Stamattina ascoltavo un po’ distrattamente il messaggio augurale del Rabbino capo Di Segni alla fine dello Yom Kippur e mi hanno colpito due frasi, persino un po’ banali e didascaliche, sul significato della festa. “Kippur è il giorno nel quale ciascuno deve completare un esame di coscienza che mette in discussione le scelte sbagliate fatte fino a quel momento. Nessun danno è irreparabile, nessuna colpa lascia una macchia perenne”.
Ho realizzato di colpo che questo concetto per me è sempre stato problematico e so anche perché, anche se ormai si supporrebbe che dovrei non esserne condizionata. Mio padre da piccola mi diceva sempre (o almeno così pare a me, magari me lo ha detto solo una volta in un momento di stizza o di sconforto, vai a sapere) che chiedere scusa è inutile, tanto ormai il danno è fatto.
Io ho sempre sinceramente creduto di essere pronta a perdonare e a dimenticare qualunque cosa, ma sotto sotto so che non è così. Ci sono episodi che ho percepito come torti nei miei confronti che non ho mai dimenticato e che in qualche misura hanno cambiato la storia di alcune mie relazioni (me ne viene in mente almeno una). Ma soprattutto ci sono cose fatte da me che ritengo irreparabili e da questa sensazione non riesco a liberarmi. Me ne sento addosso proprio la “macchia perenne”, per usare le parole di Di Segni.
È un po’ triste soprattutto pensare che, nonostante le dichiarazioni di intenti, non sono poi così capace di rimettermi in carreggiata, anche quando ho il sospetto di aver sbagliato. Più precisamente, se sono convinta di aver sbagliato mi lancio in scuse epocali, persino esagerate. Ma se non sono pienamente convinta, la strada non riesco a trovarla. Prevale quella sensazione di irrimediabile, di mancanza di speranza, che finisce per troncare ogni dialogo sul nascere.
Non ne vado fiera. Vorrei credere che nessun danno è irreparabile. A tratti vorrei anche essere quella che lo ripara, quel danno. Forse non ho abbastanza fede. Anzi, togliamo pure il forse.