Durante questi 15 giorni senza computer ho immaginato molti post, che forse un giorno scriverò. Uno profondo e poetico sul femminino sardo, sacro e profano. Diversi scanzonati, almeno un paio esasperati. Ma sono state belle vacanze e, in quanto tali, hanno comportato riposo e stacco della spina. Quindi non ho fatto nulla di tutto ciò e non ho neanche abbozzato un romanzo in stile Allende sul soggiorno delle Peri a Santa Maria Navarrese.
Una piccola cronaca del ritorno mi sembra il modo migliore di rompere il ghiaccio. Se il vostro Ferragosto non è stato granché, leggere questo racconto vi tirerà su. Premetto che nessuno muore dalla voglia di mettere fine a una vacanza riuscita e che dunque la partenza in sé non dispone all’allegria. Se poi la partenza comporta un imbarco Tirrenia, con presumibile arrivo alle 11 del giorno di Ferragosto… beh, cosa potevamo aspettarci di buono? L’imbarco era previsto per la mezzanotte circa, la nave sarebbe dovuta arrivare da Cagliari a Arbatax, per poi salpare verso Civitavecchia. Il programma prevedeva cena dai Foddis, finalizzata ad annegare nel cibo e nell’alcool i dolori della separazione (chi sono i Foddis? se scriverò un resoconto un po’ più sistematico lo saprete nelle prossime settimane: vi basti sapere che il piatto forte della cena era una pecora bollita, sminuzzata con cesoie da giardinaggio); accompagnamento a Arbatax dell’equipaggio 1 (io, Nizam, un nipote e un compagno del nipote medesimo); partenza per Olbia dell’equipaggio 2 (mia sorella con l’altro figlio e il marito) da dove un’altra nave Tirrenia partiva alle 8, sempre alla volta di Civitavecchia.
Fino all’abbuffata, tutto nei programmi. Breve discussione tra me e mia sorella sull’opportunità di indugiare o meno per recarsi al porto. Ci avviamo con una seconda macchina, onde evitare il doppio tragitto (la Uno, mitica navetta della nostra villeggiatura, ha posti inesorabilmente limitati), grazie alla disponibilità di un’amica indigena. Ci intoppiamo nelle bancarelle, ci perdiamo nell’area industriale di Tortolì… e poi arriviamo, in anticipo ma non troppo. Già gongolavo per la mia previdenza nell’anticipare i tempi, ma in realtà avevo torto marcio. C’era tutto il tempo del mondo. Avremmo potuto dare un’imbiancata all’appartamento, per dire. La nave portava tre ore di ritardo. Ci accampiamo alla meglio nella macchina che l’amica ci lascia a disposizione, mentre l’equipaggio 2 si riavvia verso nord. Tre ore, tra mezzanotte e le tre, sono tante, infinite. Come Dio volle, mentre mia sorella scopriva che le chiavi dell’appartamento da chiudere si erano misteriosamente volatilizzate, la nave arriva. Cerchiamo le nostre poltrone, ci sistemiamo alla meglio. Meryem vuole che le racconti favole su favole. Io, incastrata sul pavimento in posa plastica, faccio quello che posso. La notte passa alla meno peggio. Ma seguirà una lunga, lunghissima mattinata. Dei “giovani” perdiamo le tracce e, con loro, della borsa frigorifero.
A un certo punto, miracolo, il porto spunta all’orizzonte. E’ quasi l’una. Il campo telefonico si riattiva. Il mio cellulare squilla. Mia sorella, partita da Olbia in orario, mi segnala che la loro nave ci sta raggiungendo. Scherziamo. Ridiamo. Ma poi, con un certo raccapriccio, scopriamo che è davvero così. La “Nuraghes” ci affianca, ci supera e si infila nel porto prima di noi. Anche perché la nostra nave si ferma. Altoparlante: “A causa dell’intenso traffico, siamo in attesa di ricevere l’autorizzazione ad entrare in porto”.
Incassiamo, non troppo sportivamente in realtà. La nave resta in lento galleggiamento per una mezzoretta, sotto il Solleone. Sbarcando Meryem fa il diavolo a quattro, vuole essere portata in braccio, non collabora. “Voglio zia Vittoriaaaaa!!!”. Appunto. In qualche modo, saltiamo sulla navetta per la stazione. Appuriamo che i giovani, che sbarcano dopo di noi, saranno prelevati dai rispettivi genitori in macchina. Vabbé, almeno siamo già sulla navetta. Noi siamo furbi e informati, in men che non si dica saremo sul treno. Errore. A Civitavecchia il 15 agosto ci sono le bancarelle della festa. La strada è chiusa. E’ l’una e uno sparuto gruppetto arranca sotto il peso di bagagli e guerrigliere per il chilometrino, tutto esposto al sole, che porta alla stazione. “Guarda, a piedi vanno solo gli extracomunitari”, mi fa notare caustico Nizam, additando i nostri variopinti compagni di sventura. E perché, noi cosa saremmo?
Sbarchiamo a casa, fortunatamente raccattati da sorella pietosa a Stazione Trastevere, intorno alle 16. Non mangiamo e non beviamo praticamente dalla pecora dei Foddis. Del resto, è pur sempre Ramadan.
gran bel finale!!alessia
quella della nave che ne supera un' altra e' troppo bella.poi, senti … la pecora riempie. solo che io non ne posso piu' di sentir parlare di pecore: tra quelle che ho a casa e quelle che ho visto in scozia, giuro che ogni sera mi addormento veramente contandole!ben tornata,paola