Certi giorni, tipo oggi, mi sento come se si fosse rotto qualcosa nel meccanismo che regola le mie giornate. Non riesco a smaltire le piccole delusioni, i contrattempi, le paturnie di poca importanza. Si accumulano. E con loro si accumulano anche le cose da fare che non riesco a gestire con efficienza. Senza una ragione precisa mi ritrovo a un certo punto ad avere smarrito anche il senso di quello che cerco di fare. Continuo ovviamente a farlo. E’ il mio lavoro. E’ anche il mio lavoro? Forse il problema sta in quell'”anche”. Sono abituata a trovarci di più, nelle mie giornate lavorative. Il di più che non può sempre esserci. Il di più che, obiettivamente, non può interessare a tutti. Il di più che a volte è solo troppo.
In tram, tornando a casa, mi ha assalito una specie di magone, che si è alzato come una nuvola di polvere dai miei passi. Cerco di distrarmi con telefonate “di servizio”. Una di queste evoca alla mente un’immagine precisa. Un uomo di mezza età, occhi chiari, passo deciso. Borbotta sempre tra sé. A volte addirittura impreca. Passa e ripassa, in questi anni, davanti al negozio di Nizam. Una volta, lo ricordo come ora, in piena estate Nizam rovesciava secchiate di acqua (pulita) sull’asfalto davanti all’ingresso per pulirlo e rinfrescarlo. Uno schizzo d’acqua arriva sui pantaloni di lui, che si sta avvicinando come sempre a gran velocità. Scenata violenta, parolacce, bestemmie. Poi si allontana. Ecco, oggi quest’uomo si è tolto la vita.
Torno a pensare che la sofferenza ci sta intorno e ci assedia. I miei amici a volte ritengono che io, per lavoro, ne intercetti di più. Non credo che sia poi così vero. Forse la differenza sta nel fatto che da noi le persone cercano di farsi ascoltare, il più delle volte. Nella vita normale, invece, la sofferenza vera si cerca di non dirla. E tanto meno di ascoltarla.
La sofferenza se la si vuole vedere la si vede ogni giorno a ogni ora. Sull’autobus la mattina vedo occhi, vedo sguardi, vedo rughe, vedo anche un po’ di follia. Io lavoro vicino a Via Veneto, insomma dovrebbe essere una specie di Financial District, ma vedo tanta sofferenza. Barboni di cui conosco ormai la storia, barboni che non vedo più e temo per loro, folli con cappello in testa anche in piena estate, ci metto pure un gabbiano reale a piazza Sallustio (davvero, non scherzo). Se si aprono gli occhi, c’è un mondo parallelo. Io non sempre riesco a tenerli aperti questi occhi, non ce la faccio. A volte, colpevolmente, cambio strada perché sono in ritardo e non posso permettermi quelle quattro chiacchiere con l’abitante di turno del marciapiede che ormai mi conosce. E mi sento in colpa. Ho la presunzione che quelle due parole scambiate in un italiano sgangherato possano dare un conforto. Tu sicuramente hai una grande esperienza, io sono solo una come tante, ma credo sia una questione di sensibilità, al di là del lavoro che si fa. Mi ricordo anni fa una barbona a Via Veneto, tedesca, che mi parlava di oiro (euro in tedesco) e ci siamo messe a chiacchierare di Lebkuchen e di quanto fosse toiro questo oiro (gioco di parole tedesco: teuer in tedesco vuol dire caro e si pronuncia toier). La morte per mano propria è uno schiaffo. A me è capitato che un amico di una mia amica si sia suicidato e mi sono sentita terribilmente in colpa perché ogni volta che veniva a Roma lui mi cercava e io mi negavo perché temevo le sue avances. Forse anche io ho causato la sua disperazione. Non lo saprò mai, ma ogni tanto penso a lui e alla sua disperazione.
Scusa la prolissità, hai toccato un tasto per me sensibile. Però mi permetto di aggiungere che credo sia un po’ fastidioso questo alibi del dire che siccome ti occupi di queste cose allora ecco sì che sei più toccata. Grazie al cavolo, e la sensibilità degli altri dove sta di casa?