Un bel post di Anna sulla quotidianità della guerra mi ha fatto venire in mente un’altra riflessione, analoga. Si sono già allestiti, al confine tra Tunisia e Libia, i campi profughi. E qui parte l’immaginario collettivo delle anonime masse di povere vittime nelle tende, parallelo e in un certo senso complementare all’altro immaginario collettivo, quello delle masse (sfigate o minacciose, a seconda da chi le immagina) sui barconi che si riversano sulle nostre coste. Masse, immagini sfuocate, astrazioni. Tipo l’immagine standard del campo di concentramento, quel brulichio di vittime che sono solo tali, che mai e poi mai potrebbero avere le sembianze del nostro macellaio, vicino di casa, familiare, marito, figlio.
Tante volte mi trovo a spiegare le circostanze, in gran parte casuali, per cui ho iniziato a occuparmi di diritto d’asilo. Ma c’è stato un momento, che ricordo distintamente, in cui ho realizzato che il destino di quelli che chiamiamo profughi, rifugiati, potrebbe ben essere il nostro, di destino. Uno dei primi rifugiati che ho conosciuto era un professore universitario di storia antica. Distinto, dotto, benestante, sereno nel suo equilibrio familiare. Abituato a una routine da professionista, a uno standard di vita assolutamente paragonabile al nostro (nessuna capanna sull’albero, tanto per capirci, nessun bambino con la pancia gonfia di denutrizione). Poi ha scritto un libro che gli è costato il lavoro e anche la sicurezza, l’incolumità. Al punto che si è trovato costretto ad arrivare qui, in Italia, ad avere come unica chance di mantenersi un’improbabile candidatura come manovale in un cantiere della periferia romana. Quel professore, per certi versi, era il ritratto di mio padre. Come lui disabituato alle faccende pratiche, come lui incapace di barcamenarsi nella burocrazia, nella violenza quotidiana, nell’arroganza di chi ti dice “ciao bello” solo perché sei straniero, anche se hai sessant’anni e sei plurilaureato.
C’è un altro aspetto che mi colpisce della questione dei rifugiati. Che sono qui, che vivono con noi. Il ragazzo della sicurezza al supermercato potrebbe ben essere un giornalista camerunese, finito in un carcere segreto solo per le sue idee, per la sua resistenza alla corruzione, per un imperativo morale a denunciare qualcosa o qualcuno, a firmare o non firmare un documento. E noi lo trattiamo con condiscendenza, certi della nostra superiorità culturale, certi di essere guardati con invidia, come modelli irragiungibili. Certe volte, dopo dei colloqui con questi giovani rifugiati, mi sono sentita sinceramente a disagio. Penso che sentimenti ben diversi dall’ammirazione mi animerebbero, se fossi al loro posto. Nizam, che questa trafila l’ha passata tutta, ci scherza su amaramente: i rifugiati sono gli extracomunitari degli extracomunitari, sono quelli che non si possono neanche far forza della comunità, dell’import export, della propria ambasciata e della pubblicità dell’ufficio del turismo. Cani sciolti, che spesso – pur avendo resistito alla tortura, a viaggi a piedi durati anche decenni, a prove surreali durante il viaggio – arrivati qui si perdono, travolti dall’indifferenza di una Paese provinciale, retorico, arrogante e anche molto, molto violento verso i “perdenti”.
Ieri nel mio ufficio c’era un padre con una bambina di circa un anno, che muoveva i primi passi con quella spavalderia favolosa dei cuccioli (anche di quelli di uomo). Non so i particolari, ma quell’uomo è qui in Italia solo, con quella bambina. Si sta districando tra pratiche burocratiche, perizie, commissioni. Gli viene chiesto di raccontare la propria storia migliaia di volte, di imparare l’italiano, di fare file interminabili in Questura e altrove, di affannarsi nei meandri incerti e poco lineari di una procedura continuamente messa a rischio anche dai disinvolti provvedimenti come quello di cui ho parlato nel post precedente. E intanto deve crescere una bambina, da solo, sradicato da qualunque contesto e portandosi dietro un lutto che non posso neanche immaginare. Con tutto il rispetto per i nostri compagni, probabilmente questo padre non si chiude in bagno a giocare con l’i-phone, anche se magari lo desidererebbe.
Un’ultima pennellata, sempre scusandomi per la scarsa leggerezza che mi caratterizza in questi giorni. Pensate a una ragazza, giovane, tranquilla. Una ragazza a cui era stato dato un pezzo di carta chiamato “protezione internazionale”, già nel lontano 2008, in riconoscimento di violenze a cui nonostante tutto era sopravvissuta. Una ragazza che aveva fatto del suo meglio per imparare la lingua, per cercare una strada qui in Italia. Pochi giorni fa si è tolta la vita, in perfetta solitudine, in un luogo indegno di essere abitato, ma che era per lei l’unica possibilità di avere un tetto sopra la testa. A Roma, non in un remoto campo profughi africano. Nessuno dei suoi connazionali, che pure si stanno facendo in quattro per dimostrare solidarietà, sa spiegare perché. Nessuno, in fondo, sa nulla di lei. Se non che era tranquilla, a modo, garbata. E sola.
Questo post mi ha molto colpito.
Mi scuso di non avere troppe parole intelligenti per commentarlo, ma non riesco ad aggiungere nulla.
Una realta' che non immaginavo.