Se fino a ieri mi avessero chiesto, così su due piedi, di collocare Goma su una carta geografica avrei esitato molto (e probabilmente avrei sbagliato). Questa città del Nord Kivu, una regione del Congo orientale, è stata ieri occupata da un gruppo di ribelli. E’ uno degli episodi di un conflitto che dura da 15 anni, a cui non sono estranee le straordinarie ricchezze del sottosuolo della regione (tra cui il tantalio, un minerale di cui si fa largo uso per le moderne tecnologie, dai telefonini ai computer).
Da Goma, qualche giorno fa, è stato evacuato il mio collega Danilo, che da tempo lavora per i progetti del JRS nella regione dei Grandi Laghi. I civili fuggono, ma bambini, anziani, disabili e malati restano drammaticamente indietro, abbandonati a loro stessi e in balia della violenza degli scontri.
Un particolare mi ha colpito, del racconto di Danilo (pubblicato integralmente sul sito del JRS): da quando la maggior parte del personale del JRS è evacuato dalle zone più instabili, i team non sono in grado di rispondere a domande sulla sorte di donne, uomini e bambini che non sono riusciti a fuggire. Sono i più deboli, i più fragili, gli anziani, i disabili, i malati. Proprio quelli che maggiormente avrebbero bisogno di essere protetti. E che invece, nella selezione spietata della disperazione, sono stati lasciati dov’erano.
“Sono sopravvissuti ai combattimenti di ieri? Hanno trovato un riparo per proteggersi dalle piogge tropicali che sono comuni nella regione in questa stagione? Hanno trovato qualcosa da mangiare e le medicine di cui hanno bisogno? È terribile, ma semplicemente non lo sappiamo”.
E’ un dettaglio piccolissimo di un quadro grande, mi rendo conto. Un quadro che coinvolge centinaia di migliaia di persone, che non hanno diritto a una menzione nei nostri telegiornali. Il Congo non è la Terra Santa di nessuno. Però io queste domande senza risposta oggi non riesco a togliermele dalla testa.
sto leggendo terre senza promesse (chissa perché avevo scritto senza frontiere?) la mattina in metro, e dopo ogni storia mi devo fermare perché non riesco a passare subito alla successiva, ho bisogno di soffermarmi.
riallacciandomi al post sotto, gli aiuti e le associazioni servono tantissimo, ma io ho l’idea che ci sia anche (non solo ovviamente) una cosa molto più semplice che fa parte del mio dovere di cittadina e che se fatta bene può essere più risolutiva di qualsiasi altra cosa: andare a votare.
tu cosa ne pensi? immagini un tempo futuro in cui non ci sarà più questo tremendo bisogno che le associazioni si sostituiscano allo stato o non ci credi più?
non è una domanda provocatoria. è che a volte mi scervello pensando a quale sia la maniera migliore e più concreta di aiutare (che non siano i 2 euro al suonatore di organetto per intenderci) e non trovo una risposta.
un saluto da bruxelles.
Che penso? Che naturalmente le associazioni non dovrebbero sostituirsi allo stato, men che meno per accogliere i rifugiati, che sono senza alcun dubbio competenza dello stato. Se non credessi più che ci sarà un futuro di maggiore giustizia non potrei lavorare. Purtroppo quello che vedo oggi, in Italia, è supremo disinteresse della politica per questo tema (e spesso e volentieri imbarazzante incompetenza). Fa parte della miopia provinciale in cui siamo immersi fino al collo. Quindi ovviamente votare si deve, ci mancherebbe. Ma comincio a credere che sia parte del nostro dovere di cittadini anche agire come società civile, come famiglie, come singoli. Concretamente. Per esempio informandosi, parlandone. Non si tratta di “fare la carità”. Per me giustizia è la parola chiave: cercare di vedere le cose in un’ottica più ampia e di interpretare scelte politiche e quotidiane come lo strumento che abbiamo per cambiare le cose. (Non la trovo neanche io la risposta, che si nota?)