunto qui un po’ di considerazioni in ordine sparso, tra il serio e il faceto. L’evento a cui mi riferisco, per la cronaca, è questo.
Prima considerazione, meramente formale. Oddio, che lingua è? Una selva di prestiti, più o meno motivati (a volte meno) dall’inglese o, più semplicemente,da gerghi vari. “Sharare non si può sentire”, ho avuto la soddisfazione di sussurrare all’unisono con un mio vicino di sedia, vistosamente più a mio agio di me, preso com’era nell’armeggiare disinvolto tra cinque o sei finestre di browser del suo I-pad (forse stava praticando il viral lift?). Nuovi orizzonti dell’ortografia si spalancano davanti ai nostri occhi: matchare o mecciare? sharare o scerare? e via così.
Affascinante, decisamente. Ma c’è di più di questo. Per me anche i concetti espressi sono materia nuova, sconosciuta, in cui mi orizzonto a naso e a intuizione. Confermo. Mi interessa il social. Non solo nel senso delle politiche sociali. Mi autodichiaro ufficialmente principiante autodidatta.
Poco dopo il mio arrivo, la mia attenzione è attirata da una frase del relatore di turno (si parlava dell’attività di un’agenzia immobiliare): “Noi ormai non prendiamo in considerazione candidature di persone che non abbiano almeno 150 amici su Facebook”. Prima deduzione logica: potrei fare l’agente immobiliare (ma chi ci pensava a mettere Facebook sul CV?). Seconda osservazione: ah, ecco perché tanti sconosciuti ti chiedono l’amicizia su Facebook. Magari aspirano a fare gli agenti immobiliari. Terza considerazione, più seria: fuor dalla celia e dal campo immobiliare, ora mi spiego meglio una riflessione come questa. Lavorare in qualità di blogger, oppure lavorare in quanto blogger? Non è affatto la stessa cosa e il confine tra lavorativo e privato è molto, molto labile. In fondo un discorso analogo vale per il “personal branding” e per la “digital reputation” di cui si è parlato in altri appuntamenti del programma (linko, per mia e vostra conoscenza, gli ottimi resoconti di Wonder su Vanity Fair). Interessante. Certo dà da pensare. Io talora mi sono googlata, confesso. I risultati ancora mi divertono più che impensierirmi.
Annoto qui, tanto per non dimenticarmelo, anche un interessante scambio di battute che ho avuto con una signora del pubblico in merito alla “radio del futuro”, evocata dal relatore di Radio Dimensione Suono. Concordo con la mia interlocurice. La radio non è solo musica. Il futuro della radio passa anche per una diversa valorizzazione dei contenuti e, magari, per la partecipazione dei fruitori alla produzione degli stessi. Non solo ai concerti dal vivo, ma anche in una sorta di recupero di quella dimensione rivoluzionaria, trasgressiva, del “fare la radio” negli anni ’70.
Ed è stata proprio la relazione sulla radio a illuminarmi sulla mia natura più profonda. Si parlava dei vari modi di fruizione e il relatore accennava alla coesistenza, in questa fase, di due categorie di fruitori: quelli digitali, che utilizzano le nuove tecnologie a colpi di i-phone, i-pad e compagnia bella; e quelli “analogici/nostalgici”, che ancora ascoltano la radio in macchina o addirittura con il tuner classico. E mentre mi vedevo fischiettare “Amore impossibile” nella nostra Ford Focus SW di seconda mano, improvvisamente ho realizzato: oddio, ma sto prendendo appunti a penna su un blocchetto! Intorno, i-pad, i-phon e i laptop di qualche dinosauro. Sono analogica, eccome. Nostalgica forse no, non sempre (anche se passando davanti a quel che resta dei telefoni a scheda dell’Università da cui telefonovo a casa i risultati degli esami, dopo 35 minuti abbondanti di fila, ho sospirato). Ma analogica decisamente sì.