La scuola italiana. Com’è, come la vorrei

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Titolo: La scuola italiana. Come è, come la vorrei.

Svolgimento: Premetto che vengo da una famiglia di militanti della scuola pubblica. Mia madre più che un'insegnante di liceo era una figura mitologica, una sorta di leggenda metropolitana. "La Peri". Docente di italiano e latino al liceo classico, dedita alla causa, ogni giorno per 40 anni ha passato il pomeriggio a prepararsi le lezioni . La prendevamo in giro, qualche volta. "Ancora non hai imparato quello che ripeti da trent'anni?". Lei su questo non era tanto disposta a scherzare: "Sono diversi gli studenti, è diversa la lezione". Li aveva davvero presenti uno per uno, le interessavano. Anni dopo mi confessò che, avendo studiato da giovane grafologia, correggere i temi per lei era un osservatorio privilegiato. Una cosa era chiara per lei: le scuola pubblica significa dare a ciascuno delle opportunità concrete, reali e pertanto commisurate alla sua personalità e al suo talento.

Dare a ciascuno, per mia madre, significava soprattutto "a prescindere da vantaggi e svantaggi legati alla nascita". Ai suoi tempi l'elemento di discriminazione consisteva soprattutto nel background culturale. Raccontava spesso di alunni brillanti, quelli che le stavano maggiormente a cuore, che non avevano mia visto un libro a casa. Mia madre faceva le sue preferenze, come è umano. Ma uno dei valori che più aveva a cuore e che riteneva oggetto di insegnamento era la giustizia. Certo, magari una giustizia più vicina a quella che poi ho ritrovato in una frase di don Milani, citata spesso dal mio primo datore di lavoro gesuita: "“Nulla è più ingiusto che fare le parti uguali fra disuguali”". Ma detestava quando i colleghi mischiavano questioni di "morale" nella votazione: se un ragazzo che non studia mai un giorno studia e si merita 8, non è legittimo mettergli 6 e mezzo "perché così capisce che si deve studiare sempre". Se un ragazzo che si impegna moltissimo arriva solo a 6 e mezzo, non gli fai un favore a mettergli 8 "perché è tanto diligente". Mia madre metteva sempre i voti veri, nella loro crudezza. Poi però si prendeva il tempo e l'occasione per parlare con gli interessati. Perché il fine non è il voto, ma imparare qualcosa (anche e soprattutto quello che non è stampato sul libro di testo).
Anche allora la scuola era una lotteria. Io, nello stesso istituto in cui insegnava mia madre, ho incappato in insegnanti di ben altro spessore. Però- e qui sconfino nella "scuola che vorrei" – a casa si esercitava del sano senso critico (sempre), ma i miei genitori stavano ben attenti a non denigrare davanti a noi figlie i nostri professori. Certo, ci supportavano e cercavano – se indispensabile – di colmare le lacune (ma io non ho mai saputo nulla di letteratura italiana e di latino e mia madre ha saggiamente convissuto con questa cosa senza tagliarsi le vene). Ma non ci hanno mai fatto intendere che la scuola fosse una barzelletta, un ostacolo da aggirare con furbizia, una seccatura di cui liberarsi.
Io vorrei una scuola dove i genitori (magari aiutati dal fatto di non essere i finanziatori unici dell'istituto) sappiano ritrovare il loro posto e il loro ruolo. Che non è quello di fare i sindacalisti (nel senso deteriore) dei propri figli. Che non è quello di imporre sempre e comunque il proprio gusto, la propria volontà, il proprio potere, i propri capricci. Sono un po' dura, mi rendo conto. La partecipazione delle famiglie è una bella cosa, potenzialmente positiva. Ma la scuola non può essere una fornitura di utenze, dove qualcuno può sbattere i pugni sul tavolo e dire "pago, pretendo". Vedo troppi genitori comportarsi così, in nome di presunti "principi" e "valori" che raramente vanno nella direzione del "bene comune".
Vorrei una scuola pubblica che sia (o forse torni ad essere) una comunità di apprendenti, un progetto comune, un contributo concreto al consolidamento dei valori del nostro Paese. No, non sto pensando alle "radici cristiane" e ai crocifissi nelle aule (o qualunque altra etichetta, è indifferente). Quello che ho in mente è piuttosto un'occasione di condividere un percorso con altri membri della comunità, di trarne beneficio personale (com'è giusto che sia), ma anche di curare quell'ampliamento di orizzonti che dovrebbe essere tipico di un contesto educativo. Ho visto con i miei occhi, ad esempio, che le diversità possono essere davvero occasioni, non ostacoli. Certo, bisogna uscire dalla retorica (sia da quella dell'esclusione sia da quella, superficiale e buonista, del "volemose bene") ed essere davvero, seriamente creativi nelle soluzioni quotidiane. Prepararsi le lezioni tutti i giorni, se sei un insegnante (e magari non farlo solo sulla propria scrivania, come faceva mia madre – che pure non disdegnava l'organizzazione di cineforum e l'uso di altre forme di didattica – ma anche insieme ad altri, in contesti diversi). Se si è un genitore, supportare, proporre, ma anche fare lo sforzo, nonostante i tempi disumani a cui si è costretti, di uscire dalla propria consolidata prospettiva e magari modificare le proprie aspettative, alla luce di obiettivi nuovi e non considerati prima. Se si è studenti, credere al valore della scuola, affezionarsi, criticarla in modo costruttivo, viverla.

