Claudia mi sfida e io non posso che raccogliere il guanto. Un guanto che mi immagino multicolore e certamente creato da lei stessa. Fuor di metafora: “quand’è l’ultima volta che hai ballato?”, mi chiede Claudia alla fine di questo video.
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Io ballo abbastanza spesso, con la mia piccola Guerrigliera, ma non è a queste danze in cucina che correva la mente ascoltando questo racconto di viaggio. La prima cosa che mi è tornata in mente sono tre frammenti di un altro diario, il mio.
24/09/2004 – Bonne chance
Oggi ho saputo che Bertrand andrà a Vicenza a cercare lavoro. Sono contenta. E’ una delle molte persone che sono stata particolarmente felice di incontrare. Veniva alla scuola di italiano del Centro Astalli e mi ricordo che lo prendevo in giro per il suo modo molto francese di dire “presente”: il suo insegnante Massimo non riusciva a correggerlo e in fondo non ci si applicava molto, perché il suo irrefrenabile senso estetico si compiaceva di quell’accento tanto “chic”. Bertrand una volta mi ha raccontato del lavoro che faceva in Camerun: per molti anni è stato guardia forestale, girava per i parchi naturali del suo paese e faceva azione di sensibilizzazione nei villaggi per scoraggiare i bracconieri. Una vita da film, di cui parlava con gli occhi accesi di entusiasmo e nostalgia. Appena lo hanno riconosciuto rifugiato è andato di corsa a respirare un po’ di Africa, come un pesce fuor d’acqua: non in Camerun, naturalmente, dove non potrà tornare più, ma in Togo, dove ha anche una parte della sua famiglia. E’ tornato con buste di bellissimi vestiti dipinti a mano, una pennellata d’Africa per i suoi amici romani. Il giorno dopo avermi regalato il mio è tornato in ufficio preoccupatissimo: “Non lo mettere in lavatrice!”. Ora se ne va al nord, in cerca di un lavoro e di una vita tranquilla. Parte con il suo sorriso buono e le sue camicie colorate. Speriamo che non abbia troppo freddo.
25/5/2005 – Non sono mica stupido
Ieri parlavo con un uomo camerunese, ospite del centro di accoglienza dove lavoro. E’ stato uno dei colloqui più dolorosi che abbia mai sostenuto. Lui, che al suo paese ha studiato diritto internazionale, è assolutamente sconvolto del non-sistema che ha trovato qui. Non riesce a crederci, semplicemente. “Non sono uno stupido, io ho studiato, conosco i miei diritti”, continuava a ripetere. “Chi chiede protezione deve essere tutelato dal governo dello stato dove arriva, non può essere sbattuto qua e là, contando sulla buona volontà e la carità di pochi”. E’ talmente fuori di sé che ha deciso di ripartire. Per dove, non lo sa. Ho cercato di spiegargli che nessun altro paese d’Europa lo accoglierà e che alla fine sarà rispedito qui, in Italia, magari dopo aver perso altri anni preziosi. Lui mi ha guardato disperato e mi ha detto, articolando bene ogni sillaba: “In Italia non c’è niente per me. Andare via, anche morire, per me è meglio di questo niente”. Sono tornata a casa, ieri sera, vergognandomi profondamente di essere italiana.
28/7/2005 – Ripartire, in salita
Ha un sorriso splendido, contagioso. Una personalità travolgente, una vivacità irrefrenabile. Le è costato molto riaccendere quel sorriso: C. nel suo paese è stata torturata. Quando è arrivata in Italia, dove è stata riconosciuta rifugiata, era distrutta nell’anima oltre che nel corpo. E poi, una volta qui, suo marito l’ha lasciata. Se ne è andato a Bologna con una testimone di Geova. Quando frequentava il corso di formazione professionale dove l’ho conosciuta, sempre seduta al primo banco, sempre pronta a intervenire nelle discussioni, C. era rinata. “Ho qualcosa che dà un senso alle mie giornate”, raccontava. Anche i malesseri fisici che la tormentavano sembravano spariti. Ma adesso il corso è finito. E lei si sente di nuovo al capolinea. Non riesce a trovare un lavoro e per giunta non può fare lavori troppo pesanti, come conseguenza dei traumi subiti in patria. Di nuovo non riesce a immaginare un futuro. Ha solo 30 anni. E al suo paese, in Camerun, ha lasciato quattro figli.
La parte che tocca a me, per lavoro, la parte che mi sono scelta, ha qualcosa in comune con l’esperienza di Claudia, ma è anche diversa: io quelle stesse persone le incontro qui a Roma, tra piazza Venezia e l’Aventino. Sono fortunata: niente valige, niente jetlag. Basta aprire gli occhi e le orecchie. Purtroppo, a differenza di Claudia e della missione Unicef che accompagnava, io sono molto spesso a mani vuote.
E la danza, mi direte voi? Si danza, si danza eccome. Anche qui, tra i rifugiati che ripartono da zero. Una delle esperienze più intense della mia vita è stata una sera di Newroz al centro Ararat, ritrovo dei profughi curdi a Roma. La notte del 21 marzo su una immensa mappa del Kurdistan disegnata sull’asfalto erano stati accesi molti falò. I ragazzi ballavano in cerchio, in un movimento crescente che trascinava chiunque fosse presente. Abbiamo ballato senza respiro, pestando i piedi con forza, buttando giù di tanto in tanto un bicchierino di tè nero bollente. Mi piace pensare che l’energia di quella sera abbia cambiato il corso della mia vita. Una danza che non è solo intrattenimento, una danza politica.
Quella sera di tanti anni fa credo di aver imparato una cosa: quando le cose importanti si riesce a farle ballando insieme hanno un impatto inimmaginabile. E’ raro, però: quando si è in molti è difficile trovare il ritmo comune. Ci vorrebbe un miracolo. Uno di quei miracoli quotidiani che in tante parti del mondo ancora accadono e in cui noi sembriamo non credere più.
Quando è finita la prima guerra mondiale, mio bisnonno con gli altri uomini si sono chiusi nella sala e hanno ballato il saltarello. Ma questo lo sai. Ecco, mi ci hai fatto ripensare.
Una volta, un po’ di tempo fa, tu hai scritto su FB: vedo che in tanti mi leggete, ma commentate poco. Io sono tra questi.
Ti leggo, ma veramente non so che dire. Da quando ti frequento e ho letto il vostro libro la mia percezione del fenomeno rifugiati/barconi è drasticamente cambiata, eppure continuo a sentirmi impotente.
E’ l’Europa (se esiste) e la politica (idem) che devono finalmente iniziare a gestire queste persone (stavo per scrivere problematiche) con dignità. Mica solo quella degli altri, ma anche personale.
Veronica, a me già pare un risultato che la tua percezione sia cambiata. Come cambia la mia, quando ho l’opportunità di accostarmi a temi che non conosco e su cui scopro di aver avuto idee preconcette. Prima o poi la consapevolezza torna buona, secondo me. E’ un po’ come il viaggio di Claudia, secondo me. Non si può pretendere che cambi la vita a nessuno, neanche a lei, ma può cambiare la testa. E’ da lì che parte tutto, in fondo.