“Tu parli sempre da sola”. Una frase buttata là in una telefonata mi rimbomba dentro come la chiamata dell’ascensore nella chiostrina del palazzo dei miei genitori. Un botto subito, poi una lunga vibrazione metallica prolungata fino allo schianto finale della cabina ferma al piano. E poi via di nuovo, nella stessa successione ipnotica.
Sempre no, magari. Cerco di essere giusta. Però spesso. Azzarderei a dire sempre più spesso. Mi sopravvaluto? Penso che tutto ruoti intorno a me? Sono incapace di ascoltare?
Forse, più banalmente, ho fame di parole. Soffro il silenzio. Quando ero in maternità e restavo sola a casa per giorni, di tanto in tanto esplodevo. Nizam, registrata questa mia stranezza, ogni tanto telefonava: “Tutto bene? Hai parlato con qualcuno oggi?”.
Oggi tocca soprattutto ai miei nuovi colleghi di sorbirsi i miei sproloqui. Era tanto tempo che mi tenevo dentro riflessioni, pensieri, dubbi. Molto meno di prima si può conversare serenamente di rifugiati senza mangiarsi il fegato o sentirsi intorno un silenzio imbarazzato. Non mi ero resa conto di quanto mi mancasse ragionare a voce alta.
Quando me ne rendo conto spesso è troppo tardi. Il pippone è partito. Loro ancora giurano che no, per carità, è tutto molto interessante. Ma sono sicura che se trovassi più spesso il modo di farmi una salubre chiacchierata fuori dell’orario di lavoro non ne sarebbero dispiaciuti.