Concludo condividendo (di nuovo) un brano di un discorso stupendo sull'educazione che ho sentito dall'attuale Padre Generale della Compagnia di Gesù, Adolfo Nicolás : L’educazione consiste proprio nell’aprire tutte le finestre nella mente di un bambino, di un ragazzo e di una ragazza che crescono e hanno il diritto di diventare sensibili a tutte le realtà umane e naturali del mondo. Aprire, comunicare abiti mentali, del cuore e culturali all’insegna della varietà: così potremo educare persone flessibili, aperte, che non si spaventano per qualcosa di nuovo, di diverso, ma sono pronte ad apprezzare tutte le possibilità umane. Credo che questo lavoro di aprire le finestre della personalità, della mente, del cuore sia essenziale. Credo che dobbiamo arrivare a far sì che i nostri studenti italiani, spagnoli, tedeschi, siano fieri della cultura cinese, o della cultura indiana o africana, per il solo fatto che esse sono una produzione dell’umanità. Non dovremmo più considerarle “cultura degli altri”. Essere fieri di una cultura piccola e ridotta ci ha fatto molto male: credo che sia frutto di un’educazione troppo limitante. C’è decisamente bisogno di una riflessione ad alto e medio livello da parte delle università e di altri gruppi religiosi e umanisti per restituire ai bambini la libertà di immaginare e di crescere, di essere quei “maghi” che dicevo prima, capaci di creare. Quando ero bambino, non avevamo niente, i giocattoli li costruivamo noi. La strada era una grande palestra e apparteneva a tutti.  Oggi con tanti giochi elettronici c’è meno la ossibilità di partecipare, di scambiare e di creare. Forse abbiamo reso tutto troppo facile ai nostri bambini. E come educare  una memoria mondiale? Come portarli a essere fieri degli indiani e dei cinesi  – non tristi, ma fieri perché è l’umanità che ha creato questo? Dobbiamo essere fieri degli altri e, di conseguenza, fieri di noi stessi, ma sempre nel contesto degli altri, per crescere insieme con gli altri. Secondo me, questo è un problema di educazione, che necessita di una seria riflessione. Bisogna ricreare l’educazione come un’opportunità per i bambini di crescere come persone, non dipendenti da una tecnologia particolare, ma libere di creare. Ci sarà tempo per diventare tecnici: prima di tutto è urgente aprire la  mente e il cuore alle infinite possibilità della vita umana.

Il discorso completo, più ampio, lo trovate qui.

8 pensieri riguardo “La scuola italiana. Com’è, come la vorrei”

  1. La PERI è stata la mia Insegnante del liceo di Italiano… è vero è e resta un mito. Studiare e capire Dante con lei è stata un'esperienza, come anche il novecento. Unica!

  2. La PERI è stata la mia Insegnante del liceo di Italiano… è vero è e resta un mito. Studiare e capire Dante con lei è stata un'esperienza, come anche il novecento. Unica!
    Maria Gabriella Delfino

  3. grazie chiara, un bellissimo post che sprime con forza quello a cui tutti il discorso di nicolas è profondo e rivoluzionario e a dsitanza di anni mi stupisco e non mi stupisco che i discorsi più essenziali e fuori dalle righe vengano da  gesuiti, preti di strada e matti.

  4. Anch'io ho conosciuto "la Peri", ma solo di fama, perchè ero nella classe accanto (però ho fatto con lei una gita a Firenze).
    Questo post tocca un tasto particolarmente delicato per me, che oggi esco da un "laboratorio" con una classe di bambini che hanno avuto la sfortuna di avere una insegnante incapace di gestirli e incapace di gestire se stessa… ecco, questa è una delle condizioni che creano disuguaglianza e che la scuola dovrebbe cercare di risolvere. E' stato triste andare via e chiedermi a cosa sia servito il mio lavoro lì, e soprattutto pensare che quei bambini, pieni di potenzialità, abbiano già le finestre chiuse, come nel brano che citi nel post.
    Poi, totale condivisione delle tue idee sui genitori invadenti e criticoni, che avviano i figli ad una vita da cannibali.
    Anna

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