Ieri pomeriggio, verso le 14, mi è venuta voglia di suonare la chitarra. Meryem tempo fa mi ha chiesto di insegnarle qualche accordo e in qualche modo mi ha richiamato alla mente le ore passate a strimpellare da sola, specchiandomi sul dorso lucido della mia Ibanez.
La chitarra è rimasta la stessa. Ora, a differenza di allora, ha una custodia trasportabile: lascito degli anni in cui l’ho prestata a mio nipote Luca. Se ripenso a quella enorme, pesante, rigida che mi sono trasportata in Grecia, in Trentino, in Jugoslavia (che allora si chiamava così) mi viene da sorridere. L’arte di complicarsi la vita.
Ieri ho riesumato anche il libretto dei testi di Bruce Springsteen, comprato nel 1986. A 14 anni non compiuti, esattamente l’età di Meryem adesso. Su alcuni testi ho appuntato gli accordi a matita. Una volta li sapevo a memoria, oggi devo leggerli di nuovo.
Ho iniziato a cantare Independence Day, quella brutale fotografia di un rapporto padre figlio, scarna e vera, senza grandi introspezioni. E a un certo punto mi sono messa a piangere come una scema. A quel punto ho realizzato che ieri, per la prima volta, non mi sono identificata con il figlio, ma con il padre.